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La Chiesa ospedale da campo contro l’onda nera del nazionalismo

La Chiesa ospedale da campo contro l’onda nera del nazionalismo

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 04/03/2023

Qui l'introduzione a questo testo. 

Fra le battaglie politiche e culturali ingaggiate da Francesco, forse la più difficile e a tratti drammatica è stata quella per fermare l’ondata dei nazionalismi di destra che ha percorso e percorre il mondo. Per il papa, si è trattato di una duplice sfida: da una parte, infatti, il sovranismo promuoveva la fine di ogni idea di solidarietà, di impegno per ridurre il divario fra Paesi ricchi e poveri del mondo, di collaborazione fra popoli culture e fedi differenti; per questo diversi governi europei e partiti politici, urlavano l’urgenza di costruire barriere e fili spinati lungo le frontiere. Era l’esatto contrario di quanto proclamava il papa in termini di accoglienza dei migranti, di riconoscimento del volto umano della povertà, degli esclusi, dei dimenticati che popolano le tante periferie del mondo.

Il cattolicesimo di papa Francesco parlava la lingua della giustizia, dell’amore, dell’appartenenza di ciascuno alla stessa famiglia umana; d’altro canto, dal leader ungherese Viktor Orban agli ex presidenti di Stati Uniti e Brasile, Donald Trump e Jair Bolsonaro, il tentativo era quello di fondare l’ideologia sovranista su una religiosità tutta fervore, madonne e identitarismi chiusi in sé stessi dando vita a un cristianesimo inventato a tavolino, bigotto, che lanciava proclami di odio e negava le diversità etniche e culturali, una fede legata a un tradizionalismo feroce nel linguaggio e pronto ad armarsi contro i “nemici”. In questo contesto si sono mossi non pochi cattolici che hanno detestato il papa e il suo messaggio di apertura al mondo, di inclusione, un papa che – sul piano ecclesiale – proponeva il modello di una Chiesa «ospedale da campo», pronta ad accogliere chiunque ne avesse bisogno, una Chiesa che costruiva ponti, dialogava e collaborava con la scienza per la salvaguardia del Pianeta, chiedeva di aprire le porte ai poveri, promuoveva l’incontro con le altre religioni per affermare quel principio di cittadinanza, figlio dei diritti dell’uomo e della Rivoluzione francese, che costituiva il vero antidoto alle discriminazioni etniche, religiose e sociali.

Patria sì, razzismo no

In un discorso pronunciato davanti ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali nel maggio del 2019, Francesco spiegava: «La Chiesa ha sempre esortato all’amore del proprio popolo, della patria, al rispetto del tesoro delle varie espressioni culturali, degli usi e costumi e dei giusti modi di vivere radicati nei popoli. Nello stesso tempo, la Chiesa ha ammonito le persone, i popoli e i governi riguardo alle deviazioni di questo attaccamento quando verte in esclusione e odio altrui, quando diventa nazionalismo conflittuale che alza muri, anzi addirittura razzismo o antisemitismo». «La Chiesa – aggiungeva – osserva con preoccupazione il riemergere, un po’ dovunque nel mondo, di correnti aggressive verso gli stranieri, specie gli immigrati, come pure quel crescente nazionalismo che tralascia il bene comune». «Lo Stato nazionale – affermava il pontefice – non può essere considerato come un assoluto, come un’isola rispetto al contesto circostante. Nell’attuale situazione di globalizzazione non solo dell’economia ma anche degli scambi tecnologici e culturali, lo Stato nazionale non è più in grado di procurare da solo il bene comune alle sue popolazioni».

«Il bene comune – proseguiva – è diventato mondiale e le nazioni devono associarsi per il proprio beneficio. Quando un bene comune sopranazionale è chiaramente identificato, occorre un’apposita autorità legalmente e concordemente costituita capace di agevolare la sua attuazione. Pensiamo alle grandi sfide contemporanee del cambiamento climatico, delle nuove schiavitù e della pace».

E in effetti, il nazionalismo si dimostrava uno strumento politico inadeguato, anzi profondamente dannoso, per risolvere le crisi internazionali, anche sotto il profilo diplomatico come spiegava bene il segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin, nel corso della “lectio magistralis” tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica, a Roma, nel novembre del 2019. «Nelle Organizzazioni intergovernative – affermava Parolin – il percorso verso decisioni che coinvolgono tutti i Paesi è sempre faticoso e spesso comporta di sacrificare l’ego del nazionalismo o l’impellenza dell’interesse particolare. Si rischia, però, di negare l’essenza della diplomazia se non si riconoscono i contesti multilaterali come l’unica possibilità per gli Stati di ritrovarsi simultaneamente per dialogare, elaborare strategie, assumere decisioni e trovare soluzioni a questioni, come la pace, che sono necessariamente comuni».

Hitler e il populismo

Francesco ha riletto, da papa, il senso e il significato della parola “populismo” a partire dal contesto contemporaneo, che è quello di una perdurante e globale crisi economica capace di generare insicurezze e paure. In un’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El País nel 2017, Bergoglio affermava: «Per me l'esempio più tipico del populismo, nel senso europeo, è il 1933 tedesco». «La Germania distrutta cerca di alzarsi, cerca la sua identità, cerca un leader che gliela restituisca: c’è un giovane che si chiama Hitler e dice “io posso”. E tutta la Germania vota Hitler». «È stato votato dal suo popolo, e poi lo ha distrutto. Questo è il pericolo». «In tempi di crisi – affermava Francesco – non funziona la ragione», «cerchiamo un salvatore che ci restituisca l'identità e ci difendiamo con i muri». E nel 2019, tornando dalla visita apostolica in Marocco, toccava di nuovo la questione conversando con i giornalisti: «Vedo che tanta gente di buona volontà, non solo cattolici, ma gente buona, di buona volontà è un po’ presa dalla paura, che è la predica usuale dei populismi: la paura. Si semina paura e poi si prendono delle decisioni. La paura è l’inizio delle dittature». «Andiamo al secolo scorso – proseguiva – alla caduta della Repubblica di Weimar, questo lo ripeto tanto. La Germania aveva necessità di un’uscita (dalla crisi, ndr) e, con promesse e paure, è andato avanti Hitler; conosciamo il risultato. Impariamo dalla storia, questo non è nuovo: seminare paura è fare una raccolta di crudeltà, di chiusure e anche di sterilità. Pensate all’inverno demografico dell’Europa. Anche noi che abitiamo in Italia: sotto zero. Pensate alla mancanza di memoria storica: l’Europa è stata fatta da migrazioni e questa è la sua ricchezza». Dunque, Francesco collegava il tema dell’inverno demografico dell’Europa, a quello delle migrazioni perché ogni popolo è figlio anche dei grandi flussi migratori.

Siamo tutti figli di immigrati

«Anche la questione migratoria, che è un dato permanente della storia umana, ravviva la riflessione sulla natura dello Stato nazionale», rilevava il papa sempre parlando alla Pontificia Accademia delle Scienze sociali. «Tutte le nazioni – diceva ancora – sono frutto dell’integrazione di ondate successive di persone o di gruppi di migranti e tendono ad essere immagini della diversità dell’umanità pur essendo unite da valori, risorse culturali comuni e sani costumi. Uno Stato che suscitasse i sentimenti nazionalistici del proprio popolo contro altre nazioni o gruppi di persone verrebbe meno alla propria missione. Sappiamo dalla storia dove conducono simili deviazioni; penso all’Europa del secolo scorso».

L’ascesa del nazismo è insomma per papa Francesco l’apoteosi di un nazionalismo incontrollato, di una volontà di potenza che porta in sé i germi dell’autodistruzione. In tal senso, resta esemplare come uno dei momenti più alti del pontificato, il discorso che Bergoglio tenne al Congresso degli Stati Uniti nel 2015, parlando da papa americano ad altri americani: «Negli ultimi secoli – disse Francesco – milioni di persone sono giunte in questa terra per rincorrere il proprio sogno di costruire un futuro in libertà. Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri. Vi dico questo come figlio di immigrati, sapendo che anche tanti di voi sono discendenti di immigrati. Tragicamente, i diritti di quelli che erano qui molto prima di noi non sono stati sempre rispettati. Per quei popoli e le loro nazioni, dal cuore della democrazia americana, desidero riaffermare la mia più profonda stima e considerazione». «Quei primi contatti sono stati spesso turbolenti e violenti, ma è difficile giudicare il passato con i criteri del presente. Tuttavia, quando lo straniero in mezzo a noi ci interpella, non dobbiamo ripetere i peccati e gli errori del passato». «Dobbiamo decidere ora – aggiunse il pontefice – di vivere il più nobilmente e giustamente possibile, così come educhiamo le nuove generazioni a non voltare le spalle al loro “prossimo” e a tutto quanto ci circonda. Costruire una nazione ci chiede di riconoscere che dobbiamo costantemente relazionarci agli altri, rifiutando una mentalità di ostilità per poterne adottare una di reciproca sussidiarietà, in uno sforzo costante di fare del nostro meglio. Ho fiducia che possiamo farlo».

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