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Complessità e stratificazioni nella realtà degli abusi

Complessità e stratificazioni nella realtà degli abusi

Tratto da: Adista Documenti n° 42 del 09/12/2023

Qui l'introduzione a questo testo. 

Affrontare il tema degli abusi nel contesto ecclesiale è una impresa complessa come complesso e stratificato è il fenomeno, che richiede un approccio multidisciplinare trasversale. Partire dal caso Rupnik ci consente di leggere in filigrana il modello sistemico di quel versante degli abusi che coinvolge donne adulte. Intendo qui semplicemente offrire qualche suggestione, alcune piste di lettura e di ricerca che esplicitino la complessità della questione che non può essere affrontata se non con una lente trasversale alle competenze e, direi, inclusiva, comprensiva di diverse sensibilità e punti di osservazione.

Il caso Rupnik permette di enucleare diversi aspetti e modelli ricorrenti: la presenza di una figura carismatica; la dinamica di mistificazione del discorso teologico, piegato a giustificare una prassi abusiva, con un abuso di potere e psicologico che spesso, ma non necessariamente, diventa sessuale; il contesto dell'istituzione ecclesiale. Aspetti ancora poco indagati e poco visibili, rispetto, per esempio, a quanto emerso sul versante della pedofilia, ma che con esso condividono il silenzio, la stigmatizzazione e l'isolamento delle vittime, nonché la protezione dell'istituzione, come ampiamente dimostrato dal caso dei fratelli Philippe, di Jean Vanier. Del silenzio su questo tipo di abusi è responsabile anche il prezzo spesso troppo alto da pagare per chi denuncia, che diventa oggetto di una rivittimizzazione; sorpattutto nelle congregazioni e nelle istituzioni di vita consacrata, ancora di più quando si decide di abbandonare l'istituzione, spesso dopo aver prestato il proprio servizio per anni ma senza alcuna garanzia e tutela economica, e spesso senza avere consapevolezza che anche questo aspetto è una forma di abuso.

Circoscrivere e definire l'abuso

Dopo l'emergere degli abusi sessuali sui minori, caratterizzati da una maggiore circoscrivibilità giuridica e per questo più riconoscibili, più “dicibili” (il che non significa che siano stati più facilmente gestiti dall'istituzione), altri versanti sono emersi: abusi di coscienza e psicologici, all'interno delle stesse istituzioni ecclesiali, come le congregazioni religiose o le comunità o i movimenti; abusi patrimoniali, abusi riproduttivi, più difficili da chiamare con un nome che abbia un riscontro sul piano giuridico penale, ma tutti definiti da una violazione radicale dell'intimità, tutti originati da un primigenio abuso di potere. O per meglio dire, quello che la religiosa e teologa spagnola Ianire Angulo Ordorika chiama «un confluire di elementi che possono degenerare in un "uso perverso del potere"» (cfr. “La presencia innombrada. Abuso de poder en la Vida Consagrada”, in Teologia y Vida 62/3, 2021, pp. 357-388, tradotto da Adista, 1/4/22), e che può portare, infine, all'abuso sessuale. C'è dunque anche un problema di riconoscibilità e di esprimibilità dell'abuso, da parte di chi lo subisce, che è sempre al centro di una invisibile tela di ragno, oggetto di una manipolazione, di un incantamento spirituale (lo spiega molto bene Celine Hoyeau nel suo libro sul tradimento dei grandi e brillanti e affascinanti fondatori di comunità, cfr. Il tradimento dei Padri, Queriniana 2023); e c'è il silenzio dell'istituzione, che tacendo e negando pensa di rendere invisibili l'abuso e le vittime e di piegarle all'inesistenza. Ecco che allora dare spazio alla voce delle persone sopravvissute e riconoscere i segnali dell'abuso diventa importante: significa dare un nome al vissuto abusivo, riconoscerne le coordinate, gli attori, il contesto, dal momento che perché un abuso avvenga ci deve essere un predatore, una persona che subisce e un contesto che favorisce, che rende possibile e che contiene e ammortizza. C'è sempre una forzatura dell'autorità spirituale, ci sono fasi precise e successive di assoggettamento della persona (love bombing, isolamento, manipolazione, ricatto...), ci sono aspetti strutturali malati nell'identità delle comunità che producono derive settarie, l'humus in cui l'abuso avviene (tanti hanno costruito criteri di valutazione che aiutano a riconoscere le red flags, i segnali della deriva, ad esempio nelle nuove comunità, via via integrandoli man mano che si acquisiva una maggiore consapevolezza del fenomeno).

Il contesto va infatti considerato un attore in sé, laddove ad esempio figure di autorità di governo e spirituali si fondono e si confondono, creando rapporti inestricabili il cui esito ineluttabile è il controllo sul singolo e l'annullamento della sua individualità. Il contesto è anche però la rete di protezione strutturale e sistemica di cui il predatore gode e quell'insieme di disfunzioni di governo che blinda l'abuso in un luogo silenzioso e inaccessibile, che crea le condizioni che non solo possono favorire l’abuso, ma contribuiscono a non farlo emergere e a non nominarlo. Così come predatore non è solo l'esecutore materiale dell'abuso, ma anche il sistema di connivenze e complicità che protegge l'esecutore e l'istituzione stessa. Ci sono allora diversi piani da esaminare, ma il comune denominatore è la caratteristica sistemica. È ormai chiaro che non delle famose “mele marce” si tratta, né di episodi occasionali di abuso, né di semplice cronaca, né di danni collaterali, quanto di un sistema complesso di relazioni interdipendenti, di una questione che ha a che fare con il cuore della Chiesa e come tale va affrontato, indagando le cause (in funzione preventiva), le condizioni e le conseguenze a vari livelli (personale psicologico, spirituale, sociale). Ricordiamo che l'abuso spirituale è una manipolazione compiuta in nome di Dio, in cui anche le Scritture vengono distorte e piegate per giustificare controllo e abuso. Fronti di ricerca si aprono dunque da tutte le parti.

Vittime del patriarcato

Quando si cercano le cause dell'abuso nella Chiesa bisogna fare i conti in primo luogo con il retaggio patriarcale e maschilista, che determina ruoli apicali per gli uomini, asimmetrie di potere (a svantaggio delle donne e dei bambini) e contesti che rappresentano un piano inclinato verso gli abusi. Non dobbiamo dimenticare che l'85% degli aggressori è costituito da uomini. C'è poi un aspetto strettamente legato a una teologia dell'autorità nella Chiesa e all'esercizio di tale autorità, in capo alla figura del ministro ordinato, del prete, portatore di una differenza presuntamente ontologica rispetto al resto del popolo di Dio che lo colloca in alto, in una posizione di superiorità che è difficile mettere in discussione.

Il potere del servizio

Qui è molto utile la chiave di lettura del “copione del potere” nella Chiesa cattolica, un potere inattaccabile in quanto concepito come servizio. Ciò genera infatti un punto cieco, ossia l'impossibilità, già nelle premesse, di pensare a un abuso di “servizio”, in quanto potere, ed entrano in gioco quelli che due studiosi francesi, la giurista Constance Lalo e il sociologo Josselin Tricou, parlano, in un saggio sull'abuso come specificità cattolica, di “impensati” del copione cattolico (processi cognitivi inaccessibili all’introspezione cosciente; “Si cet homme n’avait pas été prêtre…”. Patriarcalité du pouvoir, script catholique et pédocriminalité dans l’Église», in Cahiers d’histoire, 147, 2020, tradotto da Adista, 5/10/22). Si tratta di due meccanismi che giocano un ruolo fondamentale nella resistenza dei cattolici a denunciare e gestire i comportamenti abusanti dei preti a favore della protezione e riparazione delle vittime: la difficoltà, come detto, di considerare la possibilità di abuso di potere – quest'ultimo concepito come servizio – e la difficoltà di vedere il consenso sessuale come il punto nodale di ogni attività sessuale. Si assume spesso come punto di partenza che la persona adulta sia libera e che, se non si oppone a un’azione altrui, sia ipso facto consenziente. Questa non è una difficoltà soltanto ecclesiale, perché anche nei sistemi di giustizia civile è difficile valutare e punire questo tipo di abusi, molto frequenti sul posto di lavoro e in famiglia. Il potere ecclesiastico espresso come servizio, insomma, è straordinariamente efficace. L’istituzione del potere-servizio e la sua retorica tendono a rendere invisibile non solo il predominio maschile strutturale all'interno dell'istituzione, ma soprattutto l'asimmetria del potere all'interno di ogni rapporto interpersonale con un prete. L'idea del potere nella Chiesa come servizio associato a un grande sacrificio personale dell'individuo maschio che lo esercita – l'uomo che ha rinunciato a tutto, a forme di potere economico, politico e sessuale, ossia i tratti e le pratiche caratteristiche della “mascolinità egemonica” – colloca il prete “al di sopra degli uomini” e ancor più sicuramente al di sopra delle donne e dei bambini.

Sul discorso della sessualità si apre ancora un altro fronte di ricerca; Erich Fuchs, teologo protestante, ha rimarcato che all'interno della Chiesa cattolica «è la gestione rigorosa della sessualità che qualifica sia l'autorità del chierico sia l'obbedienza dei laici», il che lo portava a concludere, sul funzionamento della Chiesa: «La morale [là] è dunque più un campo di battaglia che una questione specifica: si combatte sulla morale per lottare in realtà sull'ecclesiologia», cioè sul mantenimento e sulla legittimità del potere così come è organizzato.

Vulnerabilità, vulneranza, vulnus

Come si fa a fare ordine in questo universo? Una chiave per esaminare tutte queste piste è la vulnerabilità, un concetto molto vasto la cui espressione più ristretta è la definizione tecnica contenuta nei documenti vaticani (chi non è in possesso della propria facoltà di ragionare, ecc.), ma che in realtà abbraccia la complessità dell'essere umano: nella vita si può incontrare una fase di vulnerabilità come momento di fragilità esistenziale, si possono portare le conseguenze di un trauma che lascia esposti, ma la vulnerabilità è anche una «porosità ontologica» propria dell'essere umano (secondo una definizione utilizzata da Marie-Jo Thiel nel libro Plus forts car vulnérables!, Salvator 2023), una permeabilità alla relazione. La vulnerabilità è una chiave di lettura utile perché chiama in causa tutti gli attori: l'autore dell'abuso (radicato nella sua formazione lacunosa, carente, nel modello culturale che questa veicola, nella struttura della Chiesa con i suoi insegnamenti di etica sessuale); le vittime, sulle quali la definizione di essere vulnerabile cade ancora troppo spesso come una condanna, quasi una responsabilità rivittimizzante, ma soprattutto il contesto, ambito che va ancora molto scandagliato e sottoposto a profonde riforme.

La vulnerabilità è una categoria che va applicata non a uno status ma ai contesti, alle pratiche, ai ruoli, agli avvenimenti che rendono vulnerabili nel senso del vulnus (si parla qui allora di vulneranza, cioè la capacità di un contesto o di un setting di rendere fragile perché determinato dal cocktail pericoloso di asimmetria di potere e mancanza di regole, come accade nel rapporto uno a uno dell'accompagnamento spirituale o nella confessione. Vulnerante è anche il sistema ecclesiastico che continua a proteggere gli autori di abusi, a stigmatizzare e isolare i sopravvissuti; vulnerante è un sistema che legittima condizioni di lavoro disumane, senza garanzie né forme di previdenza (come nel caso di laici interni a certi movimenti ecclesiali, o delle religiose ridotte a fare le sguattere nelle congregazioni). Vulnerante è il sistema in cui la gerarchia rifiuta di esercitare trasparenza: sottolinea M. J.Thiel che non è un caso che il termine anglosassone accountability – che non corrisponde solamente a “responsabilità”, quanto a “capacità, ma anche dovere di rendere conto del proprio operato, riunendo insieme credibilità e trasparenza” – non esista nelle lingue romanze, parlate nelle società dove la Chiesa cattolica è maggioritaria). Si può parlare dunque anche di una vulnerabilità del linguaggio che può prestare il fianco a una retorica di copertura dell'abuso: il diritto ha tutta una serie di termini per gli atti abusanti; non così il linguaggio religioso, che tende a infantilizzare, a minimizzare, a girare intorno con eufemismi (i “gesti inappropriati”).

Le nozioni di vulnerabilità e vulneranza sono essenziali dunque per comprendere molto del fenomeno degli abusi e riconoscerne le cause, ma sono utili anche per dare un nome agli esiti traumatici a lunghissimo termine delle aggressioni sessuali o meno (PTSD): c'è un ampio spettro di patologie fisiche e psichiche, più spesso entrambe, che ancora si stenta a riconoscere come vulnera conseguenti al trauma dell'abuso, con conseguenze anche di portata sociale.

L'istituzione è riformabile?

Di fronte a questa complessità, bisogna porsi una domanda scomoda: l'istituzione è realmente riformabile? Se rispensiamo al caso Rupnik, vediamo come la decisione di papa Francesco di revocare la prescrizione per i casi di abuso sessuale sia sì aneddotica, isolata, ma non si può negare – e anzi occorre sottolineare – come potenzialmente costituisca un precedente importante per il riconoscimento della vulneranza dell'istituzione e per il riconoscimento del danno inferto a vittime adulte. La condizione perché ciò accada a livello sistemico è che la gerarchia della Chiesa si metta in discussione, che cessi di proteggere sé e la propria immagine, guardando alle vittime e riformandosi profondamente. Ma l'autoprotezione sembra essere stata sempre la preoccupazione prioritaria delle gerarchie, da tempi molto lontani ben consapevoli degli abusi. Già nel 1922, come si sa, venne redatto un primo testo di condanna degli abusi sessuali sui minori, rimasto segreto prima di essere modificato e pubblicato nel 1962 dal Sant'Uffizio sotto il nome di Crimen sollecitationis. Ma oltre a questo c'è un fatto poco noto, e cioè che nell'ambito della preparazione al Concilio Vaticano II si svolse un dibattito al quale parteciparono nel maggio 1962 un centinaio di vescovi, tra cui il futuro papa Paolo VI. Ne parla in un articolo su Le Monde (31/10) Agnès Desmazières, storica, teologa e specialista del cattolicesimo contemporaneo. Negli archivi del Vaticano II insomma c'è una traccia ben visibile della consapevolezza della Chiesa delle violenze sessuali, ma non ha saputo riformarsi. Il dibattito ha girato in tondo, è andato in loop, occupandosi più che altro del dilemma se fosse opportuno trattare l'argomento in sede conciliare, dove i media erano attenti e recettivi. La preoccupazione di presentare un'immagine positiva della Chiesa cattolica ha così portato, alla fine, a oscurare il problema. Ma il modo in cui prese le mosse quel dibattito è indicativo. Il Pontificio Ateneo Salesiano, preoccupato per gli abusi in ambito scolastico cattolico, di fronte all'emergere di una nuova "sensibilità sociale", aveva chiesto una più dura criminalizzazione della violenza sessuale contro minori e che fossero riconosciuti i crimini “sociali” commessi dal clero, segno di una maggiore percezione dei vari attentati alla dignità delle persone. Quella proposta fu la base di uno schema giuridico piuttosto severo, destinato ad essere approvato in assemblea conciliare, in cui era previsto che gli aggressori sessuali, chierici o religiosi, fossero scomunicati latae sententiae, la pena più grave che possa essere inflitta. Prima di essere proposto alla discussione, il piano venne (animatamente) discusso in seno alla commissione preparatoria centrale, al fine di valutare se l'esame del documento potesse essere inserito nell'ordine del giorno conciliare. Con posizioni polarizzate: il cardinale di Bordeaux Paul Richaud riteneva la nuova sentenza «molto opportuna e necessaria» e chiedeva di innalzare l'età delle vittime a 21 anni; il cardinal vicario Clemente Micara era convinto che la scoperta dell'«abominio» della violenza sessuale clericale avrebbe causato «grande disonore per l'ordine clericale e per il celibato ecclesiastico». Il futuro papa Paolo VI non si schierò. Insomma, alla fine non se ne fece nulla. La questione fu rinviata alla stesura del nuovo Codice di Diritto Canonico, che avrebbe visto la luce solo nel 1983 portando al perpetuarsi dell'impunità. Si torna dunque alla domanda: l'istituzione ecclesiale è capace di riformarsi? Si può sperare che l’assemblea generale del Sinodo dei vescovi del 2024 osi prendere posizione frontalmente, smascherando la cultura ecclesiastica sottesa? Lo potrà fare, forse, a condizione che senta sempre più forte la pressione: dall'interno e dall'esterno, dal popolo della Chiesa.

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