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Morire a Gaza: alle radici dello scontro

Morire a Gaza: alle radici dello scontro

Com’è possibile, mi chiedo, che Israele dispieghi tanta potenza distruttiva, terrificante per le conseguenze che ha sulla popolazione di Gaza, intrappolata in poche centinaia di chilometri quadrati? Combattere i terroristi di Hamas? Ma se per un combattente ucciso muoiono decine di civili inermi, si può ancora dire che quella di Israele è la “legittima risposta” all’orribile strage compiuta da Hamas? O non è forse la volontà di arrivare alla soluzione finale con i palestinesi, con tutti i palestinesi di Gaza? O morti o espulsi, come fu nel 1948.

Anche lo squilibrio delle forze in campo è impressionante. Quello di Israele è uno degli eserciti più potenti del mondo, più forte di tutti i Paesi arabi del Medio Oriente messi assieme e dello stesso Iran che pure arabo non è, ma che da tempo si presenta come il più pericoloso nemico di Israele.

In tutti questi anni, nei momenti di maggiore tensione, ai lanci di razzi da parte di Hamas, razzi che facevano paura, ma relativamente poche vittime in territorio israeliano, la risposta è stata sempre devastante, con centina di morti tra i palestinesi.

Com’è possibile tutto questo da parte di uno Stato che si considera (ed è comunemente considerato, almeno in Occidente) uno Stato democratico? L’unico, addirittura, in tutta l’area mediorientale?

Come capire l’ossessione di Israele per la sua sicurezza? Solo perché Hamas vorrebbe la cancellazione dello Stato ebraico?

A ben guardare lo squilibrio delle forze in campo, e in aggiunta l’appoggio incondizionato a Israele da parte della più grande potenza del mondo, gli USA, e ora anche dell’Europa, rende risibile la giustificazione di tanta violenza. Come se alle atrocità compiute da Hamas si dovesse rispondere con crimini di guerra, perché altro non si possono chiamare i dodicimila morti accertati (ma solo al momento attuale) a causa dei bombardamenti incessanti, più tutti i corpi rimasti sepolti sotto le macerie, più le innumerevoli vittime come conseguenza della mancanza di cure negli ospedali, quelli che ancora sono rimasti in piedi.

La risposta a quanto accade oggi in Palestina va inquadrata in una storia che viene da molto, ma molto lontano. È la storia di un popolo disperso duemila anni fa, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, e perseguitato ricorrentemente per secoli, almeno fino all’800 ma anche oltre, all’interno di Stati cosiddetti cristiani. E non si è trattato di una semplice emarginazione sociale. Gli ebrei in molti stati d’Europa furono ghettizzati, costretti a conversioni forzate e perseguitati in tutti i modi. Ricorrenti furono le stragi di ebrei “colpevoli della morte di Cristo”, come furono considerati per secoli. Soprattutto nei momenti di crisi e difficoltà (carestie, pestilenze…) il popolo ebraico in diaspora divenne il capro espiatorio. Soprattutto nell’Europa dell’est i pogrom si sono succeduti fino a epoche relativamente recenti.

Paradosso della storia: gli ebrei espulsi dalla cattolicissima Spagna nel XVI secolo trovarono rifugio soprattutto in terre musulmane.

Il sionismo, il progetto di ricondurre gli ebrei sparsi nel mondo nei territori da cui un tempo furono cacciati, è nato nemmeno due secoli fa, quando in Europa una pluralità di popoli si costituivano in nazioni. Tale intento fu alimentato dalla incapacità degli stessi stati europei di dare piena attuazione alle nuove leggi liberali che garantivano piena cittadinanza agli israeliti.

Se per alcuni di loro si trattava di arrivare in una terra abitata da arabi per convivere pacificamente con loro, in altri prevalse l’idea che gli ebrei, popolo senza terra, avessero tutto il diritto di occupare una “terra senza popolo”, quando in realtà un popolo già c’era, anche se ancora non organizzato in Stato autonomo, facendo parte dell’Impero Ottomano fino alla disgregazione di quest’ultimo.

Si trattava perciò di realizzare una vera e propria occupazione di stampo coloniale: cacciare gli arabi per dare spazio agli ebrei.

Il dramma della shoah, il genocidio perpetrato dal nazismo, non ha fatto che alimentare nel popolo ebraico l’idea che senza un proprio Stato non sarebbe mai stato al sicuro. E per molti sionisti il nuovo Stato avrebbe dovuto essere il grande Israele, quello della Bibbia, a costo di costringere gli arabi che vi abitavano da secoli ad abbandonare le proprie terre e le proprie case.

Molti israeliani, oggi, vorrebbero vivere pacificamente accanto a uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Ma i vari governi che si sono succeduti in Israele hanno incentivato per decenni l’immigrazione di ebrei da ogni parte del mondo, ai quali vennero date sempre nuove terre, con il sistematico allontanamento dei palestinesi.

Nel corso del tempo quelle che erano fattorie isolate sono diventate prima villaggi e poi vere e proprie città fortificate con la presenza di coloni armati, sempre in prima fila nei ricorrenti scontri con i palestinesi ai quali sottraggono sempre nuove terre.

Se guardiamo sulla carta geografica i cambiamenti avvenuti dal 1948 a oggi, vedremmo gli spazi dei palestinesi ridursi progressivamente. Senza il ritiro dei coloni dai nuovi insediamenti non si potrebbe nemmeno immaginare un futuro Stato dei palestinesi, dato che al momento attuale gran parte di loro vive in territori separati gli uni dagli altri che vanno progressivamente riducendosi. Una situazione insostenibile che molti osservatori hanno paragonato ai bantustand del Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

Le conseguenze dell’attuale conflitto Israele-palestinesi (dire Israele-Palestina non è corretto, ormai, perché lo scontro è tra uno Stato sovrano e un popolo ghettizzato o disperso) sono terribili, e sommamente pericolose.

Innanzitutto si alimentano odio e paura da una parte e dall’atra. Tra i palestinesi non sembra che il prestigio di Hamas sia in calo, come viene sbandierato scioccamente in Occidente. Al contrario cresce fra gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania una rabbia incontenibile contro lo Stato sionista. I bombardamenti a tappeto che hanno ridotto Gaza in macerie, con tutti quei morti, quei feriti, quegli affamati, quei profughi non fanno che esacerbare gli animi e compattare le varie fazioni dei palestinesi attorno ad Hamas. Lo si è visto chiaramente in questi giorni, anche all’estero, tra gli arabi emigrati in ogni parte del mondo.

Da parte di Israele e dai governi occidentali si grida al pericolo di un risorgente antisemitismo di massa. Allo stato attuale non sembra sia così. Da Londra a New-York, da Parigi a Roma nelle proteste filopalestinesi che si susseguono imponenti e incessanti e che vedono pure la partecipazione di ebrei pacifisti, non si fanno sentire se non raramente, e comunque sempre isolati, slogan contro gli ebrei in quanto tali, nonostante l’odio che viene espresso nei confronti dello Stato sionista.

Ma sarà così anche domani?


* Foto cover di hosny salah da Pixabay

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