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Anno santo e riconciliazione

Anno santo e riconciliazione

Tratto da: Adista Documenti n° 7 del 24/02/2024

Qui l'introduzione a questo testo. 

È palese, anche da una brevissima visita, da un contatto del tutto superficiale e occasionale, constatare le contraddizioni della nostra società, in modo particolare le contraddizioni del nostro meridione nei confronti delle quali si devono responsabilizzare anche la coscienza e le istituzioni della Chiesa cattolica.

Infatti noi vogliamo parlare questa sera della riconciliazione, che è il tema che è stato assegnato all'Anno Santo (1975).

Vedete, di per sé certi problemi sia spirituali, ecclesiali, evangelici, che problemi umani di giustizia, di libertà, di liberazione, potrebbero essere anche trattati direttamente, senza girarci intorno con delle immagini; sotto questo profilo, c'erano dei dubbi prima che si indicesse l'Anno Santo in quanto, tutto sommato, sia i problemi della Chiesa, sia i problemi dell'uomo, come la giustizia della società, non compaiono soltanto una volta ogni 25 anni ma sono problemi costanti, sono problemi di sempre e quindi non si può aggirare l’argomento presentandolo come una scadenza che non viene creata dall'interno dei problemi stessi, ma viene creata semplicemente misurandoci con essi ogni 25 anni.

Per fare un paragone, sarebbe come se per un giovane, un essere umano, che cresce e si sviluppa, stabilissimo che ogni cinque anni avesse una visita di controllo dal medico.

Questo tipo di scadenza sarebbe un poco astratta. Può darsi che una volta quella persona stia benone e non abbia bisogno di quella visita medica, di quel controllo quinquennale, mentre potrebbe darsi che nelle scadenze intermedie i problemi possano insorgere.

E allora acuire l'attenzione sui problemi non dovrebbe scaturire da scadenze prefissate, ma la spinta a intensificare la nostra attenzione deve provenire dai problemi stessi. Nel momento in cui i problemi della pace, per esempio, o quelli della giustizia, o quelli della liberazione o quelli del modo in cui la Chiesa si pone di fronte al suo messaggio e di fronte agli interrogativi che il mondo le pone, il porre attenzione a rispondere a questi aspetti dovrebbe scaturire proprio dall'urgenza dei problemi stessi.

Occuparsene perché son passati 25 anni dall'ultimo Anno Santo può essere, non dico una cosa negativa, ma per lo meno segno di distrazione.

Questi erano i dubbi che agitavano molte persone prima che l'Anno Santo fosse indetto, ma una volta che c'è, allora è una occasione in più per affrontare problemi che avevamo nel '73, avevamo nel '74, e abbiamo nel '75, ma che molto probabilmente, e su questo vi volevo mettere in guardia, avremo anche nel '76. Quindi voglio dire che esiste una continuità, una dinamica dei problemi che richiede una attenzione protratta, una attenzione continua degli uomini che sono impegnati sia politicamente, sia con la loro coscienza cristiana.

In ogni caso, abbiamo questa occasione, questo stimolo, questo invito, che ci viene dal papa, a mettere a tema la riconciliazione e quindi l'ascoltiamo.

Riconciliazione è una parola seducente, una parola che amiamo. Perché in tutte le nostre case, negli ambienti in cui viviamo regolamentate, tocchiamo con mano degli ostacoli allo stare insieme pacificamente, a capirsi, al parlarsi e questi ostacoli vengono a volte dai pregiudizi, da cose di poco conto, da antipatie, da sedimentazioni, da qualcosa di non digerito che sta dentro di noi.

In quante delle nostre famiglie ci sono dei fratelli che non si parlano da tanto tempo perché hanno litigato per motivi di affari ed interessi? In quante famiglie ci sono delle persone che si sentono ingelosite? Oppure ci sono nei vicinati, tra i paesi delle antipatie; o famiglie che non si vedono per molto tempo? E talvolta gli intoppi sono effettivamente un qualcosa di irrazionale, legato a fattori emotivi, a fatti sentimentali.

Allora, sotto questo profilo, ben vengano occasioni eccezionali che agiscono anche sul piano sentimentale, sul piano emotivo. Ben venga il Natale; il Natale è una offerta, una occasione, una provocazione a far parte; e allora anche chi per motivi banali si è scontrato con il proprio fratello, ha avuto una rispostaccia, gli ha voltato le spalle, non ha più parlato con lui, o con il suo prossimo, con il suo collega di affari, allora in quel momento questo intoppo irrazionale può essere risolto da una spinta emotiva, una spinta di questo tipo: è Natale, tutti fanno pace.

Uno sente dentro di sé un po' di gelo, un po' di rimorso e dice: “io mi chiamo cristiano e celebro questa festa di pace e amore con dentro della antipatia e del risentimento per un altro uomo, per un mio congiunto, per un mio fratello, e poi perché? Perché penso che mi abbia defraudato di un qualcosa, di un po' denaro, di un piccolo interesse”, e conclude: “Ma lasciamo perdere questa stupidaggine”.

Vedete, sotto questo profilo la parola riconciliazione ci piace perché ha la sensazione proprio di voler superare d'impeto una cosa che ieri ci pareva grandissima, ci appariva come una montagna di difficoltà, un odio, una antipatia; e a tutto un tratto, di fronte a una spinta emozionale, come può venire dal Natale, dalla Pasqua, dalla festa della mamma, oppure dall'Anno Santo, ecco che si può superare.

Però la parola riconciliazione può essere una parola ambigua, cioè si potrebbe pensare che tutti i problemi umani, che tutti i problemi che crucciano la nostra umanità, che tutti i tipi di torti fatti, che ogni tipo di ingiustizia, si possa risolvere in questo modo: con una spinta emotiva alla riconciliazione.

Quale riconciliazione?

Per questo parlo di equivoco. Ci sono infatti delle ingiustizie, delle condizioni di alienazione, di emarginazione che sono strutturali, che non dipendono quindi dalla buona o dalla cattiva volontà di una persona; anzi le persone che sono imprigionate dentro questi meccanismi per lo più sono inconsapevoli; talvolta uno è un oppressore e, all'interno di un meccanismo di ingiustizia, di emarginazione è magari convintissimo di essere un benefattore; magari fatica, suda, si spende, vive nell'ansietà, non dorme la notte e fa tutto con quella che noi chiamiamo la “buona fede”; ma questo non significa che ugualmente il meccanismo nel quale lui è, non gli dia dei privilegi, di cui forse non si rende conto, e non ponga gli altri in uno stato di oppressione e di sfruttamento.

Allora vedete, questo tipo di oppressione, questo tipo di ingiustizie, questo tipo di conflitti non possono essere sanati sotto una spinta emotiva, ma devono essere sanati affrontandoli, non solo razionalmente, ma direi meglio scientificamente con degli strumenti idonei, portando appunto il conflitto sulla discriminante razionale. Prendiamo ad esempio il conflitto tra cattolici e protestanti in Irlanda: non possiamo affrontarlo semplicemente dicendo “lasciamo cadere questa situazione tragica”; in fin dei conti, ormai, in quasi tutto il mondo, cattolici e protestanti non trovano un motivo di scontro tra di loro, in molti luoghi si prestano reciprocamente le chiese, e se i cattolici fanno la liturgia a una certa ora, nello stesso locale a un'altra ora la fanno gli evangelici. Questo succede ormai in molte zone d'Italia: piuttosto che costruire altri edifici...

Se si deve condurre insieme una stessa ricerca su uno stesso libro, il Vangelo o la Bibbia, si può contribuire, collaborare, lavorare con gli stessi strumenti, le stesse biblioteche. E se uno studioso protestante, fa una ricerca e una scoperta positiva e utile, la utilizzano anche i cattolici e viceversa.

Allora che motivo c'è che cattolici e protestanti si scontrino e si uccidano in Irlanda? È proprio un disordine radicale.

Ma il fatto è che questo conflitto tra cattolici e protestanti non è un conflitto di tipo religioso: sotto c'è un conflitto razionale, strutturale. In quel caso la comunità cattolica, è emarginata economicamente e dipendente, non ha la facilità di accesso ai posti di lavoro, non ha l'accesso allo stesso modo al potere economico, al potere politico, al potere culturale e quindi è una comunità sfruttata e calpestata.

È lì il vero nodo del discorso, e sotto questo profilo, per quanto i capi religiosi, gli arcivescovi protestanti e cattolici si diano la mano e si abbraccino in pubblico, questa situazione di ingiustizia permane perché sotto il conflitto religioso c'è un conflitto strutturale, una ingiustizia strutturale in quella società. Perché di fatto la situazione è coperta da questa cortina fumogena.

Ho fatto un esempio ma ne potevo fare diecimila.

Prendiamo la guerra fra il Pakistan e il Bangladesh: anche lì si poteva pensare che si fossero delle componenti religiose, come fu all’origine della separazione dell'India dal Pakistan, che era stata fatta all'insegna di maggioranze religiose di induisti da una parte e di musulmani dall’altra, ma in realtà, a guardare bene, dietro ci sono delle condizioni di ingiustizia ed emarginazione coperte.

Ci sono classi dominanti che possono essere sia induiste che musulmane, le quali si giovano di questo scontro aizzando le persone a scontrarsi sul piano religioso. In realtà non si mette mai a fuoco la radice della sofferenza, dell'emarginazione, dei bambini che muoiono di fame, delle persone che non riescono ad accedere agli strumenti culturali, alle università, ai posti di dirigenza e così via. Non si riesce mai a mettere a fuoco il vero problema e la gente, magari il sottoproletariato, sta lì a tirarsi le bombe addosso, a uccidere, ad appiccare il fuoco alla casa dell'altro sottoproletario e si scontrano fra di loro, e così non individua mai il vero avversario, che è colui che li sfrutta e magari li aizza gli uni contro gli altri.

In altre sedi, se voi andaste a trovare i rappresentanti di queste religioni, se li incontraste, per combinazione, li trovereste in un hotel a Montecarlo, tutti quanti a giocare alla roulette e a brindare con lo champagne perfettamente d'accordo, mentre i sottoproletariati delle sette religiose si sbranano nel Bangladesh.

Ogni tanto con gli esempi mi perdo, me ne vengono tanti per farvi capire quello che volevo esprimere.

Tutta la nostra umanità è stata pervasa secolarmente, anzi per millenni, da conflitti spesso ingiustificati ma reali. Quindi noi dobbiamo chiederci, anche come cristiani: accettiamo o non accettiamo questa conflittualità?

Ora, dirlo così in astratto può rischiare di essere mistificatorio. Esistono tante guerre a cui i cristiani hanno partecipato, come quella tra Austria e Italia che, tra l'altro, opponeva cattolici a cattolici, e nessuno di noi ha mai pensato che con questo si rompesse la comunione ecclesiale. Si poteva stare da una parte e dall'altra delle trincee, spararsi addosso; a uccidersi, come dice don Milani, erano contadini cattolici che sparavano contro contadini austriaci, erano operai cattolici che sparavano contro operai austriaci e tutti quanti a difendere non il loro interesse, cioè l’interesse della loro classe lavoratrice. A uscire sempre vincitori da questo tipo di guerre erano in realtà coloro che speculavano, coloro che potevano muovere o fermare il conflitto, quelli che avevano il potere economico, politico e militare. Non ci siamo meravigliati che, da una parte e dall'altra, dei cattolici fossero contro cattolici.

La vera radice del conflitto

Da questo momento la discriminante è diversa e, cercherò di spiegarla, è una discriminante di classe. A questo punto la frontiera non corre più fra Austria e Italia, fra cattolici e protestanti, fra bianchi e neri in quanto tali. (...)

Il conflitto oggi non è più di questo tipo. Oggi la linea di demarcazione passa fra le classi emarginate e sfruttate e le classi egemoni della società. A questo punto, ci sembra che il conflitto, giunto a questa soglia di razionalità, diventa un conflitto d’amore, perché chi lotta non lo fa semplicemente perché vincano i bianchi sui neri o i neri sui bianchi o i cattolici sui protestanti o i protestanti sui cattolici, ma perché si crei una società in cui non ci sia più questa barriera, in cui non ci siano più sfruttati e sfruttatori, in cui ci sia soltanto un’unica classe sociale; poi ci saranno vari tipi di attività, ma una società fondata essenzialmente sull'uomo, sull'uomo che conta in sé, che non conta per i privilegi ereditati, per il nome che porta, per le ricchezze che ha, per le amicizie e le parentele che ha, ma conta perché è una persona che lavora ed è inserito insieme agli altri nella società e dà il suo contributo nei limiti in cui lo può dare alla produzione della ricchezza, del benessere, della cultura e della società.

Allora, una volta che lo scontro è arrivato su questa frontiera e che da una parte ci sono le classi lavoratrici che lottano per questo tipo di società e dall'altra parte ci sono coloro che vogliono detenere il potere economico, politico e culturale, a questo punto, di fronte a questo conflitto irrazionale, a me meraviglierebbe moltissimo che i cattolici che hanno partecipato attraverso i secoli a ogni tipo di conflitto, tutto a un tratto, si schifassero del conflitto di classe. Che sentissero la ripugnanza e volessero fare un appello alla riconciliazione, cosa che, secondo me, sarebbe mistificante proprio di fronte al conflitto di classe.

A questo punto vorrei contestare l'obiezione che forse è di fondo e che è in molti di voi: ma esiste veramente questa ingiustizia?

Impari condizioni di partenza

In realtà la nostra società è impostata su criteri abbastanza giusti e validi. Gli uomini non sono tutti uguali, ma certo noi lavorandoci sopra, migliorando, facendo le scuole, possiamo tendere a renderla meno diseguale possibile. Ma dire che gli uomini sono tutti uguali è dire una baggianata, noi siamo tutti diversi, basta guardarsi; vedi questo bambino? Scrive con lettere grandissime, stentatamente, sbaglia tutte le doppie; vedi questo quaderno? È tutto sporco d'olio, di ditate. Vedi quest'altro quaderno? Pulito, ordinato, le parole sono a posto, la calligrafia è sicura, come fai a dire che sono uguali? La povera maestra che si trova di fronte a questi due quaderni come fa? Deve mettere un voto. Se deve mettere un voto può mettere lo stesso voto a tutti e due? Può mandare tutti e due alla classe seguente? Può dire domani a chi dovrà scegliere fra questi due ragazzini il proprio ragioniere, la persona che amministrerà, può dire che sono uguali questi due? No, sono diversi, la scuola non fa altro che constatare la differenza dei ragazzi fra di loro.

L'ingiustizia in passato consisteva in questo: quando alcuni erano nati servi della gleba, o schiavi, e, anche con buona volontà, pur arrivando a essere dei bambini capaci, degli adolescenti in gamba, rimaneva sempre su di loro il marchio dei plebei; venivano dalle classi popolari, quindi non potevano mai accedere ai posti di potere.

Ma ormai le rivoluzioni liberali hanno superato questa situazione. Ormai siamo una società garantita, come in Italia, dalla Costituzione nella quale un figlio di braccianti di San Vito dei Normanni può diventare presidente della Repubblica: se veramente studia, lavora ed è in gamba, e si impegna in politica, può diventarlo. Non c'è nessuna legge che glielo vieti. Però, tra l'enunciato costituzionale espresso in termini formali e le possibilità concrete che il figlio di braccianti di San Vito dei Normanni divenga presidente della Repubblica, c’è una grossa differenza; non bastano che gli enunciati formali siano giusti, occorre anche la possibilità reale di accesso al potere.

Si dice giustamente che la competizione stimola un uomo a dare il meglio di sé; quindi, se in una classe noi abbiamo dei bambini diversi fra di loro con diverse possibilità; se in un agone sportivo abbiamo delle persone diverse con diverse possibilità atletiche; se in una comunità ecclesiale abbiamo persone con diversi carismi, diverse capacità; se in qualsiasi situazione abbiamo delle diversità e mettiamo in competizione fra loro queste persone, diciamo che la società premierà le migliori di queste e le spingerà al successo e a far sì che siano superiori alle altre. Tutte quante danno il meglio di loro stesse in questa competizione, tutte sfoderano le unghie, cercano di stimolare se stesse, si spremono, cercano di dare il meglio della propria immaginazione, cercano di dare il meglio della loro energia.

La nostra società di tipo democratico-liberale è un società dominata dal principio della competizione, della concorrenza. Principio della concorrenza che naturalmente crea una selezione; attraverso la concorrenza, ogni persona viene selezionata rispetto ad altre.

Per cui coloro che nel corso di queste selezioni escono vincenti da questa competizione, risultano più meritevoli e divengono anche moralmente qualificati e sono coloro che possono accedere ai posti di potere.

Ci saranno poi coloro che potranno accedere a posti intermedi e, infine, quelli esclusi da tutto quanto, potranno andare a fare i lavori ultimi e cercare di tirare avanti.

Ora io vorrei fare una analisi critica, perché non condivido questa immagine di società e questo tipo di meccanismo. Anzitutto vorrei dire che questo tipo di meccanismo, anche ammesso che fosse in sé oggettivamente corretto, non fa sì che l'uomo renda al meglio di se stesso. Nelle nostre società di oggi, e nelle nostre città di oggi, laddove il meccanismo è acuito e presentato in modo più evidente e perfetto, si ha assolutamente il contrario. L'uomo non dà nella lotta per la vita il meglio di se stesso, ma il peggio. Cioè, dà il meglio di se stesso sul piano dell'efficienza; è chiaro che uno che ha grinta, che ha spregiudicatezza, uno che ha delle doti di durezza, può prevalere, in questo senso dà il meglio di se stesso. Ma veramente è questo il meglio dell'uomo?

Ci fu un filosofo inglese che ben definì questo tipo di meccanismo e lo chiamò la guerra di tutti contro tutti. Voi direte: guerra di tutti contro tutti non è neanche vero, perché tante volte si è in amicizia con le persone, si è alleati. Sì, si è alleati se non si concorre allo stesso posto; è chiaro che si sorride, si può stare insieme, ma nel momento in cui due persone concorrono alla stessa fetta di potere, in base al principio della competizione, la vita diventa una giungla e ciascuno cerca di fare il proprio interesse e tirare l’acqua al proprio mulino.

Su un certo piano chi è efficiente, chi ha possibilità le tira tutte fuori, mentre chi non le ha si accontenta del meno e chi invece fosse psicologicamente o socialmente debole finisce per scoraggiarsi e per dire: “lascio perdere, volete i posti? A me basta che mi lasciate campare, ditemi quanto mi date, io mi vendo a voi, vendo il mio lavoro, vendo la mia obbedienza, vendo tutto, basta che mi lasciate campare”. Sotto questo profilo una persona è anche accettata nella società.

La giungla e l’imbarbarimento

Secondo me, soltanto sul piano dell'efficienza ci sono alcuni che possono dare in questo modo il meglio, ma sul piano morale noi constatiamo giorno per giorno che questo tipo di competizione fa sì che vita divenga una giungla spietata nella quale ciascuno è amico solo di colui con il quale non concorre o con il quale si può alleare per affossare un terzo. Ma nel giorno in cui fossero tutti e due competitori sulla stessa fetta di potere, da quel momento anche quella amicizia spirituale, quello scambio culturale, di intesa che c'era verrebbe a cadere.

Se non cade è perché noi non abbiamo ancora alzato le braccia, non ci siamo arresi, ancora resistiamo come esseri umani di fronte a questo spietato meccanismo che la società capitalistica ha costruito. Lo definisco meccanismo spietato, ammesso e non concesso che sia in sé oggettivamente corretto; in realtà non lo è, e questo è l'aspetto assurdo della questione: che una gara nella vita per il potere, una gara per avere posti migliori, una gara per emergere nella cultura sarebbe effettivamente abbastanza interessante, tutto sommato, qualora fosse tra pari, cioè fra persone che partono con gli stessi strumenti.

Io ripeto che è sempre una giungla, è sempre una lotta spietata in cui l'uomo si deteriora, però sarebbe per lo meno divertente in una gara sportiva in cui noi vedessimo degli atleti che, partendo dalle medesime condizioni oggettive, avendo avuto le medesime chance, le medesime possibilità di allenamento, avendo avuto gli stessi strumenti, partendo dallo stesso piedistallo, si selezionerebbero fra di loro, alcuni arrivando primi, altri secondi, altri terzi e altri ultimi.

L’ingiustizia strutturale

Ma l’assurdo della nostra società è che questa gara nella vita ha dei punti di partenza differenziati. E qui arriviamo al nodo della questione: l’ingiustizia strutturale e profonda della nostra società. Quando in una classe mettete 25-30 bambini, questi 30 bambini, ammesso che non siano tutti quanti dello stesso quartiere e che siano assortiti (che già sarebbe una bella cosa perché spesso non capita nemmeno questo), non partono con gli stessi strumenti perché tra il figlio del bracciante, il figlio dell'operaio e il figlio del professionista le possibilità di ambientarsi nella classe e di utilizzare quello che gli viene proposto non sono le stesse, salvo che la maestra sia una persona capace di superare lo schema scolastico; perché il figlio del bracciante, il figlio dell'operaio, in casa, parlano spesso in dialetto.

Immaginate un attimo il figlio di un operaio siciliano che lavora a Torino. A casa sua si parla siciliano, esce fuori a giocare a pallone con i ragazzini e parla torinese, arriva in classe e la maestra pretende che parli italiano e segna con la matita rossa e blu gli errori che sta facendo. Quel ragazzino ha da superare tre gradini di difficoltà.

Invece, al figlio del professionista, nella cui casa si parla italiano, quando si guarda la televisione, si sfogliano le pagine di un libro, viene spiegato subito cosa significa quella parola difficile, cosa vuol dire quell'immagine in televisione e a che cosa si riferisce e così via. Quando arriva in classe non ha nemmeno un lavoro da fare, anzi, talvolta si annoia perché certe cose le ha già imparate.

E mentre un bambino suda, si affatica e per questo sporca il quaderno e lo macchia con l'olio, il sudore, e fa le ditate con l'inchiostro, quell'altro invece ci disegna i fiorellini. Non sto a infierire ulteriormente, per carità; dico semplicemente che concepire un modo selettivo a scuola è semplicemente grottesco: non potrà fare altro che sfavorire coloro che lo sono già in partenza e andranno sempre più giù, mentre quelli che sono in una posizione avvantaggiata potranno che migliorare.

Ci saranno delle eccezioni ma queste dannate eccezioni confermano la regola.

Io sono contrario ai proverbi, ma una volta tanto questo proverbio mi è sempre piaciuto: le eccezioni confermano la regola. Perché, purtroppo, c'è anche il caso che il figlio del manovale sia un gioiello ma, a questo punto, il suo successo verrà strumentalizzato per dimostrare che la società è libera e giusta. Invece, secondo me, non sono le eccezioni che ci danno l'indice della giustezza delle nostre strutture scolastiche o in generale della società; non sono le eccezioni che ci danno questa misura, sono le statistiche; e allora quando noi andiamo a vedere quale parte della popolazione italiana non arriva a completare la scuola dell'obbligo, quando andiamo a vedere qual è percentuale di devianza minorile e da quale classe sociale proviene, allora non sono solo le eccezioni a contare.

È chiaro che ci sarà anche il figlio del professionista che può essere inconcludente negli studi, però anche per questo un domani ci sarà una possibilità; ma queste eccezioni non mi interessano, anzi possono essere strumentali. Quello che interessa, e che secondo me è importante, è analizzare le statistiche e vedere come il figlio che nasce nella casa di una persona che, geograficamente o sociologicamente, è in una posizione svantaggiata, non nasce in un regime di giustizia con davanti a sé una strada benedetta dalle istituzioni, segnata da servizi sociali, segnata da sorrisi, segnata da asilo nido, da scuola materna, segnata dalla scuola dell'obbligo, con davanti a sé possibilità di inserirsi, di avere una camera tutta per sé, un lavoro senza uscire dal proprio contesto sociale, culturale e religioso.

Questo interesserebbe: che a tutti i bivii ci sia segnato un cammino uguale per tutti. Allora potremmo veramente dire che c'è una pace reale. Finché non c'è questo, e finché un bambino nascerà destinato a emigrare all'80% di probabilità (numero che si ricava dalla media della popolazione che emigra da quel Paese) mentre quell'altro nascerà senza nessuna necessità di emigrare; finché ci sarà questa ingiustizia strutturale, non ci sarà possibilità di riconciliazione. Su questo non ci si riconcilia. Di fronte a questa ingiustizia strutturale della nostra società che divide in classi, che emargina alcune classi e dà invece ad altre la possibilità di esercitare l'egemonia, di avere la possibilità di ereditare una porzione di potere e, se è possibile, di consolidarlo in futuro, di fronte a questa ingiustizia, dicevo, non c'è riconciliazione.

Allora vedete, a questo punto, cosa avrebbe potuto significare Anno Santo e che cosa avrebbe dovuto significare per i credenti.

L’anno sabbatico e i Giubilei

Che cosa fu nella storia l’anno santo e come è nato? È uscito fuori nel 1300 e ha ripreso il tema degli anni santi, celebrati ogni 50 anni, i cosiddetti Giubilei nella storia del popolo di Israele. In Israele c'era un giorno della settimana che era santo ed era il settimo. Quindi oltre ai sei giorni della settimana in cui si lavorava, il settimo era una istituzione sociale perché, da una parte, era importante per dedicarsi alla preghiera, al culto di Dio, e dall'altra nel settimo giorno non si lavorava.

Era il modo concreto per dare una pausa di respiro anche ai servi e agli schiavi. Poi questo numero sette venne applicato anche agli anni e quindi ogni sette anni c'era un anno che veniva detto “sabbatico”. Come il sabato era il giorno del riposo, analogamente c'era un anno di riposo.

Qualcuno di voi saprà che in agricoltura c'era il sistema delle rotazioni: ogni tanto il campo deve riposare altrimenti viene eccessivamente sfruttato. Ora ci sono possibilità diverse nel momento in cui si usano concimi, e quindi forse si può superare questo metodo, ma certamente se uno semina grano nello stesso campo, come si fece durante la guerra a causa della fame, per tanti anni di fila, va a finire che il grano prodotto diminuisce sempre di più. Ogni tanto bisogna cambiare coltura.

E lo stesso succedeva nel caso del Giubileo: in questo anno sabbatico c'era da un lato un fattore religioso, perché era un anno in cui ci si dedicava in modo particolare al culto di Dio; da un altro lato c'era il riposo ciclico della terra, oltre al fatto che venivano cancellati i debiti e, alle persone che li avevano contratti, venivano condonati.

E poiché sette per sette fa 49, ecco come è uscito fuori l'anno del Giubileo, ogni sette “settimane” di anni, se così si può dire: il cinquantesimo anno era quello del Giubileo.

Rifacendosi a questa idea, Bonifacio VIII nel 1300 decise che ogni cinquant’anni ci sarebbe stata questa grande indulgenza.

Questa dei Giubilei era stata una rivoluzione sociale nel mondo ebraico perché, nel corso della sua esistenza (considerando che, grosso modo, 40/50 anni era la vita media), poteva capitare che una persona perdesse la terra, che non era data in proprietà perché non esisteva allora il concetto di proprietà privata: il proprietario, nella mentalità del popolo ebraico, era Dio. E Dio era un proprietario tutto sommato buono, che non si approfittava; era, questa, una tutela perché nessun uomo, allora, nessuna famiglia, poteva arraffare, poteva impadronirsi, poteva accumulare in modo stabile e definitivo la terra. Ogni famiglia, invece, ogni filone ereditario, aveva una porzione di terra.

Succedeva che per vari motivi, per le intemperie, forse anche per la negligenza, le cose andassero male. Può capitare in una famiglia di contadini che un anno vada male: che un anno va male il raccolto, perché la stagione è cattiva; che un anno muoiano gli animali per disgrazia, che un altro anno capiti una malattia; ma se in un anno succedono tutte e tre le cose insieme, uno va a carte quarantotto e comincia a indebitarsi; e a quei tempi erano spietati, non è che oggi ci vadano leggeri, ma quando uno non pagava andava a fare il servo. Gli portavano via la terra e poi addirittura, se non poteva pagare ancora, pagava di persona e doveva lavorare per altri.

Poi che succedeva? Ecco l'anima sociale, sia pure rudimentale, di questa istituzione: ogni cinquant’anni si ricominciava daccapo, ognuno rientrava nell'uso delle terre che erano state assegnate al capofamiglia, in modo che le eventuali disavventure capitate non fossero lasciate in eredità ai figli, altrimenti se uno fosse nato già in una famiglia che aveva perduto la terra, partiva non da zero, ma da sotto zero.

C’era quindi questo meccanismo primitivo che però non funzionava (io non sto facendo propaganda per gli anni santi, ossia per i Giubilei antichi). Non funzionò, però era un prospettiva utopica che oggi andrebbe sostituita da strumenti scientifici per la redistribuzione dei beni del potere reale.

Questo meccanismo, in ogni caso, per noi resta abbastanza indicativo, perché vuol dire che questa gente dava una risposta in termini reali alla sua fede in Dio, cioè non diceva “Dio, quanto sei buono, quanto sei bello, che fai sorgere il sole sopra di noi e quindi io ti offro l'incenso sull'altare”, ma il modo di rispondere alla fede in Dio, alle promesse, alle benedizioni di Dio era quello di rispettare in qualche modo la giustizia sociale tra i fratelli del popolo.

In questo senso si costituiva una solidarietà nel popolo, si costituiva un senso di familiarità.

Se il popolo viene posseduto e usato come uno strumento di dominio sugli altri, è chiaro che, quando io oggi ho un campo e domani tu vai in fallimento, io compro il campo tuo quando fallisci, e ti lascio servo nel campo tuo; io, padrone, raccolgo sul campo mio e sul campo tuo e a te do soltanto il minimo per sopravvivere. E questo cosa comporta? Che io accaparro del denaro e allora ho più possibilità di comprare un terzo campo. Ecco esemplificata l'accumulazione del capitale! Che, come in una spirale, cumula sempre più ricchezza nelle mani di pochi e depaupera in modo crescente le altre persone, le altre classi marginali che rimangono a lavorare, sfruttate. Cioè producono due cose: non soltanto il valore, i beni di consumo per loro, ma anche un valore in più che gli economisti, uno in particolare, chiamano il plus valore e va a incrementare il capitale di colui che si è appropriato delle possibilità degli altri.

Una soluzione a tutto questo era la redistribuzione dei beni ogni 50 anni: formula ingenua, non funzionale e non applicabile oggi.

Comunque, dal momento che ci troviamo nell'Anno Santo, questo potrebbe essere il nostro tentativo di prendere coscienza del problema di redistribuzione dei beni. Non è un problema del 1975, è un problema che avevamo già nel 1974 e che, temo, ci ritroveremo anche nel 1976 . Non so quali siano le vostre previsioni. Le mie sono queste: che nel 1976 ci ritroveremo con tutte le problematiche sociali di prima.

Ma dal momento che quest'Anno Santo c'è, quale significato gli vogliamo dare? Su che cosa vogliamo fare la riconciliazione? Vogliamo fare quello che si dice in francese embrassons-nous, abbracciamoci? E che a Roma si esprime con “volemose bene”? Per poi tornare ciascuno al proprio posto: chi ad amministrare il capitale ed esportarlo in Svizzera o in Germania, in posti sicuri dove non possono arrivare le tasse, chi a tornare alla catena di montaggio e chi a zappare la terra? La riconciliazione non può essere questo. La riconciliazione deve in qualche modo responsabilizzare i cristiani ad affrontare i problemi di giustizia nella loro realtà.

Si potrebbe obiettar che allora la responsabilità della giustizia sociale oggi toccherebbe alla Chiesa; arrivati all'Anno Santo, come ai tempi del popolo d'Israele si redistribuivano le terre in nome di Dio, così anche oggi andrebbero redistribuiti i beni e toccherebbe alla Chiesa e agli organismi ecclesiastici fare questa redistribuzione.

Oggi, però, francamente, questa sarebbe una grossa operazione di potere. Oggi chi ha possibilità reali e concrete di intervenire nella redistribuzione dei beni, in qualche modo si accaparra il prestigio e si accaparra un potere. E quindi noi non pensiamo che tocchi alla Chiesa affrontare questo problema.

Esiste però la responsabilità dei credenti, la responsabilità dei cristiani. I cristiani portano attraverso i secoli un messaggio di amore, di fraternità, di solidarietà. Gli strumenti concreti di questa solidarietà cristiana nel Vangelo non compaiono, perché il Vangelo non ha un programma politico, non ha un programma economico; Gesù Cristo predicò la fraternità ma poi lasciò alla cultura, alla scienza, di individuare nel corso della storia strumenti che trovassero risposte razionali con aggregazioni sociali e politiche.

Questa è una responsabilità umana, quindi io potrei dire che il momento della fede è un momento di responsabilizzazione in cui uno deve prendere coscienza e adoperarsi concretamente per l'amore e per la giustizia; il momento dell'intervento politico è invece un momento prettamente umano in cui ciascuno adotta gli strumenti che la storia gli offre in quel momento.

La solidarietà

Non so se ricordate la parabola del Buon Samaritano. A me sembra che dia una indicazione giusta in questa prospettiva e che non dia altre indicazioni sugli strumenti concreti, salvo che non ci si voglia ingannare.

La parabola del Signore narrava appunto di un uomo, un mercante che per strada fu aggredito dai briganti, i quali lo afferrarono, lo derubarono, lo pestarono malamente e lo lasciarono mezzo morto sul ciglio della strada. Ebbe a passare un sacerdote del tempio. Non la sto inventando io la parabola ma nostro Signore Gesù Cristo. Gesù era un po' un provocatore anche quando faceva gli esempi, faceva in modo di indispettire la gente. Dunque passò un sacerdote, spiegando che aveva tanto da fare, e questo sacerdote tirò avanti; poi passò un altro addetto al tempio, un levita, e anche costui, forse perché doveva correre al tempio a fare qualche servizio o forse perché quello sembrava un cadavere, passò oltre. Sapete che per gli antichi ebrei toccare un cadavere era una impurità, e allora al tempio il levita, se avesse toccato un cadavere, non avrebbe potuto fare il suo servizio. Per cautela, siccome Dio è più importante degli uomini, corriamo al tempio e lasciamo questo uomo mezzo morto qui per terra, “che il Signore ci pensi”.

Finalmente passò un terzo uomo, e qui Gesù fu provocatore fino in fondo: era un samaritano, un nemico della religione ebraica, una specie di eretico, diremmo noi oggi: gli altri ebrei dicevano che il tempio era a Gerusalemme, e quindi vi correvano, mentre i samaritani dicevano che bisognava adorare Dio sul monte Garizim. Ebrei e samaritani non si potevano vedere e Gesù dice che il samaritano di fronte a quest'uomo si dimenticò dei contrasti, dei pregiudizi religiosi che c'erano e sentì dentro di sé una profonda commozione. Quel tipo di commozione, che, come ci dicono i medici oggi, è propria di una madre quando vede soffrire un figlio. A vedere un fratello, a veder soffrire la carne di un fratello c'è proprio un’irrorazione di sangue nelle proprie viscere .

Quella commozione è una cosa reale. Quello che non è naturale è che questa irrorazione sanguigna, questa commozione avvenga in un estraneo di fronte a un nemico almeno dal punto di vista religioso. E in più la commozione dà una indicazione molto precisa: prima di tutto il superamento del pregiudizio e, in secondo luogo, il fatto che quest'uomo non fa solo un gesto, ma scende da cavallo, interviene, lo medica, versa sulle sue ferite del vino, versa dell'olio sui lividi perché si ammorbidiscano, lo fascia con i suoi stessi indumenti, lo carica sul cavallo, lo porta all'albergo vicino, passa la notte, paga il conto, lascia del denaro all'albergatore e poi dice: “Guarda – mentre quel poveretto non aveva neanche ripreso i sensi – quando io ripasserò, se avrai speso qualche cosa in più, io te lo salderò”.

A me sembra che questa abbondanza di dettagli dia una indicazione.

Non è come mettere 100 lire senza domandarsi se son poche o se sono troppe. Potrebbero essere anche molte... possono essere troppe; può darsi che non ne abbia bisogno; possono essere poche e uno sente che ha un bisogno immenso di solidarietà, di un sacco di cose di cui io non so nulla; quindi l'elemosina non è un sistema per mettere in pace la propria coscienza e sentirsi abbastanza buoni e non intervenire più. Altro invece è sentirsi coinvolti nella situazione della persona che è stata bastonata, che è stata derubata, che è caduta nello sprofondo di una situazione sociale. E in questa parabola vi è l’indicazione: il coinvolgimento deve essere completo, la condivisone deve essere completa. Non si può soltanto intervenire in modo superficiale ma bisogna coinvolgersi nella stessa situazione, decidere di condividerla fino in fondo.

In questo senso si dà un significato a quella commozione di cui si parlava, che non è quindi la commozione spirituale, emozionale, psicologica, che si ricompone con le 100 lire date in elemosina; o quando vedi i bambini che muoiono di fame in un manifesto e tu metti mille lire; non vuoi più guardare quel manifesto e tutto sommato ti senti abbastanza tranquillo in coscienza; quella commozione lì si placa con le mille lire. C'è un'altra commozione, quella del coinvolgimento in determinate situazioni che non si placa con l’elemosina ma si placa soltanto partecipando alla stessa condizione della persona che è stata calpestata e derubata.

Però c'è una indicazione che non dobbiamo trarre dalla parabola. Qualcuno potrebbe dire: ma noi facciamo sempre così, quando troviamo una persona bastonata mettiamo sulle sue ferite olio e vino. Questi strumenti di intervento appartengono a quel tempo. Gesù ha parlato dei medicamenti di quel tempo, ha parlato di un intervento legato alla cultura, alle strutture di quel tempo, quindi l'indicazione è questa: amare il prossimo significa condividere completamente la sua situazione e intervenire con gli strumenti umani con i quali si può intervenire per salvarlo. Noi oggi dobbiamo sapere che cosa significa questo: ci sono delle persone bastonate? Ci sono delle persone calpestate?

Mi permetto di ricordare quello che ho detto all'inizio. Se ci sono delle persone che proprio per nascita, sociologica o geografica, anche se non sono bastonate subito, nascono candidate alla bastonatura perché si sa che statisticamente hanno un notevole tasso di possibilità di andare a finire emigrati, di andare a finire disoccupati, di andare a finire nei ruoli sociali più bassi, nei posti di lavoro più faticosi, come sarà il mio intervento? Sarà solo un intervento occasionale aspettando che uno sia calpestato, oppure sarà un intervento radicale, con strumenti scientifici, con gli strumenti politici che ci dà il nostro tempo oggi? Questo è l'interrogativo.

Quando nacque la comunità di base di San Paolo

Un salto qualitativo che fece la nostra comunità all'inizio, fu quando gli operai che occupavano delle fabbriche vicino a noi, nel quartiere Marconi, vennero a chiedere che, come comunità di cattolici, li aiutassimo intervenendo in loro favore mentre facevano la loro lotta, con il loro sciopero. E ricordo che per noi fu un momento importante per prendere decisioni, perché dovemmo fare una colletta in una basilica pontificia per occupare una fabbrica.

Fu una cosa scandalosa, suscitò polemiche, vennero i fascisti a insultare. Discutemmo a fondo e ci ponemmo proprio di fronte a questa parabola del Buon Samaritano. Noi dicemmo: tante volte abbiamo cercato più o meno di fare i buoni samaritani. Ci hanno chiesto di fare una colletta per uno sfrattato, pagargli i due-tre mesi di affitto o di cauzione per avere un'altra casa. Tante volte abbiamo fatto la colletta per un operaio disoccupato. Tante volte abbiamo fatto la colletta per un bambino abbandonato.

Ma noi in quel momento non ci trovavamo di fronte a un operaio disoccupato, ci trovavamo di fronte a operai che per non diventare disoccupati dopo qualche mese dovevano occupare la fabbrica. A quel punto noi cattolici dovevamo fare come quelli che arrivano dopo, quando uno è già disoccupato?

Ci chiedemmo: che sarebbe successo se il Buon Samaritano fosse passato mezz'ora prima e avesse trovato i ladri che pestavano quell’uomo? Si sarebbe messo a sedere da una parte su una pietra ad aspettare che quell’uomo venisse picchiato e derubato per poi intervenire dopo a medicarlo, oppure avrebbe interposto la sua persona in modo da prendere le bastonate anche lui, condividendo quindi, non soltanto il bisogno, ma anche le botte?

E noi rispondemmo in questo modo: la nostra responsabilità non è soltanto quella di stare a valle, quando l'uomo è ormai ridotto a un relitto, quando un uomo è ridotto a oggetto di misericordia e di compassione.

Prima la condivisione

Allora scatta la nostra coscienza cristiana. Noi, quando coloro che sono sfruttati e calpestati dalla società lottano per non esserlo più, per non essere più poveri, per non accettare più la loro condizione, noi condividiamo questa lotta; e questa è una lotta di amore, è una lotta di riconciliazione, non è una lotta di odio e sopraffazione. Caso mai l'odio e la sopraffazione sono di chi costringe un operaio a 40 anni, nel bel mezzo della sua vita, sul lastrico dicendo: “Amico mio non so più cosa fare per te, cercati un altro lavoro”.

Questa è una situazione inaccettabile perché la Costituzione dice, in termini formali, che la nostra società è fondata sul lavoro per tutti. Quindi il lavoro non è un regalo che si può ottenere con la raccomandazione o a gomitate o perché uno ha il titolo di studio. Il lavoro è un diritto di tutti i cittadini italiani sancito dalla Costituzione.

La difesa del posto di lavoro è una posizione sacrosanta che deve trovare la comunità dei cristiani accanto ai lavoratori. A noi è parso a questo punto che l'intervento del Buon Samaritano di oggi, non sia un atteggiamento assistenziale ma la condivisione della lotta che le classi subalterne conducono per uscire dalla loro condizione di sfruttamento.

Allora, tornando all'Anno Santo, a noi cristiani non è chiesto tanto di essere noi a gestire le lotte per la giustizia, e di impostare, in nome del Vangelo, una società più giusta. Il Vangelo ci dice con le parole del Buon Samaritano: spenditi, responsabilizzati, condividi la condizione umana. Questo ci dice il Vangelo. In quanto poi agli strumenti concreti, questi si trovano anche con gli altri uomini, anche non credenti, anche atei, tutti insieme. È la ragione umana.

Il Vangelo non divide gli uomini in operai cattolici e non cattolici che si scontrano fra di loro, non li divide più, ma dice ai cattolici: condividete, la divisione sarà un'altra, sarà oggettiva, tra coloro che sfruttano il lavoro e coloro che sono sfruttati; ma di sfruttare non glielo ha ordinato il medico e quindi le persone possono sfruttare, ma anche convertirsi e lavorare come gli altri.

Se noi poniamo la discriminante tra operai cattolici e operai non cattolici, non la poniamo nel punto giusto, perché persone che sono nella stessa situazione e che sono tutte sfruttate per motivi ideologici, si vengono a trovare su due fronti diversi come ai tempi in cui i contadini cattolici italiani sparavano sui contadini cattolici austriaci in difesa, in entrambi i casi, dell'interesse delle classi privilegiate.

Allora superiamo questa mentalità e diciamo che andiamo a condividere completamente quel progetto storico che oggi è in corso, per il quale si deve costruire una società in cui ci sia anche posto per gli sfruttatori ma a una sola condizione: che cessino di essere tali e che partecipino loro stessi alla dinamica del mondo dei lavoratori nella dimensione umana nella quale vogliamo costruire la società più giusta.

Cattolici dentro e fuori la comunità

[Scegliere questa solidarietà] è abbastanza difficile, perché capita che per vari motivi (non stiamo qui a giudicare né a condannare il gruppo di cattolici), qualche volta l'intera parrocchia, ma anche la nostra comunità, faccia determinate scelte di metodo, di diverso approccio ai problemi o abbia un diverso modo di vivere queste nostre responsabilità di fede; allora può capitare nel giro di mesi o di anni, di trovarsi non fuori dalla Chiesa, questo per fortuna no, ma fuori dalle strutture materiali, fuori dalle parrocchie, dove sarebbe possibile comunicare. Ad esempio, riguardo agli emarginati dalla stampa cattolica: uno deve scrivere quasi esclusivamente sulla stampa laica oppure su alcuni dei pochi giornali che gli consentono di scrivere ma che non arrivano a quei cattolici moderati a cui si vorrebbe parlare.

Quindi esiste la possibilità talvolta di sbocco politico; uno fa le sue scelte di sindacato, di partito, come ha fatto concretamente la comunità di San Paolo.

La comunità ha cercato un espediente per parlare con il mondo cattolico. In generale direi col metodo con cui parla San Paolo in modo opportuno e importuno, bussando, dando fastidio, cercando di trovare degli espedienti. Per esempio, una volta abbiamo siamo andati in molte parrocchie di Roma, proprio in un momento in cui c'erano durissime polemiche, chiedendo di poter incontrare i singoli gruppi della parrocchia per spiegare la nostra posizione, perché l'immagine che spesso passa nella stampa può essere deformata, sia in modo strumentale, sia per deformazioni insite in certa stampa che ama far notizia con titoli vistosi. Se si fa un’azione pubblica, questa va a finire sulla stampa. Sto dicendo che la sola immagine veicolata dalla stampa è insufficiente, a meno che una persona sia così brava che legga quattro o cinque giornali. Ma la massima parte delle persone legge uno o al massimo due giornali. E devo dire francamente che molti hanno paura di leggere altre fonti, altrimenti direi che non so quale sarebbe stato l’esito dei nostri incontri in quelle parrocchie.

Su quaranta parrocchie contattate a Roma, soltanto in sei o sette e in due collegi ecclesiastici siamo riusciti ad avere un dibattito ampio e sereno e abbiamo passato tutta la serata assieme a discutere per confrontarci. Nessuno ha assimilato la posizione dell'altro ma per lo meno ci siamo conosciuti, tutti abbiamo riconosciuto di essere cattolici all'interno della Chiesa, non solo come Chiesa carismatica ma anche come Chiesa istituzionale. Quindi di avere una visione pluralistica della Chiesa e una visione pluralistica anche dell'impegno politico del cristiano.

Per esempio qualche mese fa (e questa è la prima volta che lo dico in pubblico perché siamo un po' ai margini della società) abbiamo registrato per la televisione italiana una lunga intervista di oltre un’ora nella quale si vogliono proprio spiegare queste cose. Ma dalle notizie degli amici che abbiamo in televisione, questa intervista, passata da mesi attraverso tutti i valichi possibili ed immaginabili, approvata da tutti i direttori, non va in onda. Vorrei sapere chi è quella anima buona che la farà andare in onda. Questo sarebbe un gesto di riconciliazione.

Quando mi hanno sospeso, la notizia è stata diffusa in tutti i telegiornali e in tutti i radiogiornali (e quando mai di una cosa del genere, su un prete, si è occupato il telegiornale e il radiogiornale?). Volete domandare a questa persona: “scusa, dai tu la tua versione dei fatti”? In ogni caso, anche se ho accettato questo provvedimento, avrebbero potuto chiedermi: “Hai qualcosa da dire? In che senso hai accettato il provvedimento?”.

Mi son dovuto anche difendere da attacchi. In quel momento io mi son trovato per alcuni mesi, prima di prendere la parola in pubblico, attaccato da tutte le parti senza poter rispondere.

Un'altra cosa abbiamo fatto recentemente: una tavola rotonda tra me e padre Sorge, il direttore di Civiltà Cattolica, organizzata da Panorama. Io ho posto una condizione: se questa tavola rotonda significa che c’è uno che attacca la Chiesa e uno che la difende, io non ci sto. Siamo due cattolici all'interno della Chiesa che hanno due posizioni sfumate e diverse nei confronti della Chiesa stessa. Uno sospetto, mal visto, l'altro no. Uno rappresenta una posizione ufficiosa, l'altro la posizione ufficiale.

Questa discriminante era stata accettata anche da padre Sorge, non una persona qualsiasi. Però questa intervista su Panorama fatta due mesi fa non esce. Vorrei sapere il perché.

Allora ecco che siamo agli stessi discorsi: purtroppo a me sembra ci siano persone interessate a spingerci fuori, a spingerci su posizioni radicali perché siamo scomodi, anche se il nostro è un discorso pacato, tranquillo, ma è pluralistico e tocca i poteri reali.

Quindi abbiamo cercato espedienti, contatti con la stampa, con mezzi di comunicazione sociale, ma questi sono stati i risultati.

Mesi fa per esempio, un mio vecchio amico delegato diocesano dell'Azione Cattolica a Firenze, con cui condividiamo le stesse idee, mi ha fatto una lunga intervista per tutti i giornali diocesani. Questo è successo alcuni mesi fa, ma dopo l'incidente del referendum, l’intervista non è passata sulle riviste diocesane. Perché questo? Perché questa paura? Non si può accedere a un dibattito sui giornali cattolici su queste cose?

Se ci sono dei muri di fronte a noi, pazienza. Noi sappiamo da quanto lontano venga la Chiesa e quanto lontano debba ancora andare. Quindi se ci sono difficoltà, muri insormontabili non ne facciamo un dramma. Talvolta bisogna anche fare la polemica, ma in altri casi essere continuamente in una posizione polemica contro le strutture ufficiali dell'istituzione avvelena noi stessi e avvelena gli altri; quindi non si può solo stare sempre su questa posizione, bisogna anche proporre, se siamo una comunità di fede, se siamo uomini di fede, bisogna anche saper vivere in una dimensione di contemplazione, di annunci evangelici, non solo in una posizione polemica.

Per esempio la comunità con grande sforzo ha raccolto le omelie che avevo fatto in basilica, quindi voi immaginate quanto lavoro ha richiesto: ascoltare i nastri, battere a macchina le trascrizioni, poi ricucirle tutte le volte che la registrazione non ha funzionato bene; è stato un grosso, lungo lavoro della comunità e oggi è un libro che circola in Italia letto anche da tanti preti normalissimi, moderati, i quali, prima di prepararsi la predica, tra le altre cose, danno anche un'occhiata a quello che è il tipo di predicazione della comunità di San Paolo: allora se tu pianti un albero e offri delle mele buone, anche se non sono quelle del giardino dell'Eden, ma sono mele buone, offerte a tutti, nessuno può porre intralci, e a quell'albero andranno persone di tutte le condizioni.

Così oggi, poiché io non posso predicare perché non sono nella condizione di poterlo fare, in questo momento predica la comunità, altri preti della comunità, e i laici che danno la loro testimonianza. Allora la situazione è questa: se noi raccogliamo la predicazione della nostra celebrazione in modo che tra uno-due anni esca un altro volume, non saranno più le omelie di preti, ma uscirà la predicazione della comunità di San Paolo. Ora io vi dico se fra due anni uscisse un volume di predicazione e questo è buono e valido, se fra due anni uscisse la catechesi e fosse buona, come sarebbe possibile non fare considerazioni in merito? Se il discorso polemico inasprisce gli animi, non si potrà non dire che viene dallo Spirito produrre nella fede in un momento in cui l'esperienza di fede è molto in crisi, produrre in positivo per portare frutti. Se poi tutto questo venisse dalla presunzione umana, allora tutto il contenuto cadrebbe come un castello di carta.

I cristiani e la politica

Gesù distingue bene l’essere nel mondo e il non essere del mondo, quindi c'è una presenza del cristiano nel mondo che ha un risvolto verso la capacità di percezione del Divino e un risvolto nell'essere umano nel senso di responsabilizzazione e coinvolgimento; e questo è stato molto trascurato. Ma non perché il Regno non è di questo mondo. Perché il cristiano non può accettare in quanto tale la logica del mondo, la logica dei poteri; ed è logica di potere proprio fare da cristiano una ideologia della politica cristiana; è questo è un partito cristiano che si rifiuta.

Il cristiano quando è responsabilizzato usa gli strumenti che sono a disposizione e che vengono elaborati da tutti gli uomini. Utilizzare strumenti separati e ipotizzare il Sacro Romano Impero, le monarchie cattoliche, i partiti cristiani, questo è entrare, in quanto cristiani, in quanto comunità e gruppi cristiani in una mentalità di questo mondo con una presenza in questo mondo.

Così si entra in contraddizione, il partito cristiano entra in competizione con altro partito non cristiano. Una monarchia cattolica entra in competizione con una monarchia protestante, non cattolica; e come fa la guerra poi? Con le armi, con i cannoni, con strumenti mondani: si segue la logica di questo mondo e in questo senso si disobbedisce alle indicazioni del Signore.

Forse sono stato generico: quando dico utilizzare nuovi strumenti, intendo dire fare concrete scelte politiche. In questo senso, quindi, all’interno di una critica della società capitalistica e di una critica di questa società liberal-borghese, ho poi ipotizzato, in modo utopico, una società di tipo egualitario.

A questo punto abbiamo di fronte a noi diverse strade: una è di tipo riformistico, social-democratico, è l'adozione di un certo tipo di strumenti; l'altra è di tipo socialismo scientifico rivoluzionario.

Questi però sono strumenti umani: noi abbiamo fatto le nostre scelte. E però non possiamo dire che noi delle comunità di base scomunichiamo la Chiesa. Io ho fatto una scelta di socialismo scientifico, rivoluzionario; nel movimento cristiano delle comunità di base l’arco va dal PSI, attraverso il PCI, fino alla sinistra extraparlamentare. Non possiamo dire che scomunichiamo, però non vogliamo neanche essere scomunicati, questo è chiaro. Dobbiamo sapere che adottiamo degli strumenti di intervento che sono storici, quindi dalla stessa fede non possono derivare diverse indicazioni utopiche. L'indicazione utopica è unica. L'indicazione utopica è quella di una società in cui il Vangelo mise i cristiani accanto ai poveri, agli sfruttati e agli ultimi, e contro i gruppi di potere. Questa indicazione è univoca nel Vangelo e non è possibile essere cristiani ed essere nazisti, colonialisti, calpestatori di diritti; questo non è possibile.

Quindi l'indicazione utopica che proviene dal Vangelo è univoca, altrimenti siamo nel peccato. Però qui, mi permetto di insistere, se non vogliamo fare un nuovo integrismo di sinistra, non possiamo dire che il socialismo scientifico viene dal Vangelo. Sarebbe assurdo perché sarebbe come proiettare una analisi scientifica avvenuta nel secolo scorso, tra l'altro fuori e contro la Chiesa, indietro nel tempo e fare un Gesù Cristo socialista. Il che è semplicemente antistorico.

Quindi noi dobbiamo dire che da questa provocazione a partecipare alla costruzione di una società più umana, ugualitaria, a misura d'uomo, che sia segno anche terreno di un Regno che è nella nostra speranza, derivano sia il cammino riformista, che non può essere scomunicato, sia il cammino socialista, che nemmeno può essere scomunicato.

Allora a questo punto una persona mette le carte in tavola: io ho fatto queste scelte e non mi si venga a dire allora che i cattolici si trovano divisi in politica. Sono sempre stati divisi in politica. L'utopia dell'unità politica dei cattolici è una manifestazione integralistica voluta, ma i cattolici quando mai sono stati sulla stessa posizione politica durante tutti i secoli? La divisione politica dei cattolici non implica la divisione nella fede e la rottura dell'unità della fede nella Chiesa. Questa ci sarebbe nel momento in cui, ad esempio, ci fossero dei cattolici o dei cristiani che dovessero fare gli schiavisti. In questo caso si andrebbe completamente fuori dalla prospettiva del cristianesimo.

Nel momento in cui i cattolici adottano storicamente mezzi diversi per raggiungere gli obiettivi voluti, ci sarà uno scontro anche duro ma io non credo che per questo si debba rompere l'unità della Chiesa.

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