
Il ruolo della società civile nel Sudan in guerra
L'editoriale di maggio 2023 del periodico missionario dei padri comboniani Nigrizia prova a leggere il conflitto interno nel Paese che fu terra di missione del fondatore Daniele Comboni: “Il Sudan vacilla. Regge la società civile?”, titola l’articolo.
Benché in molti hanno tentato di ribadire la differenza tra una guerra civile (che prevede lo scontro tra gruppi della popolazione, magari con connotati etnici o religiosi) e uno “scontro interno” come quello attuale – che coinvolge i vertici dell’esercito e non la popolazione, unita e compatta nella parte della vittima – il timore della guerra civile ha continuato a serpeggiare nel corso delle quasi tre settimane di conflitto in Sudan, esploso il 15 aprile scorso. Nigrizia avverte che «lo scontro è particolarmente cruento» e che «non sappiamo che deriva ci sarà».
Il settimanale comboniano invita poi ad analizzare la situazione attuale con tre chiavi di lettura. La prima, quella della «rivalità personale» tra Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemetti), rispettivamente presidente e vicepresidente del Consiglio Sovrano del Paese, numero uno dell’esercito ufficiale il primo e leader dei paramilitari delle Forze di Sostegno Rapido (Rsf) il secondo. La seconda, quella degli «interessi geopolitici» in ballo, con il coinvolgimento di Paesi stranieri che desiderano allungare le mani sulle grandi risorse del Paese e sfruttarne la posizione geografica. Infine, la terza chiave di lettura punta dritto al «ruolo della società civile».
Proprio la società civile sudanese è stata protagonista dei grandi movimenti di protesta contro Omar al-Bashir e contro l’innalzamento dei prezzi del pane che hanno costretto l’esercito a sbarazzarsi nell’aprile 2019 del vecchio e ingombrante presidente autoritario e avviare la lunga e travagliata fase di transizione verso la democrazia e verso una gestione civile dei poteri.
La società civile, ravvisa Nigrizia, fino ad ora non si è sentita. «Per paura», presuppone. «Ma siamo di fronte a un movimento che è stato di un’ampiezza e di una profondità enormi: protagonista della prima rivoluzione anti-islamista e a vocazione democratica che mai ci sia stata in un paese al 90% musulmano. Molto meglio organizzato di qualsiasi altra forza, anche dopo la caduta del despota El-Bashir, pur non avendo armi. I suoi leader se ne stanno al coperto. Ma potrebbero, paradossalmente, anche rappresentare una porta per la speranza: questi militari hanno infatti dimostrato di non essere in grado di gestire il Sudan. E, dunque, a chi affidare le chiavi per la ricostruzione del Paese?».
Leggi l'editoriale di Nigrizia
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