Dalla religione che aliena alla fede che responsabilizza
Tratto da: Adista Documenti n° 3 del 27/01/2024
Qui l'introduzione a questo testo.
Il discorso fondamentale che dovrebbe essere acquisito dall'esperienza del Concilio e dall'esperienza del primo dopo Concilio e che veniva portato da una serie di spinte tra i cristiani e soprattutto da una serie di responsabilità durante l'ultima guerra mondiale, era la distinzione tra una religione del sacro, una religione cioè che giustamente i positivisti e i marxisti avevano definito alienante, oppiacea, che distraeva l'uomo dalle sue responsabilità, dalla condivisione della condizione umana, per proiettarne le aspettative, le speranze, le tensioni in un aldilà. Però in un al di là non in continuità con la nostra vita, ma quasi una sorta di premio congelato fuori della storia.
In contrapposizione a questa religione alienante c'è una fede invece responsabilizzante, una fede che è ascolto competente con l'avvenimento fondamentale della storia della salvezza che è Cristo, figlio di Dio, la sua parola, la sua uccisione, la sua crocifissione e il suo essere il Vivente nella storia della fede cristiana e nella storia degli uomini.
Ecco proprio su questo ci dobbiamo fermare, perché in molti di noi, più o meno, risiedono ancora nelle pieghe della nostra vita, del nostro costume di cristiani, degli aspetti di alienazione religiosa. Potrei dire che perfino nelle comunità di base ci sono ancora tanti aspetti, tanti momenti consolatori.
Tante volte si è consapevoli che bisogna superare certi ritualismi e pur avendoli semplificati, ridotti proprio all'osso sia per motivi soggettivi interni sia anche per non fare ulteriori rotture, per non fare fughe in avanti con il corpo complessivo dei cristiani, si è ancora indulgenti per certi momenti rituali, vissuti come assoluto, come momenti di salvezza e non come espressioni di linguaggio della fede.
Quindi sulla religione alienante ci dobbiamo ancora fermare un po'. Io anzi vorrei dire, senza polemica, ma con chiarezza, che ho la sensazione che in questo momento della vita della Chiesa vi sia un certo rilancio di una religiosità di tipo consolatorio, e di tipo purificatorio; cioè una religiosità che sostanzialmente sottrae l'uomo all'impegno per la liberazione dell'uomo, per la salvezza della società, per la costruzione di un futuro diverso.
Qualcuno mi potrebbe obiettare che (tutti avranno capito che alludo alla linea dell'attuale pontefice Giovanni Paolo II) che i pronunciamenti del Papa fatti pubblicamente alle Nazioni Unite o alla FAO son di carattere responsabilizzante, non solo di carattere elusivo, però son forniti in contraddizione con il modo in cui è concepita la religione che si presenta ai cattolici di oggi.
La figura, per esempio, del prete che viene ancora presentata come quella di una persona appartenente a una casta sacerdotale, una casta separata che ha provenienza, strumenti diversi, un linguaggio, comportamenti, uno stato civile, il celibato, e anche diciamo dei proventi di vita, in modo da guadagnare ciò che è necessario al suo sostentamento, separato dagli altri.
Il che pone naturalmente questa figura sacrale su un piedistallo diverso e crea i presupposti per una costruzione gerarchica della Chiesa, la quale (se noi guardiamo indietro nei secoli) può essere anche comprensibile proprio come mondanizzazione della Chiesa. Però, nel momento in cui si è arrivati, sia per il dialogo con i protestanti, sia anche con la maturazione interna del mondo cattolico, sia per gli appelli che venivano dall'uomo moderno, si è arrivati a concepire la figura del prete come un servizio a livello orizzontale.
Lo stesso direi per la figura di Cristo nella comunità umana e cristiana. Questo rilancio del prete come figura sacrale è indubbiamente un ritorno indietro e questo spense il dibattito in merito. Lo stesso dicasi per il modo con cui vengono nuovamente concepiti i sacramenti. Sono stati fatti molti sforzi in questi ultimi anni per concepire il momento del battesimo o il momento dello spezzare il pane o il momento della remissione dei peccati non come dei momenti rituali, dei momenti in cui la vita quotidiana veniva a passare attraverso delle scadenze amministrate più che altro per consuetudine.
Si seguita a battezzare i bambini solo perché lo si è sempre fatto, si seguita a sposarsi in chiesa senza domandarsi molto che differenza passi tra contrarre un vincolo sul piano sociale e su quello giuridico di fronte allo Stato e cosa significhi invece porre questa unione umana come segno di una realtà storica e salvifica diversa, segno dell'amore eterno tra Dio e il suo popolo.
Lo stesso per la remissione dei peccati: s'era aperta dopo il Concilio una riflessione molto seria per cercare di sottrarsi a quel tipo di gestione della remissione dei peccati che era la confessione auricolare; gestione piuttosto privatistica anche impastata di sentimenti che la psicologia moderna ha considerato un po' ambigua. Perché voi ricorderete la distinzione tra dolore perfetto e dolore imperfetto. La Chiesa non è che avesse anche una dottrina pura e veritiera sulla contrizione per cui l'uomo, nel confronto tra l'amore cui è chiamato dal messaggio evangelico e il suo comportamento, avverte un senso di rottura e quindi si converte.
Questo la Chiesa lo ha sempre detto, per fortuna, ci mancherebbe altro! e questo era decisivo nei confronti della condizione dell'uomo. Tant'è vero che qualsiasi teologia, anche la più tradizionale, ha sempre giustamente insegnato che, di per sé, il ristabilire il rapporto con Dio era un fatto istantaneo e l'accostarsi alla confessione diventava un fatto necessario e utile, ma dentro una disciplina, anche per rendere pubblica la propria confessione. Quindi la Chiesa ha avuto sempre una dottrina sostanzialmente pura in proposito.
Devo fare una riflessione e approfondire il discorso: ma la prassi, però, che toccava il 99% dei cattolici era diversa, era quella del cosiddetto dolore imperfetto, cioè era uno strano impasto di vergogna delle azioni commesse e di paura delle pene conseguenti. Sia pene temporali: Dio che ti fulmina con qualche malattia, ti fa venire una disgrazia in casa, o che non benedice i tuoi raccolti, o che commina pene nell’aldilà, nel purgatorio o addirittura nell'inferno.
Questo misto di paura e di vergogna, che la situazione moderna considererebbe tutt'altro che liberante, non era risolvente della condizione di peccato della persona; quindi, gli si doveva aggiungere obbligatoriamente l'additivo della confessione auricolare, cioè di un atto istituzionale, di un atto sacrale.
Ora tutto questo, (che poi era quello che riguardava le masse dei cristiani che vivevano sovente in maniera piuttosto confusa la loro morale cristiana ma complessivamente consolidavano la condizione di peccato, di miseria morale, di compromesso, di vergogna) non aiutava l'uomo a voltare veramente le spalle al male e a guardare quali fossero le sue vere responsabilità. Questo a parte i mistici, i vertici della religiosità o le singole persone che potevano vivere dell'ossigeno e dell'aria pura della carità, dell'amore cristiano.
Ora questo rilancio, in questo momento, della confessione auricolare è una mortificazione di tutte le esperienze fatte dopo il Concilio. Così come un rilancio attuale delle forme concordatarie nella società ci impone nuovamente di fare discorsi che ci sembravano superati già con la teoria di Karl Barth, con Bonhoeffer, anche con teologi cattolici, i teologi della liberazione, con certe parti preziose della Gaudium et Spes, certe frasi preziose del Concilio.
Dobbiamo di nuovo sottoporre a critica serena, ma implacabile, questo ritorno a una religiosità particolaristica, meticolosa, che ha anche una considerazione ambigua dell'impegno per il sociale, quell’impegno per la giustizia fra i popoli e per i diritti umani portato avanti da credenti che hanno questo tipo di visione della salvezza, quasi un po' materialistico; un impegno che passa attraverso momenti celebrativi istituzionali e non attraverso un profondo cambiamento della propria vita, da misurare sul numero o sulla quantità delle preghiere dette o delle chiese frequentate o degli atti sacramentali compiuti, e non sui rapporti tra le persone.
Ecco, mi sorge il dubbio che il cattolico che si impegnasse nella lotta per i diritti umani e per la giustizia con questa impostazione, abbia indovinato il modo giusto di porsi, una volta uscito dalle enunciazioni generali.
Purtroppo, tutti oggi parlano di pace, di giustizia, di autodeterminazione, di libertà di parola, di libertà di opinione, di libertà di ricerca, anche i dittatori.
Andare con un taglio di discorso preciso, individuando dove sono gli snodi del discorso vero di liberazione, secondo me, con una religiosità quale si sta rilanciando oggi, è difficile!
Sono anni che nelle comunità di base si fa una rilettura molto seria che attende ancora di essere confrontata con la ricerca biblica complessiva della Chiesa e del modo con cui Gesù disse e propose la fede agli uomini.
Anche se non possiamo dire: siamo noi che abbiamo l'unica vera lettura del Vangelo, siamo abbastanza convinti che più ancora che le parole, fossero importanti la prassi religiosa di Gesù, il suo modo di stare fra la gente, il suo modo di sovvertire le regole tradizionali della religione, il suo modo di dissacrare alcuni precetti fondamentali, quali astinenza dell'operare il sabato, astinenza da atti impuri, il non frequentare persone impure e così via, e ancora, il suo modo dissacrante di rapportarsi anche con i vertici istituzionali della religione del tempo, con la casta sacerdotale, con la setta dei Sadducei, con i Farisei, con gli Scribi, con la stessa istituzione del Tempio che indubbiamente era centrale per il popolo ebraico. È quello poi il motivo per cui Gesù viene condannato a morte: per avere bestemmiato contro il tempio, avere dichiarato che il tempio era precario, era transitorio e sarebbe stato distrutto e sarebbe stato lui che l'avrebbe ricostruito in tre giorni.
Logicamente era chiaro che proponeva non più come luogo di aggregazione della salvezza un tempio costruito da mano d'uomo, fatto di scalini, di pronai, di astri, di santuari, di celle, di luoghi per i sacerdoti più elevati in rango, di luoghi per i Leviti, ma proponeva come nuovo luogo di salvezza e di recupero dell'amicizia con Dio il suo corpo spezzato e dato, un luogo che noi diremmo democratico, conviviale, alla portata di tutti: il pane si spezza sulla tavola, si spezza in una casa là dove degli uomini lo spezzano e in questo riconoscono il gesto di Cristo che dà la sua vita per gli altri; lì è presente la salvezza e non più in un tempio, la cui stessa struttura architettonica scandisce una gerarchia anche nella formazione sociale del popolo.
Quindi Gesù dissacra tutto questo e le sue stesse parole devono acquistare peso. Non sono soltanto le opinioni di un moralista, di un predicatore illustre, sono le parole di uno che si presenta come il compimento delle aspettative del suo popolo, come figlio di Dio, e che in questo compimento dà un peso particolare alle sue parole, che di per sé sono ortodosse per la tradizione rabbinica, però cambiano di segno per il modo dissacrante con cui Lui vive la religione. Su questa mia affermazione però o si è d’accordo oppure naturalmente diventa estremamente fragile tutta la posizione delle comunità di base o anche il discorso di questa sera.
Ecco io non mi posso molto soffermare su questo; comunque, c’è stata una serie di ricerche fatte dalla stampa sulle Comunità di base che nessuno ha smentito; anzi direi che molti teologi cattolici, anche di qualità a livello internazionale, non hanno potuto dire altro che quanto si diceva era scontato a livello esegetico.
Per la prima volta, in confronto con una realtà sociale dinamica e con il bisogno di incarnare tutto questo nella storia di oggi, eccellenti esegeti, sia da parte protestante come Joachim Jeremias, sia da parte cattolica come Jacques Dupont, avrebbero potuto dire esattamente le stesse cose che noi diciamo sulle beatitudini, sul Cristo dei poveri, sul Cristo degli oppressi; soltanto che per loro significava, legittimamente dato il loro taglio culturale, semplicemente mettere a fuoco il significato profondo di certe parole di Gesù. Per noi significava invece mettere a fuoco la responsabilità del cristiano di incarnare oggi questo modo di vivere la fede e la religione nelle situazioni sociali concrete.
Una seconda forma di legittimazione del discorso è che, in realtà, se è vero che nella stragrande maggioranza dei casi le Chiese storiche (notate bene: non solo quelle cattoliche, ma sovente anche quelle protestanti o quelle ortodosse) hanno seguitato a gestire una religione sacrale e a organizzare una Chiesa piramidale e gerarchica, sta di fatto che nel corso dei secoli alla base delle Chiese comunque il Vangelo è arrivato.
Questa provocazione a vivere nella fede e a spendere la propria vita in una disponibilità verso gli altri rovesciando le parole di Caino: «Son forse io il custode di mio fratello?», portava alla certezza che non si poteva avere un rapporto con Dio che non fosse quello di condivisione delle responsabilità sulla vita dei propri fratelli.
Ecco, rotture di questo tipo ci sono state. Ma io non sto qui a farvi la storia della Chiesa, a parlarvi degli aspetti contestativi del monachesimo, di S. Antonio quando va nel deserto, dopo la pacificazione tra Chiesa e Stato; non stiamo a parlare di altre forme di monachesimo, non stiamo a parlare del francescanesimo, sia quello ufficiale, che quello demonizzato come ereticale, non stiamo a parlare della riforma o di altre cose. Veniamo ai nostri ultimi tempi e diciamo che nell'impegno sociale, che per i cattolici è una cosa abbastanza recente, inteso come organizzazione e non soltanto come carità cristiana, come opere buone personali, e nel cristianesimo sociale dunque sono avvenute ugualmente delle rotture che hanno fatto sì che molti cristiani, partiti con una visione integralistica e con un certo taglio nell'agire sociale, si siano poi trovati invece a condividere fino in fondo la causa degli uomini e a militare, convergendo, per esempio, con forze politiche laiche o di ispirazione marxista, che non erano partite con gli stessi intenti.
Quindi dico che con la Rerum Novarum si ha, alla fine del secolo scorso, una mobilitazione del mondo cattolico indirizzata verso il sociale.
Per quanto riguarda l'Italia, i cattolici sono ancora legati dal non expedit, ossia non si possono impegnare politicamente perché lo Stato italiano è sorto in oltraggio alla Santa Sede con la presa di Roma e la soppressione dello Stato pontificio. Però sono mobilitati nel sociale e in realtà proprio per fermare quella che Leone XIII chiamava la «peste del socialismo». Certo, Leone XIII constata che un certo capitalismo spregiudicato ha creato forme inumane di vita, forme bestiali, in cui l'uomo non solo ha perso la dignità umana ma, fra l'altro, non gli è più neanche possibile avere il respiro per pensare a Dio, per pensare a dei valori eterni.
Quindi Leone XIII propone un tipo di mobilitazione dei cristiani, fa anche alcune proposte concrete, con un limite intrinseco: i cristiani non possono modificare ciò che la filosofia sociale e cristiana di quel tempo ritiene quasi un ordinamento naturale: la diversità di nascita, la diversità di classi sociali e così via. È blasfemo oltre che arrogante pensare di cambiare la società.
Però, la vocazione del cristiano è di introdurre una serie di addolcimenti, quello che dicevano allora “il balsamo della carità cristiana”, dentro ai meccanismi stridenti, ferrei e stritolanti della società così come era organizzata.
Quindi da una parte con l'esortazione nei confronti dei ricchi, dei benestanti affinché non spingessero forte il pedale dello sfruttamento, dall'altra parte con l'aggregazione fra lavoratori e con la nascita delle cooperative, nascono le casse rurali, le Leghe Bianche e tutta una serie di aggregazioni di base le quali cercano appunto di lenire le condizioni di vita del proletariato, cominciando a provvedere a piccoli investimenti, a tenere qualcosa da parte per i momenti di malattia o di vecchiaia o per le disgrazie, di distribuire terre ai contadini e così via.
In questo modo abbiamo un tipo di cristianesimo sociale che indubbiamente ha un suo limite intrinseco.
Io ricordo (mi piace sovente citarlo) un commento del cardinale Alimonda alla Rerum novarum che non deve essere considerato antiquato, perché fra l'altro potrebbe essere nella bocca di qualche predicatore anche oggi, il quale diceva il Venerdì Santo, a proposito della morte di Gesù in croce: «...Ma che dicono questi socialisti che Gesù è morto invano in croce? No, non è affatto morto invano anche se ha lasciato le cose apparentemente come stanno, in realtà ha cambiato l'animo degli uomini, predicando la carità cristiana; per cui ha trovato un mondo fatto di esosi tiranni e di schiavi ignobili e ha lasciato dietro di sé un mondo fatto di onesti padroni e servi dignitosi».
Col che si arriva a toccare il perenne limite che può trovare il cristianesimo sociale: cioè di dover escludere la lotta di classe, un cambiamento delle strutture, una programmazione seria, la collaborazione dei marxisti... perché la società è quella che è, come quasi il risvolto fotografico, se così si può dire, della stessa struttura naturale. La vocazione dell'uomo è lenire la diversità e non eliminarla.
Apro una parentesi velocissima sull’ultimo documento pontificio sulla condizione femminile, pieno di elogi, di nobilitazioni, di dignificazione della donna, che però dice di nuovo la stessa cosa: c'è una diversità fra l'uomo e la donna, la vocazione cristiana non consiste nell'eliminare questa diversità, che poi però non è una diversità biologico-fisiologica, ma è una diversità nei ruoli della Chiesa, perché le donne non possono accedere al sacerdozio e ai ministeri in quanto non portano nella loro struttura biogenetica l'immagine di Cristo. Quindi la diversità c'è, la carità cristiana e la dignità della donna consistono nel viverle con libertà, cioè vivere con libertà quello che ti è imposto dalla natura o dalla società. È questo un modo di vedere le cose sempre nella continua e vecchia tentazione di eludere la storia e di confrontarsi sempre con una natura che si mischia, nella quale però molto spesso c'è un contagio fra ciò che nella società è stato fatto, prodotto, imposto dalle classi dominanti e dai gruppi privilegiati e ciò che invece dovrebbe essere veramente natura di Dio, ed ecco che a questo punto la natura diventa un oggetto misterioso.
Riprendendo il discorso precedente, stavo dicendo che inizia una valutazione positiva del cristianesimo sociale per altri motivi storici, perché in effetti aggregare la gente è sempre comunque positivo. Il fatto che nelle Leghe Bianche o in qualsiasi altra forza il proletariato che era in contatto diretto con il mondo cattolico abbia comunque migliorato certe proprie condizioni di vita e acquistato consapevolezza dei propri diritti, è sempre comunque un fatto positivo che è servito anche a far sì che la gente potesse fare scelte ulteriori che non erano previste in partenza dal cristianesimo sociale.
Ma c’è un altro motivo che a me interessa, cioè quelle che chiamo le rotture di base: i cristiani sociali (uso questa espressione con un senso estremamente vago, sono i primi tentativi della DC di Don Sturzo, sono i preti plebei della Val Padana, i fasci rurali, le Leghe Bianche dei contadini popolari...) sono come un’immunizzazione del proletariato cattolico dal contagio della peste del socialismo e come proposta di lenire le condizioni, smussando gli angoli del sistema sociale vigente. In realtà invece si vengono a trovare sovente, in determinati momenti storici di forte diffusa sofferenza sociale, nelle stesse lotte con quelli che dovevano esorcizzare, con i socialisti e con i comunisti, con quelli che facevano la lotta di classe.
Queste rotture avvengono quasi di continuo e non costituiscono un fatto episodico aberrante. Sono sempre state demonizzate. La risposta, il tono, il modulo retorico con cui vengono giudicate volta per volta è sempre quello dello stupore: è con estrema meraviglia che si viene ad apprendere che sindacalisti di ispirazione cattolica, membri delle ACLI o deputati popolari si sono venuti a trovare nelle occupazioni delle terre a guidare i contadini cattolici fianco a fianco con socialisti e comunisti; quelli cantavano “l'internazionale” quest'altri “bianco fior”, quelli con le bandiere rosse, quest'altri con le bandiere bianche. In sostanza però occupavano le terre insieme, anche quando la cavalleria caricava e caricava tutti, anzi se poteva dare qualche manganellata più sonora ai cattolici gliela dava volentieri, perché era una cosa inaspettata, mentre per i socialisti alla fine dei conti era una cosa abbastanza scontata, essendo considerati sovversivi.
Che i socialisti, essendo sovversivi, “facessero il loro mestiere” alla fin dei conti era abbastanza scontato. Ma che, dietro la tonaca del prete e sotto il campanile, allignasse uno spirito sovversivo e si attentasse alla proprietà privata, si dissacrassero le autorità e si facessero certe rivendicazioni, questo appariva una cosa veramente stonata.
E quindi non per nulla anche lo squadrismo più duro, più sfacciato, più arrogante, come quello di Farinacci e Cremonese, si sviluppò nelle zone dove le masse cattoliche avevano trovato sovente momenti di lotta comuni con quelle socialiste.
Queste rotture, quindi, sono significative e si rinnovano. A ogni giro nella spirale della storia le ritroviamo costantemente. Da una parte sono guardate come oggetto di meraviglia, d'altra parte invece, viste o lette criticamente, ci conducono a valutare almeno due ordini di motivi: uno strutturale, secondo la visione marxista: quando c'è carestia, la disoccupazione colpisce i contadini sia che siano socialisti, sia che siano cattolici; oppure quando c’è una guerra coloniale, come quella del 1911, il figlio che parte dalla casa del contadino colpisce sia sulla carne del contadino cattolico che socialista; oppure l'emigrazione che colpisce sia il cattolico che il socialista.
Ci sono, dunque, motivi strutturali che convogliano il rifiuto in un’unica direzione. Poi ci sono motivi che con linguaggio marxista diremmo sovrastrutturali e che, come credente, io chiamo evangelici.
In effetti, molto spesso (non tanto magari nella base contadino-operaia ma nelle avanguardie, cioè tra i preti e i cattolici formati culturalmente), risultava un dissidio profondo fra il messaggio di Cristo e il proprio comportamento: tra quello che appariva nelle pagine del Vangelo e il blocco di interessi e di personaggi con cui ci si veniva a trovare. Si sentiva in questi casi un profondo ribrezzo, una profonda contraddizione.
Questo sovente accade proprio nel prete. Qui nasce una particolare forma di demonizzazione: il prete che avuto un insuccesso, che, ad esempio, non è stato fatto canonico o che si vuole sposare, si lascia trascinare in posizioni che non sono consone alla sua obbedienza e alla sua posizione nella Chiesa.
In realtà, io non penso che sia una risposta molto disinvolta, quando andiamo a leggere la vita dei Murri, dei Buonaiuti, dei preti plebei della Valle Padana. Mazzolari lo sceglierei con un po' di precauzione, perché ebbe una profonda intelligenza del marxismo anche se è rimasto costantemente credente anticomunista. È nota la sua polemica con Miglioli, che invece approdò nel '48 al Fronte Popolare.
Quando andiamo a vedere la grana morale di queste persone non si ha affatto la sensazione di persone libertarie, di arroganti, di gente ribelle. Ricordo ancora la frase di don Milani quando disse prima di morire: «Mi vergogno di avere mischiato il mio voto con quello dei padroni!». Don Milani oggi è riscoperto, perché giustamente ha, come tutti noi, talvolta obbedito, pur avendo teorizzato, in quel libro famoso, che L'obbedienza non è più una virtù. Oggi, da morto, don Milani è diventato il martello con il quale si percuotono i preti eretici, i sacerdoti del dissenso. Perché, si dice, don Milani ne ha dette di tutti i colori, però ha obbedito. È vero! Perché si scopre che tutti hanno obbedito dopo che sono morti e non possono più contestare.
Io sono dell'opinione che invece queste rotture alla base, sia quelle che dicevo di tipo strutturale, sia queste provenienti invece dallo scandalo della fede che si trova mischiata con cose che non attengono a essa, siano un fatto estremamente importante.
Un altro tipo di discorso è quello dei processi di liberazione nei popoli latino-americani, asiatici, africani che hanno, forse per motivi storici e anche per la radicalità delle situazioni, una consistenza assai maggiore, una diffusione assai più larga che non questo confluire dei credenti nelle file del mondo operaio che si ha in Italia, in Francia, in Belgio ecc... Perché in quei continenti la situazione è stata molto grave. La stessa presenza della Chiesa in America, in Africa era, per chi conosceva un minimo di storia, non legittimabile, perché si era creata nei modi più brutali con le armi dei colonizzatori, a partire dai conquistadores spagnoli.
Quindi giustamente i missionari assumevano coscienza (e la stanno assumendo anche in questi tempi) del fatto che non era possibile stare dalla parte dell'imperialismo, dalla parte dei dominatori su questi popoli che si dice di voler servire, con i quali si dice di voler condividere la storia e che sono in tutto e per tutto un altro versante di lotta per la propria autonomia, per la riappropriazione della propria cultura, di un proprio destino, di una propria indipendenza economica.
Questa è stata la vicenda, per esempio dei missionari nelle colonie portoghesi (ma anche in Indocina), dove c'era una smaccata connivenza, proprio sancita negli statuti, fra i colonizzatori e i missionari, per cui ai tempi delle ultime lotte d'indipendenza i “padri bianchi” abbandonarono l'Angola in base a una considerazione elementare e trasparente, che, cioè, non era possibile restare in un Paese dove si era entrati con la bolla di papa Nicolò V, che autorizzava a occupare quelle terre e a fare schiave quelle popolazioni a condizione di catechizzarle anche sommariamente e di battezzarle per poi condurle in schiavitù in Europa.
Non si poteva restare lì, nel momento in cui questi popoli avevano preso coscienza. Bisognava verificare la propria conversione come cristiani mettendosi dalla loro parte o dichiarando impossibile l'evangelizzazione in quelle condizioni storiche. Bisognava che la Chiesa uscisse per rientrare non più con gli stivali dei colonizzatori ma a piedi nudi.
Questo ha portato, per avvicinarci ancor di più ai nostri giorni, a quelle situazioni di cui voi avete sentito parlare, dei vescovi brasiliani del Nord-est dove – prima ancora che ci fosse, pochi giorni fa, questo episodio gravissimo dell'assassinio di monsignor Oscar Romero, vescovo del Salvador – già due vescovi erano stati uccisi in incidenti automobilistici. Voi sapete che gli incidenti automobilistici non sono all'ordine del giorno in generale nella vita dei vescovi, e giustamente per fortuna, perché è un po' strano che avvengano in Brasile a causa di tamponamenti di camionette della polizia contro la macchina del vescovo in modo tanto brutale da ucciderlo. E poi, guarda caso, erano vescovi che andavano a reclamare dalla polizia i corpi dei loro sacerdoti uccisi, o i loro operatori del mondo cattolico, o i documenti sequestrati ai loro sindacalisti.
Non vorrei essere criticato di clericalismo (tutto può capitare in questo mondo) perché assumo il martirio dei vescovi come attestazione che la Chiesa ha fatto una scelta. C'è il martirio dei sacerdoti, c'è il martirio dei laici, c'è il martirio di uomini non cristiani.
Una delle cose fondamentali che aveva dichiarato Romero era che non voleva che la sua vita fosse più preziosa, perché vescovo, della vita degli altri laici cristiani e dei non cristiani, che quotidianamente morivano nelle piazze, o venivano sequestrati e li si ritrovava massacrati nei fossi lungo le strade. Non voleva che fosse fatta questa operazione di separazione.
Ed è veramente assai imbarazzante questo silenzio nostro, dei cristiani in occidente che parlano di sacrilegio e di ferita alla comunione ecclesiale, perché viene ucciso un vescovo. In questo modo vanno a separare il martirio di quest'ultimo dalle sue motivazioni profonde. È uno dei peccati più grossi che si possano consumare quello di dividere un uomo dai motivi per cui è morto, è come ucciderlo una seconda volta, direi in un modo più “larvante” e più soffocante: è proprio l'erigere monumenti sulle tombe dei profeti, come diceva Gesù, dopo averli isolati e perseguitati. Quindi per questo io parlo dei vescovi uccisi, perché questo è un accadimento emblematico e rappresentativo: quando si è arrivati a uccidere i vescovi, vuol dire che effettivamente la Chiesa in Brasile e nel Salvador è arrivata a capire da che parte stare; perché finché si pronunciano singoli preti o sindacalisti e campesinos cattolici, o comunità di base, è comprensibile, questo è un fenomeno diffuso e conosciuto; ma se arrivano a prendere posizione, in numero consistente talvolta, intere Conferenze episcopali si rimane veramente strabiliati; basta leggersi l'ultimo documento approvato con 174 “sì” e 3 “no” dei vescovi brasiliani sulle terre e sugli indios, sulle prepotenze, per rimanere veramente strabiliati. Un simile documento è quasi impensabile nel nostro occidente cattolico.
Quindi chiudo questa carrellata per dire che non stiamo parlando di pazzia quando diciamo che la fede trova la sua risposta fondamentale immediata nel coinvolgimento della vita dei fratelli; non stiamo dicendo una cosa astratta né teologicamente né sul piano storico. Teologicamente: fu proprio Gesù che dette questa interpretazione della fede.
Io rifiuto con molta energia quell'opposizione e quell'obiezione che si fa sovente a me e ad altri di orizzontalismo. E noi saremmo gli orizzontalisti, cioè quelli che si preoccupano del mondo terreno, e perderemmo di vista la dimensione verticale (a parte il fatto che questa distinzione è di un pastore protestante, buon teologo che faceva questa distinzione a proposito di cattolici e protestanti per la struttura sacramentaria: e diceva che i cattolici erano orizzontalisti, proprio perché avevano questa visione dei sacramenti in orizzontale, mentre il protestante è tendenzialmente verticalista, perché tende a rapportarsi direttamente a Dio).
Quindi a parte la citazione e l'improprietà del linguaggio, questa accusa ignora quella che è la posizione del Cristo, il quale parla di due comandamenti: il primo, quello dell'amore per Dio, con tutte le proprie forze, con tutto il proprio cuore, la propria anima, le proprie energie, la propria mente... e il secondo, fondamentale, dell'amore del prossimo, e non fa una contrapposizione per cui noi dovremmo dare un certo omaggio al primo comandamento, venerando Dio in qualche modo (non so, con novene, atti religiosi…) e in modo subalterno dovremmo dare spazio al secondo comandamento che è quello dell’amore del prossimo (facendo del bene e così via). Perché questo lo facevano già i Farisei.
È errata l'idea che i Farisei fossero delle persone cattive, perverse... i Farisei erano brava gente, e poi erano anche poveri, non erano mica ricconi, come i Sadducei, i sacerdoti, le famiglie patrizie del tempo. Erano degli straccioni, molto moralisti, molto bacchettoni, ma comunque vivevano una vita sovente dedita all'osservanza morale, facevano l'elemosina, magari suonavano le trombe per farlo sapere, ma facevano del bene....
La polemica di Gesù è fra una religione che vede i suoi atti di culto nelle osservanze del tempio, negli atti liturgici, nelle preghiere, nei canti e una religione che vede il suo modo di amare Dio, rispettandolo in quel suo nuovo tempio che si è scelto che è l'Uomo.
Qui è la discriminante fondamentale. Quindi non c'è spazio per verticalismi. Ecco perché sono due risvolti dello stesso comandamento. È lì che Gesù toglie il terreno sotto i piedi ai gestori della religione.
Non esiste più modo di venerare, di adorare veramente Dio che non passi attraverso l'amore del prossimo. È questo il peso della sua affermazione. Perché se lui avesse semplicemente detto: prima adorate il tempio, pagate le decime, baciate la mano al sacerdote, fate i vostri atti religiosi, ma non dimenticate di fare del bene al prossimo, Gesù sarebbe un riformista di una blandizie unica; sarebbe stato amato, penso che non l’avrebbero assolutamente messo in croce per un richiamo di questo tipo, che sarebbe stato del tutto nel filone della dottrina rabbinica.
Se l'hanno messo in croce è perché aveva ribadito con la migliore tradizione profetica, che la prima fondamentale religione era l'amore del prossimo e che amando il prossimo si amava Dio. Il rispetto delle tradizioni, degli atti cultuali, diventava un fatto subalterno, per questo lo hanno messo in croce.
Io ritengo che, sia per questo dato, sia per l'esperienza che abbiamo, oggi non ci dovrebbe essere più spazio per una religione, per una gestione del sacro di tipo così amministrativo, sociologico....
Il discorso su cui la Chiesa si deve di nuovo ritrovare con serenità, anche con piglio, con fermezza, in questo momento, anche sotto questo papato [di Giovanni Paolo II, ndr], è il discorso di una religione liberante.
I temi oggi non mancano: lo dicevo fin dall'inizio. Da una parte abbiamo una società italiana, che va a pezzi nella disgregazione più assoluta, nell'assenza assoluta di riforme serie, mentre i politici in generale non fanno che delle formule, distillano dagli alambicchi dei loro laboratori delle formule sostanzialmente per lasciare intatte le cose. Invece bisognerebbe veramente fare una rivoluzione. Non voglio proporre una formula politica, che voi potete anche immaginare conoscendo le mie scelte, ma non è possibile giocare di fioretto sulla vita dei giovani che sono in preda alla disoccupazione, alla caduta dei valori, alla droga, alla repressione mentre si attende la riforma sanitaria, mentre le più elementari strutture per il servizio degli handicappati, delle persone deospedalizzate, deistituzionalizzate dagli ospedali psichiatrici, sono carenti, per non dire totalmente assenti sul territorio. Se bisogna affrontare con la fede la disoccupazione, se si devono affrontare una serie di problemi di questo tipo, se i cattolici devono mettere le zeppe, delle regole a questi problemi, sarebbe veramente una riprova che la nostra religione non è un impegno di fede liberante.
L'altro discorso che brucia è quello della Pace. In questo momento il mondo sta sull'orlo della guerra mondiale, e il motivo fondamentale non vi è ignoto anche se lo rimuoviamo abbastanza disinvoltamente e cerchiamo di ridicolizzare la rivoluzione iraniana, gli arabi, gli sceicchi.
Sta di fatto che i popoli del Terzo mondo vivono in un divario vertiginoso fra i valori attribuiti alle materie prime, alle loro ricchezze, e i valori attribuiti ai prodotti dell'industria, delle tecnologie avanzate; in questo divario il mondo va in pezzi; due terzi dell'umanità sono nella miseria e in alcune componenti addirittura nella fame.
Ogni anno ci commuoviamo perché da 15 a 17 milioni di bambini muoiono di fame e poi non muoiono solo i bambini, muoiono gli adulti. E poi non si muore solo di fame: si muore di malaria, si muore di lebbra, di tante malattie.
Quindi che ci sia questa situazione è il profondo problema della pace; perché questi popoli oggi si rivoltano e vogliono che sia chiarito l'equivoco storico su cui sono imbastiti la nostra opulenza, la nostra ricchezza, i nostri sprechi, le nostre luminarie, e che poi si basa sul basso prezzo delle materie prime.
Sapete che pagavamo il petrolio a un dollaro e sessanta il barile fino al 1975, quando oggi [1980, ndr] si avvicina a quaranta dollari. Quindi questa ruberia era fatta con in testa quei criminali internazionali, che io chiamo “criminali di pace” (termine contrapposto a Norimberga) che sono Bokassa e compagnia, cioè quei governanti che hanno messo a disposizione le ricchezze dei loro popoli disprezzando totalmente il loro interesse reale.
Hanno messo le ricchezze dei loro popoli a disposizione di questo tipo di moderna idea di sviluppo nel quale la società occidentale, da un lato si corrompe e cade su se stessa, perché in preda ad una spirale perversa, e dall'altra parte seguita a fagocitare e a sprecare le ricchezze.
Voi sapete che un cittadino occidentale consuma energie che in generale possono consumare 1.600 abitanti dell'Africa centrale. Ma secondo me hanno calcolato le energie che spreca un abitante di una città dell'Africa centrale, perché se si vanno a guardare le energie che spreca un pastore del Sahel, credo che siano pari a zero. Ora in questa situazione siamo sull'orlo della guerra.
È di ieri questa sorta di ultimatum a Teheran di far sapere entro quanto tempo verranno liberati gli ostaggi nell'ambasciata americana. Secondo me questa cosa sa di provocazione. Non vedo francamente né cattolici né democratici scendere in piazza su questo modo di impostare le cose.
Diciamo subito che tutti hanno deprecato, ed è da deprecare, il tipo di intervento violento che è stato fatto sequestrando il personale dell'ambasciata. Però è una violenza all'interno di una violenza perpetrata per secoli su un popolo e non si può criticare e porre un ultimatum su questa violenza che è il sequestro del personale dell'ambasciata statunitense ignorando invece e non mettendo nello stesso contesto quella che è la loro richiesta: il processo allo Scià, la pubblicazione delle carte segrete. L'occidente esita e non vuole fare questo processo perché risulterebbe indubbiamente che lo Scià rubava per conto nostro.
Quindi sarà difficile che il mondo occidentale e gli Stati Uniti lo consentano... Se io fossi lo Scià avrei paura, farei assaggiare il cibo da qualche servo fidato, avrei paura anche degli alleati, perché se proprio all'ultimo momento lo dovessero consegnare, credo che lo consegnerebbero in condizione di non poter parlare.
Quindi siamo in un nodo, non si può parlare di pace per ristabilire la distensione pacifica. L'equilibrio delle testate missilistiche, la coesistenza pacifica, sono tutti temi tutt'altro che disprezzabili, anzi direi che molte cose si sono sviluppate negli ultimi anni nelle pieghe del disgelo, di questa ricerca di coesistenza pacifica. Però non poteva durare in eterno, perché era una coesistenza pacifica fra superpotenze che comunque era realizzata sulla testa dei popoli del Terzo mondo e sulla loro miseria crescente.
Gli economisti parlavano di un processo a forbice le cui punte più si procede più vanno divaricandosi: le punte fra i livelli di sviluppo del Nord del pianeta e i livelli di sviluppo dei popoli del Terzo mondo.
Quindi una politica di pace significa oggi non soltanto assumere iniziative diplomatiche vere, il disarmo che è sacrosanto, perché gli iraniani non facciano colpi di testa, non compiano l'errore di passare per le armi gli ostaggi; io sono convintissimo che anche queste cose vanno fatte. Ma la politica di pace fondamentale è ristabilire la giustizia fra i popoli, è rimescolare le carte, è ristabilire il mercato delle materie prime nei confronti della tecnologia più avanzata, è ristabilire una coesistenza pacifica non solo in termini diplomatici, ma la coesistenza veramente come convivenza, come possibilità di vivere per tutte le parti. Se non si farà questo io credo che il mondo occidentale – e notiamo bene che il mondo occidentale è quello cristiano, cattolico o protestante che sia – avrà un'altra grossissima responsabilità, forse ancora più grossa di quella che ebbe nell’ultima guerra mondiale.
È vero che potrà lamentarsi che ci sono state invasioni di carri armati, colpi di forza, sequestri di persona e così via, però non potrà ignorare, non dovrebbe poter ignorare che c'è un'invasione sistematica nelle ricchezze degli altri popoli che è una nuova forma di colonialismo. Io penso che oltre che affrontare questo discorso questa sera, dovrebbe essere questo un oggetto di dibattito, per il mondo cattolico e no, nell'immediato futuro.
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