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Per aiutare l’aurora a illuminarsi

Per aiutare l’aurora a illuminarsi

Tratto da: Adista Documenti n° 28 del 27/07/2024

Qui l'introduzione a questo testo. 

Non avrei mai immaginato di essere qui a ricevere un premio così significativo, un premio che porta il nome del grande teologo e compianto e caro maestro João Batista Libânio e che è già stato conferito a famosi teologi e docenti come Leonardo Boff e Carlos Mesters, mentre l'anno scorso ero qui come uno dei rappresentanti incaricati di concederlo al mio caro amico José Oscar Beozzo.

Nel tributarmi l'onore di questo premio, avete certamente voluto anticipare il regalo per i miei 80 anni, che festeggerò a novembre, ma anche onorare il modo di unire la teologia e il servizio pastorale nel coinvolgimento sociale e politico con le comunità impoverite che cerco di vivere fin dagli anni Settanta. Una teologia in forma di profezia. Una profezia in forma di teologia.

È molto significativo per me ricevere questo premio qui e ora, proprio in questa data, l’11 luglio, in cui la Chiesa celebra la memoria di San Benedetto, il padre dei monaci e delle monache d'Occidente, la cui Regola ho promesso di seguire per tutta la vita, anche se, negli ultimi anni, l'ho vissuta nella diaspora e in una sorta di monachesimo itinerante, in cui il mio monastero è il mondo delle persone impoverite e delle comunità in cammino.

Questa sera, ricevo questo premio come una sorta di prolungamento di quella sera del 7 agosto 1999 in cui visitai per l'ultima volta il mio maestro e pastore Hélder Câmara nella sacrestia della Chiesa delle Frontiere. Sentendo che era l'ultima volta che saremmo stati insieme, gli chiesi una parola di vita e, dopo un lungo silenzio, facendo ormai fatica a parlare, mi sussurrò: «Non lasciar cadere la profezia».

Fin dal primo momento, sono stato consapevole che queste parole non erano dirette solo a me, ma anche a nome di tutti voi che mi avete accompagnato in questo viaggio di liberazione. Alcuni di voi sono stati con me quasi fin dall'adolescenza, come i miei insegnanti di teologia. Li ricordo tutti nella persona del caro Eduardo Hoornaert, che trovo sempre pieno di rinnovata energia a Salvador de Bahia. Mi ricorda tanti fratelli e sorelle con cui abbiamo vissuto nei vari gruppi del nostro cammino.

Vorrei qui ricordare i miei fratelli e amici italiani che mi accompagnano da tanti anni, il compianto Antonio Vermigli, i miei carissimi Renato Frinzi e Sara, Marco Campedelli, Claudia Fanti, Bruno Marabotto e il gruppo biblico di Pinerolo, Bernard Byczek e la comunità di Piombino e Pisa, Nandino Capovilla e la sua comunità di Marghera, Eliana Borsari, Rosella e la Casa della Solidarietà a Quarrata, così come tanti amici e amiche dell’Italia che vorrei potessero stare qui in questo momento per ricevere con me questo premio.

La profezia biblica è sempre comunitaria. Lo era già nell'antichità, ma oggi questo carattere comunitario è ancora più importante. Per questo penso che il premio non vada solo a me come individuo, ma a tutta la collettività che costituisce il cammino profetico delle comunità cristiane di base: il gruppo Emmaus, di cui sono membro da 40 anni e che è quello in cui ho incontrato e vissuto più da vicino Libânio, offrendo assistenza insieme a lui agli incontri interecclesiali delle CEBs negli anni '80 e '90, e il Centro di Studi Biblici (CEBI), di cui sono stato membro fin dall'inizio e che questo luglio festeggia il suo 45° anniversario. Il centro in cui abbiamo potuto contare sulla profezia e sulla poesia della cara suor Agostinha Vieira de Melo, con la quale ho imparato a essere un monaco nella periferia del mondo e in comunione con i più piccoli.

Ho appreso la Teologia della Liberazione non all'università, ma nella Pastorale della Terra, che ha ormai 50 anni. Quando ero membro della segreteria nazionale, sono stato minacciato di morte due volte e ho avuto l'onore di essere arrestato e minacciato con un’arma dal famigerato colonnello Curió nell'accampamento dei contadini di Ronda Alta nel 1981.

Ringrazio Dio per aver potuto collaborare con il Consiglio Indigenista Missionario (CIMI), che accompagna i popoli indigeni in Brasile. Che gioia essere diventato amico di alcuni capi Xavante e Karajá! E oggi ringrazio Dio anche per la presenza nella mia vita del fratello Gildo Xukuru, che mi insegna a unire la spiritualità indigena all'amore per il Vangelo di Gesù.

Sono profondamente grato a Dio per la grazia di essere stato amico della sacerdotessa del Candomblé Madre Stella de Oxossi. Benché il Vaticano abbia voluto indagare e non abbia compreso questa comunione con il Candomblé, e malgrado il mio Orixá sia Ayrá (l’orixá legato ai venti, ndt), ho ricevuto da lei lo status di Ogã (una sorta di guardiano e ausiliare, ndt) di Iansã (l’orixá dei venti e delle tempeste).

Ho imparato tantissimo dai miei fratelli e sorelle del dialogo ecumenico e interreligioso e del dialogo intergenerazionale da cui è nato il MEL, il Movimento dei Giovani e delle Spiritualità liberatrici. Di questo gruppo, sono qui in questo momento, in rappresentanza di molte altre persone, i cari fratelli e compagni Hildete Emanuelle ed Edward Guimarães.

Per questo vi chiedo di invitarli a ricevere questo premio insieme a me. E con loro, penso che il modo migliore per ringraziarvi di questo segno di affetto che ci avete dato oggi sia quello di riflettere sulle sfide attuali del fare teologia come profezia e della profezia come parte della realtà sociale e politica del mondo in cui viviamo.

Una profezia regnocentrica

In realtà, la profezia non è solo una tra le altre dimensioni della fede e dell'ecclesialità, ma quella che abbiamo ereditato direttamente da Gesù, il quale si è sempre presentato come profeta, vivendo il suo ministero come profeta del regno divino nel mondo.

All'inizio di questo secolo, in un congresso uguale a questo, noi celebravamo i 30 anni della Teologia della Liberazione. In quell’occasione, il mio maestro, il padre José Comblin, esprimeva la sua perplessità per il fatto che, sebbene il Brasile e alcuni Paesi latinoamericani stessero vivendo nuove fasi politiche – con elementi come il bilancio partecipativo e le proposte per una migliore distribuzione del reddito – la teologia sembrava essere assente da tutti questi fermenti.

Nel libro collettivo curato da Carlos Susin, che ha raccolto gli interventi di questo convegno (O Mar se abriu. Trinta anos de Teologia na América Latina, Loyola, 2000), Jon Sobrino ha esplicitato con più forza questa preoccupazione, affermando nel suo testo: «Ciò che mi preoccupa di più della teologia di oggi è la sua tendenza al docetismo, cioè, a creare una sfera propria che la allontana e la separa dalla realtà vera, quella in cui si rendono presenti il peccato e la grazia. Questo docetismo, generalmente inconsapevole, può portare all'imborghe simento e all'abbandono dei poveri e delle vittime che sono la maggioranza e la realtà più evidente».

In uno dei suoi libri, scritto quasi 20 anni fa, Jung Mo Sung racconta che negli anni '80, in un famoso congresso teologico a Montevideo, Hugo Assman disse: «Se la situazione storica di due terzi dell'umanità, con i suoi 30 milioni di morti per fame e malnutrizione, non diventa il punto di partenza di tutta la teologia cristiana di oggi, la teologia non sarà in grado di applicare i suoi temi fondamentali alla storia concreta. Le sue domande non saranno vere domande. Ecco perché la teologia (e la fede) deve essere salvata dal suo cinismo. Perché, in realtà, di fronte ai problemi del mondo di oggi, molti scritti teologici si riducono a un esercizio di cinismo».

Personalmente, mi convinco ogni giorno di più che il carattere socio-politico della profezia sia vissuto non a partire dal potere, che sia ecclesiastico, sociale o politico, ma dal basso, cioè dall'inserire nel mondo degli impoveriti la testimonianza del regno divino su questo mondo.

Grazie a Dio, pur essendo una minoranza - dom Hélder Câmara parlerebbe di “minoranze abramitiche” nelle Chiese e nel mondo -, rimaniamo saldi come Chiesa del cammino. Ora, ciò che costituisce la profezia del cammino è il suo essere regnocentrica, come lo è stata la profezia di Gesù. La profezia ecclesiocentrica, cioè basata sull'istituzionalità ecclesiastica, non è profezia e, se pure lo fosse, non sarebbe perlomeno la profezia del Vangelo di Gesù.

Ai margini dell’istituzione

Ecco perché la Chiesa organizzata come sistema sociale (cristianità) non può essere profetica e non accetta la profezia. La profezia può venire solo dal basso e dalle periferie. Anche vescovi e arcivescovi che all’inizio del loro ministero godevano di certo potere nella Chiesa, come Hélder Câmara e Oscar Romero, hanno vissuto tanto più la profezia quanto più hanno accettato di perdere il potere ecclesiastico, rimanendo isolati ed emarginati nei loro circoli ecclesiastici, e di farsi poveri. I titoli e i privilegi della carica non hanno dato loro sicurezza o tranquillità. Negli anni Settanta, Dom Hélder Câmara venne isolato all'interno della stessa Conferenza dei vescovi brasiliani (CNBB) e in Vaticano trascorse anni senza poter essere ricevuto da papa Paolo VI, che era stato suo amico fin dagli anni Cinquanta. È solo quando si accetta questa “marginalità” istituzionale rispetto alla Chiesa e al mondo che si può esercitare la profezia.

Nel 1971, papa Paolo VI convocò un sinodo dei vescovi sulla giustizia nel mondo. Il tema era stato suggerito da Hélder Câmara, il vescovo che più stava lavorando su questo tema a livello mondiale. Era stato lui a proporlo, eppure non venne eletto come rappresentante dell'episcopato brasiliano (che non votò per lui), né fu invitato dal papa. Benché fosse arcivescovo di Olinda e Recife e presidente della Regione Nord-Est II della CNBB, nonché fondatore della Conferenza episcopale e del Celam (Conferenza dei vescovi latinoamericani), dom Hélder non partecipò al Sinodo e non poté contribuirvi.

È solo grazie alla libertà data dalla profezia che, il 20 novembre 1981, dom Hélder e dom José Maria Pires, allora arcivescovo di João Pessoa, celebrarono la Messa dei Quilombos, che il Vaticano stava ancora esaminando e che entrambi sapevano che sarebbe stata proibita.

E fu nell'omelia di questa messa che dom José Maria Pires non esitò a pronunciare a voce alta, di fronte alla moltitudine riunita nella Piazza del Carmo di Recife, le seguenti parole: «Più lunga della schiavitù dell'Egitto, più dura della prigionia di Babilonia, è stata la schiavitù del popolo nero in Brasile. (...) Durante quel lungo periodo, la nostra Chiesa non ha maledetto la gogna, non ha benedetto i quilombos, non ha scomunicato gli eserciti organizzati per combatterli e sterminarli. La nostra Chiesa non è stata a fianco dei neri e sembra che solo ora stia iniziando a esserlo. Sta cominciando ad amarci. (...). È giunto il momento che tanto sangue diventi seme e che tanto seme germogli».

Dom José Maria dice due volte “la nostra Chiesa”, ma, quando dice che la Chiesa sta cominciando ad amare noi, uomini e donne di colore, non si identifica con la gerarchia, bensì con i neri schiavizzati. Il terreno a partire dal quale parla non è quello del potere, ma quello dell'amore e della diaspora.

Nessuno di questi grandi vescovi è riuscito a scegliere il suo successore. La loro profezia non veniva più dalla cattedra della gerarchia, ma dall'emarginazione e da un esigente impoverimento interiore.

Un amico salvadoregno, di cui non ho il permesso di dire il nome, è stato per anni l'autista privato di monsignor Romero. Ora vive vicino a Vitória. Un giorno mi raccontò che quando, nel suo ultimo anno di vita, lo accompagnava alla casa dove si riunivano i vescovi, monsignor Romero gli chiedeva: tra 50 minuti apri la porta della stanza e chiamami dicendo: deve andare dal medico o è l’ora della visita a cui non può mancare. Perché per più di 50 minuti non sopravvivrei al dolore che mi procura questo tipo di riunioni (con i vescovi).

Quando me lo disse, mi ricordai di un'esperienza vissuta con Pedro Casaldáliga.

Vent'anni fa, due anni prima che diventasse emerito, mi aveva chiesto di predicare il ritiro della sua prelatura e, poiché non aveva i soldi per pagare l'aereo da Goiânia a São Félix, decidemmo di andare in autobus fino a São Miguel do Araguaia e solo da lì prendere l’aereo. In quei giorni, Pedro era a Goiânia per un incontro con i vescovi della regione. E quella sera uscì dall’incontro e prese l'autobus insieme a padre Geraldo, ma la mattina presto, quando il sacerdote si svegliò, Pedro non era sull'autobus e nessuno sapeva che fine avesse fatto.

Naturalmente ci preoccupammo molto e solo nel pomeriggio di quel lunedì riuscì a mettersi in contatto con noi e a dirci cosa era successo. La riunione con i vescovi era stata per lui così pesante e dolorosa che se ne era andato da lì con la febbre e un po' di disturbi intestinali di natura nervosa. Non aveva detto nulla a don Geraldo per non parlare male di nessuno e per non metterlo contro gli altri vescovi. Aveva pregato e cercato di dormire, ma il malessere intestinale era peggiorato. Poiché l'autobus non aveva una toilette, più o meno alle due di mattina disse all'autista che doveva fermarsi. L'autista si fermò, ma non aveva capito che si trattava di una sosta veloce. E così ripartì lasciando Pedro sulla strada da solo, nel buio, con la febbre e i dolori intestinali. Aveva solo i suoi vestiti, era senza soldi e senza documenti.

Nel buio camminò sul ciglio della strada, iniziò a piovere e corse a ripararsi in una baracca che vide dalla strada. Un uomo anziano gli aprì la porta, lo accolse, gli diede una coperta con cui coprirsi e un bicchiere di latte caldo...

Pedro trascorse in quel luogo il resto della notte e al mattino presto l'uomo lo portò con un carretto in una città vicina dove poté comunicare con noi e continuare il suo viaggio.

La risposta è la profezia

Mi dispiace raccontarvi queste storie, ma è per parlare della profezia, che non può essere il terreno della cristianità, il terreno del clericalismo, nemmeno di quello di sinistra.

In questi giorni, alcuni dei nostri fratelli e compagni, di fronte alle azioni nefaste di persone e gruppi di destra in Brasile, si chiedono: perché la CNBB non condanna il Centro Dom Bosco (ufficialmente noto come Associação Centro Dom Bosco de Fé e Cultura, è un'organizzazione laica cattolica fondata nel 2016 a Rio de Janeiro che aderisce ai principi dell'ultraconservatorismo cattolico, ndt)? Perché non dichiara che il tale o tal altro sacerdote o vescovo di destra non è più cattolico? E si dicono felici della notizia che il Vaticano ha scomunicato l'ex nunzio Viganò e che il vescovo della diocesi di Burgos ha scomunicato il gruppo di clarisse spagnole che si erano schierate contro il Concilio.

Certamente, i nostri compagni di viaggio hanno ragione nel sentirsi attaccati da questi nuovi crociati di un cristianesimo fatto di odio e di rigidità istituzionale e di una Chiesa legata agli imperi del mondo. Hanno ragione a voler reagire.

Ma la reazione giusta e appropriata non può che essere la profezia stessa. Non possiamo cedere alla tentazione di scambiare il sistema istituzionale di destra della Chiesa con un tipo di cristianesimo ugualmente istituzionale ma di sinistra, perché si tratterebbe comunque di un'istituzione ecclesiastica forte e monolitica e disposta a esercitare il potere da quest’altro lato.

La profezia non arriverà mai in questo modo. Aprire la porta dell'esclusione è facile. Il difficile è chiuderla.

Il premio che la SOTER mi conferisce questa sera può essere visto come uno di quei semi di profezia che germogliano. Una profezia di un altro modo di fare teologia, che non sarà la “teologia della zappa” iniziata da padre Comblin più di 50 anni fa, ma sarà la teologia delle riunioni virtuali su internet, del WhatsApp, della complicità amorevole con il Movimento dei Senza Terra, con le comunità indigene e con i gruppi popolari che accompagniamo. Metteremo insieme le teologie sulla liberazione che i nostri compagni fanno in ambito accademico, che sono molto importanti, con le teologie della liberazione che portiamo avanti insieme a partire dall'accompagnamento delle comunità e dei gruppi popolari.

Uno di questi giorni, qualcuno ha postato su internet una breve poesia di Clarice Lispector che dice:

...Vivo di schizzi

incompiuti,

Ma trovo l’equilibrio

Come posso

Tra me e me,

Tra me e gli esseri umani,

Tra me e Dio...”.

Grazie di cuore e un abbraccio a tutti e tutte voi. 

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza 

 

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