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Celebrare la messa scrutando i “segni dei tempi”

Celebrare la messa scrutando i “segni dei tempi”

Tratto da: Adista Documenti n° 30 del 07/09/2024

Qui l'introduzione a questo testo. 

La riflessione che propongo non è un tentativo per arrivare a individuare uno schema per la messa perfetta. Essa è, piuttosto, un contributo a prendere sul serio l’invito di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II: quello di leggere i segni dei tempi1. E ciò è tanto più urgente dal momento che siamo dentro a un tempo mutevole. La stessa celebrazione eucaristica avviene dentro il tempo che cambia. Del resto la liturgia ha il carattere della provvisorietà: è qualcosa che è destinata a sciogliersi, come è nella logica dei segni, compresi i simboli sacramentali. La fragilità o provvisorietà della preghiera fece affermare al teologo Harwey Cox, già negli anni ’60, che la preghiera e la fede sono entrambe autentiche forme di gioco2. Non sono forme di assicurazione sulla vita. La messa è una forma di “gioco” per l’umanizzazione di se stessi e del mondo. Danzare, poetare, giocare o celebrare la vita non è tempo inutile. Senza gioco, senza danza, senza poesia, senza musica, senza ringraziare, sognare e lottare per un mondo più umanizzato si perde il sapore della vita e si entra nella logica delle macchine. Non vogliamo avere come destino il divenire pezzi di un ingranaggio mortale, di un sistema triste, senza cuore, senza futuro.

Ma dobbiamo ammettere che il “gioco” della messa spesso appare come un giocattolo “rotto”, vista la distanza che c’è tra i suoi simboli, le sue parole e le attese della società del nostro tempo post-cattolico. Bisogna dirselo: sembriamo come quei bambini o quelle bambine della parabola evangelica, ma a parti invertite, «che stanno seduti in piazza e, rivolti ai compagni, gridano: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto!”» (Matteo 11,16-19). Il nostro gioco della messa spesso non fa danzare più o lascia molti indifferenti. Questa situazione è sotto gli occhi di tanti, almeno qui in Europa. E pone una questione ecclesiologica. Su questa situazione vorrei riflettere. La mia riflessione, pertanto, non è quella di un liturgista. Vuole essere, piuttosto, una riflessione ecclesiologica: una riflessione sulla situazione della Chiesa che celebra sotto lo sguardo del mondo di oggi.

1. Celebrare nel mondo di oggi

Noi non celebriamo in uno spazio-tempo immutabile, ma in uno spazio-tempo mutevole sul piano storico. La società sta cambiando, anzi noi stessi siamo cambiati. E se è vero che noi non smettiamo di porre la fiducia nell’opera dello Spirito di Dio che ha segnato la vita di Gesù, ciò non ci sottrae alla nostra responsabilità di leggere la storia dove celebriamo. Perché è dalla misura della nostra fedeltà alla storia contemporanea che sarà misurato il nostro ascolto dello Spirito del Dio di Gesù. Ci viene chiesto, oggi, di accettare di essere oggetto dello sguardo degli altri e delle altre. Gli altri e le altre ci guardano. Che dicono di noi che celebriamo la messa, della Chiesa che celebra la messa? Questa domanda è centrale. Per questo non ci occorre, tanto, un ripensarci come comunità riandando alla ricerca di un passato idealizzato, che non è mai esistito. Non ci occorre tanto un “ritorno alle fonti della tradizione” che ci potrebbe impantanare nella ricerca storico-teologica, al chiuso delle commissioni senza arrivare a risultati pratici per la riforma della Chiesa. Questo modo di procedere, a dire il vero, è anche qualcosa di presuntuoso, perché ci fa sentire autosufficienti. Non basta rispolverare il passato per trovare le soluzioni. Dobbiamo spogliarci come Chiesa, sull’esempio del Signore Gesù che depose le vesti abituali, per farci cambiare sotto lo sguardo esigente della contemporaneità. Del resto il Concilio lo aveva detto: «L’esperienza dei secoli, il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» (Gaudium et spes 44). Oggi ci è chiesta una spoliazione per metterci a nudo sotto lo sguardo degli uomini e delle donne del nostro tempo. E ciò faremo non per cedere alla moda, ma per una conversione teologica ed evangelica.

Stando così la scelta di campo sul piano metodologico, la questione ritorna: che dice oggi il mondo di noi Chiesa? Di coloro che leggono e spiegano a noi il Vangelo, anche attraverso l’arte e la letteratura? Dobbiamo abituarci a farci leggere il Vangelo da quanti stanno sulla soglia della Chiesa. Se accettiamo questa sfida metodologica, dobbiamo trarne le conseguenze. Ne sottolineo solo alcune.

2. La domanda di partecipazione

In una società che sente viva la dimensione della partecipazione politica, civile e sociale, la messa spesso viene vista come una celebrazione segnata dall’autoreferenzialità. La messa è percepita come orientata intorno alla figura del “sacerdote” (anche se nel Nuovo Testamento non esiste la figura del “sacerdote” che celebra o presiede lo “spezzare il pane”). Certo, sul piano teorico, noi diciamo che è l’assemblea a celebrare. Ma nella realtà, noi targhiamo la messa a partire dal “sacerdote”, dal “celebrante”. Il Messale romano lo ripete continuamente: il “sacerdote”, il “celebrante”. È una scelta strutturale, anche se il termine neotestamentario “presbitero”, “anziano” (che il Concilio ha rispolverato nel decreto Presbiterorum ordinis), che fa pensare a qualcuno dall’interno della comunità, non viene valorizzato abbastanza.

Nella società che chiede “partecipazione”, inoltre, noi spesso celebriamo la Cena del Signore, un atto originariamente comunitario, nella solitudine o nell’anonimato. Una Chiesa di soli e di anonimi può avere cittadinanza in una società partecipativa? Può essere desiderabile?

Ma ciò che ancora di più rende tutto ciò “strano” agli occhi della società post-cattolica, è che il “celebrante” o il “sacerdote” deve essere, per obbligo imposto dal Codice di diritto canonico, celibe e di genere maschile. Il Nuovo Testamento afferma che «Dio non fa distinzione di persone», aveva detto Pietro a casa di Cornelio (Atti, 10- 34-35). Ma il Codice di diritto canonico non ne tiene conto. Non può essere chiamato a presiedere la messa chi non è maschio e chi non accetta l’obbligo del celibato. Sono due pre-requisiti che dalla società della partecipazione oggi sono giudicati gravemente discriminatori: sono visti come patriarcali, contro la dignità delle persone e i diritti umani.

Ma c’è un altro aspetto che va sottolineato: che per presiedere l’eucaristia della comunità di Gesù viene formalizzata una “diversità”: il “sacerdote” o “celebrante” è formato in seminario per essere sacro, cioè “separato” e “diverso”. Tale diversità la si vede, anche, dal fatto che egli non si sostiene economicamente lavorando come tutti i padri e le madri di famiglia. Vi sono state e vi sono, certo, le eccezioni (come quelle dei preti-operai, negli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso). Ma normalmente “il celebrante” vive di sussidi statali o di “offerte” legate ai sacramenti. Tutto ciò per la società dell’uguaglianza e della partecipazione è inconcepibile e ha contribuito a rendere la messa qualcosa “dei preti”, dei funzionari di Dio, qualcosa che appartiene a una casta. Il Codice di diritto canonico e la teologia di “corte” confermano ciò quando parlano di “clero” e di “laici”, termini che il Nuovo Testamento non conosce. Questa situazione ha portato a una separazione anche fisica, con la creazione di uno spazio celebrativo quasi “separato” quale è il presbiterio, mettendo in secondo piano il fatto che dovrebbe essere l’assemblea la “celebrante”. La scena liturgica, per usare un linguaggio teatrale, si dovrebbe sviluppare nella navata, come scrive il teologo Chauvet3. Ma ciò avviene raramente.

È anche una questione di corpi. Sì. Tutti i corpi sono lì per agire. «Dove vuoi che andiamo a preparare la Pasqua?», chiesero a Gesù. «Trovarono una sala al piano di sopra» (Marco 14, 12-14). «Andare», «trovare»: sono verbi che richiamano i corpi dei discepoli e delle discepole, corpi che agiscono. L’assemblea celebrante è un’assemblea di corpi. Formiamo un corpo comunitario4. Sono i corpi a prendere parte alla Cena, più che le anime.

Non tutti e tutte a messa devono, ovviamente, fare tutto. Nell’assemblea di Dio si manifesta una diversità di carismi e si esercitano vari servizi. Tra i servizi dell’assemblea eucaristica, certo, vi è il servizio della presidenza. Il vescovo o il presbitero (che agisce per mandato del vescovo nella comunità nella quale è inviato), è colui che presiede. Presiede, lui o lei, in quanto esercita il servizio dell’unità. Dal modo nel quale è presieduta la messa, si favorisce la partecipazione piena e consapevole dell’assemblea ecclesiale intera. Ma il corpo di chi presiede, uomo o donna, celibe o sposato, dovrebbe essere come avvolto, non staccato, dal corpo dell’assemblea. Non è una cosa difficile.

In una società partecipativa, poi, la sala liturgica non è prima di tutto il luogo dove si conservano le specie eucaristiche per i malati. Essa è la casa del popolo di Dio che prepara, dove ci si saluta e ci si accoglie. Chiudersi in un intimismo spiritualista e privato rende tutto estraneo se non agghiacciante.

Va ricordato che, comunque, a un certo punto, nella messa sentiamo risuonare l’invito di Gesù: «Fate questo in memoria di me». Si rivolge al «voi»: al camminare «a due a due» dei discepoli (Luca 10,1). «Fate questo» rimanda ad un impegno esistenziale, rimanda a un mandato politico, per osare cose nuove. «Fate questo» è un «invio» a farsi dono a favore del mondo: «per tutti». È uno stare in piedi, da risorti, non in ginocchio, per buttarsi nell’orizzonte del mondo. E invece le nostre messe sono viste, agli occhi del mondo, come un momento devozionale, orientato verticalmente. Non diamo l’idea partecipativa di sbracciarci per il mondo. Una messa rimodulata nella partecipazione così ricordata sarebbe più leggibile e significativa, credo, sotto lo sguardo della nostra società.

3. Ci viene chiesto di essere una Chiesa credibile

Ma nella crisi epocale che stiamo vivendo la comunità celebrante è chiamata a considerare un altro segno: quello della credibilità, cioè della veracità5. Credibilità significa capacità di acquisire fiducia. La società civile, i giovani e le ragazze, si aspetterebbero dalla Chiesa una cosa preliminare: di essere un soggetto credibile. Ma cosa vuol dire, in pratica, essere credibile? In breve si può rispondere così: rispettare gli standard minimi dei diritti umani, ormai stabili nelle convenzioni internazionali, che quasi sempre la Chiesa cattolica non ha ratificato. Una Chiesa che evita, per esempio, di adottare strategie decisive per risolvere lo scandalo della pedofilia o le questioni legate all’abuso spirituale, di potere o sessuale sulle donne e sulle suore, non appare credibile. Una Chiesa che, in questo ambito, si preoccupa di salvare solo se stessa, non può apparire credibile6. Tutto ciò ha portato a una crisi della fede in molti, fino a spingerli a non stare nemmeno sulla soglia della Chiesa che celebra, anche se nel mondo attuale c’è tanta domanda di spiritualità.

La credibilità non riguarda soltanto le singole deficienze personali, ma un fatto sistemico. È una questione strutturale. Molte scelte strutturali ecclesiali hanno logorato il fondamento della credibilità. Si può dire che è stata erosa la fiducia di fondo nella stessa missione della Chiesa. Se si viene percepiti così, non è un caso che sia diventata sempre più palese la discrepanza tra ciò che la comunità ecclesiale celebra nella messa (l’ideale) e l’esistenza (storica).

Ora, una parrocchia di periferia, una comunità ecclesiale potrebbe domandare: «E noi con tutto questo che c’entriamo?». C’entriamo, perché in un modo o nell’altro, ci viene detto, “tu stai sostenendo questo sistema non credile, quanto meno con il tuo silenzio”. Come una persona contemporanea può scegliere di avvicinarsi a una comunità celebrante, che pure si è messa faticosamente in cammino, se essa è invischiata in questa perdita di credibilità sistemica della sua Chiesa di appartenenza? Certo, la questione della credibilità non riguarda quella piccola comunità con una responsabilità diretta, ma la riguarda con il suo non prendere posizione o con il suo scarso impegno nella riforma della Chiesa. Una comunità parrocchiale o diocesana non è, dunque, innocente a priori.

A tal proposito, è illuminante l’esperienza di padre Hans Zollner, gesuita, già membro della Commissione vaticana sulla pedofilia dalla quale si è dimesso. Egli ha dichiarato che l’incontro con le persone-vittime «mi ha cambiato molto», anche «nel modo in cui vivo e vedo me stesso e il mio essere gesuita e sacerdote». Se le cose incidono dal profondo su una persona seria come Hans Zollner, non dovrà toccare anche una comunità periferica?

4. Il segno della “libertà”

Ma ora dobbiamo considerare un altro segno dei tempi dal quale una comunità che celebra l’eucaristia è messa in questione. Ed è la problematica della libertà centrale almeno nei Paesi democratici. Di fronte a questo segno dei tempi la Chiesa nostra cattolica appare, almeno dalla Rivoluzione Francese in poi, come un soggetto che non ama la libertà. Non è un’esagerazione? Non lo è quando mostra di non avere rispetto per la libertà di scegliere. Non lo è, per esempio, quando non rispetta la vocazione, al suo interno, a essere chiamati a un ministero per le donne7, quando non rispetta la libertà di scelta delle persone a procreare, quando non ama la libertà nelle sensibilità sessuali.

I giovani e le ragazze non accettano di sottoporre la propria coscienza, specialmente in materia di etica sessuale, ai dettami di una autorità esterna, sia essa l’autorità ecclesiastica o sia l’autorità di uno Stato etico. Dopo la prima comunione o la cresima non vanno più a messa, anche per questo motivo, certo fra i tanti. Perché ce ne scandalizziamo, poi, se rimuoviamo la questione?

Come può la comunità ecclesiale, dunque, celebrare un messaggio di risurrezione e chiedere al mondo credibilità, ci viene detto dalla coscienza critica odierna, se essa non rispetta in modo sistemico la libertà al suo interno e all’esterno? La libertà è segno di risurrezione, oltre il potere-controllo anche davanti alla morte. Il volere controllare il corpo delle donne, al di là dei proclami sulle “virtù femminili”, oggi è visto come mancanza di cura per la libertà e l’integrità delle persone. Come possiamo invitare i nostri amici e le nostre amiche, i nostri figli e nipoti, a celebrare con noi la Cena del Signore, il vino nuovo della libertà da ogni dominio consegnatoci da Gesù, se strutturalmente la nostra Chiesa appare come colei che condanna le persone del nostro tempo per ciò che più sta loro a cuore: la libertà di scelta? Tutto ciò provoca la mancanza d’interesse per il cristianesimo.

Ci viene chiesta, dunque, una conversione profonda e strutturale così da apparire come una “scuola di libertà”. Ce la faremo?

6. Una narrazione comprensibile?

C’è da considerare, a questo punto, un’altra questione, forse la più complessa: quella dottrinale. La società di oggi, una società pluralistica, è disponibile a prendere in considerazione una qualche narrazione se e quando essa è comprensibile o ragionevole. La narrazione teologica che la Chiesa offre nella messa è comprensibile, è ragionevole? Il contenuto delle preghiere della messa è qualcosa di comprensibile e di significativo oggi? È la società che non capisce o siamo noi che non ci facciamo capire?

Proviamo a leggere alcuni testi liturgici o alcune preghiere eucaristiche. Le loro narrazioni teologiche spesso sono nella logica sacrificale e dell’espiazione, che ormai è inaccettabile nella società dei diritti umani. Prendiamo la prima preghiera eucaristica, il cosiddetto Canone romano. Vi si recita: «Padre clementissimo, noi ti supplichiamo (…) di benedire questo santo e immacolato sacrificio, salvaci dalla dannazione eterna, (…) In questo sacrificio, o Padre, (…) offriamo alla tua maestà divina (…) la vittima pura, santa e immacolata (…) volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo».

Se leggiamo l’inno dell’Exultet che si canta nella veglia pasquale, la notte più importante della liturgia cristiana, le cose non cambiano. Si dice: «Egli (Gesù) ha pagato per noi all’eterno Padre il debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la condanna della colpa antica (…) O immensità del tuo amore per noi (..) per riscattare lo schiavo hai sacrificato il tuo Figlio! Davvero era necessario il peccato di Adamo che è stato distrutto con la morte del Cristo. Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!».

Testi liturgici come questi, sorti in epoche diverse, sono irricevibili, anzi sono in-dicibili, nella nostra società democratica e partecipativa. L’idea della morte di Gesù sulla croce, come necessario e infinito sacrificio offerto a Dio per pagare un riscatto dei peccati del mondo, non appare plausibile agli occhi del mondo. Possiamo continuare a narrare che Dio ha mandato dal cielo Gesù e che il suo ruolo era quello di morire, senza sottolineare che quest’uomo profetico è stato ucciso dal potere politico-religioso del suo tempo, perché dava fastidio al sistema? Un cristianesimo che celebra la liturgia come «restaurazione di uno stato originario che è andato perduto»8, che c’entra con la Buona Novella, con il Vangelo di Gesù?

Solo una società autoritaria poteva e può amare questa narrazione, ma non i nostri figli e le nostre figlie, i nostri amici e le nostre amiche Li possiamo invitare a venire a messa per sentire esaltare queste narrazioni? Queste narrazioni, certo, ci vogliono offrire un’immagine di Gesù, ma «non è un Gesù che potrà attrarre o comunicare con i cittadini di questo secolo»9.

Potremmo, invece, celebrare la messa sottolineando la narrazione che «in principio era la gioia». Che “in principio” vi era la bene-dizione e non la male-dizione. Questo cambierebbe il modo di rappresentare il Dio di Gesù per chi sta sulla soglia e vorrebbe bussare alla porta della nostra messa. A dire il vero, la più recente preghiera V (nella versione A B C D) va in questa direzione, ma è poco usata. Oggi ci rendiamo anche conto che, in un contesto di critica femminista al patriarcato e al maschilismo, anche il sostantivo «Padre» riferito a “Dio” crea problemi e ripugna a molti. Ma si fa fatica a liberare la messa dalla morsa patriarcale. Usiamo narrazioni liturgiche che si ripetono per forza d’inerzia, ma che ormai non accettiamo nemmeno noi che le ripetiamo, se abbiamo un minimo di spirito critico e di intelligenza teologica.

6. La messa e il rischio di essere uno strumento di potere

La società ha compreso, inoltre, che molte nostre narrazioni liturgiche sono state create e conservate anche perché erano funzionali a una determinata logica di potere sociale o politico. Lo sguardo storico-critico ci ha aiutato a smascherare quelle dottrine che sono state elaborate per difendere interessi di potere. Oggi le nostre narrazioni celebrative non sono neutrali. Sembrano a noi genuinamente angeliche, generiche, astratte. Ma, proprio per questo, all’esterno sembrano fatte apposta per essere funzionali al sistema dominante, senza scalfirlo con un dito, con le debite eccezioni. Dagli studi storici abbiamo appreso, per esempio che quando la Chiesa entrò nel sistema “imperiale”, nel IV secolo, furono fissate delle dottrine, come quella del peccato originale, non solo come interpretazione della Scrittura ma anche «per tenere a bada la popolazione civile»10, sostiene il teologo M. Fox. L’insistere nella messa sul senso di colpa, così, è stato un modo per controllare il comportamento delle persone, delle donne in particolare, «facendo entrare in contrasto i propri pensieri con i propri sentimenti, il proprio corpo con il proprio spirito»11.

Lo possiamo dire: le nostre narrazioni celebrative appaiono agli occhi della società contemporanea poco profetiche: non sembrano pensate per abbattere i potenti dai troni e per innalzare gli scartati. Appaiono consolatorie per le anime devote. E ciò non ci viene perdonato da chi nella società cerca la giustizia.

7. Evoluzione liturgica e responsabilità ecclesiale

La difficoltà a celebrare la messa in modo comprensibile e significativo in un mondo divenuto “adulto” oggi è, pertanto, anche di carattere teologico, cioè dottrinario. Ci stiamo rendendo conto che le dottrine teologiche, elaborate nel corso del tempo all’interno di schemi culturali, sociali e politici di una data epoca storica, sono ormai un ostacolo per rispondere alla domanda di spiritualità che pure esiste nella società. Ma mettere mano alla “dottrina” scatena dentro la nostra Chiesa cattolica reazioni incontrollabili. La logica identitaria dell’essere “cattolici” è più forte dell’urgenza dell’annuncio del Vangelo, del bene delle persone. La “cattedra di Mosè” sembra contare più di tutto. Del resto, i tentativi di riforma di papa Francesco sono stati e sono criticati a più riprese. Sembra che a tanti cattolici e cattoliche importi più difendere le “tavole di pietra” piuttosto che la “carne” delle persone. Eppure è bene ricordare che «durante i primi tre secoli, le preghiere eucaristiche (chiamate anche anafore) non erano scritte ma improvvisate»12. Con il tempo sono state fissate per iscritto. Oggi non dobbiamo, certo, farci prendere dal soggettivismo selvaggio. Sono lontane da me le logiche gruppettare che, in fondo, sono solo autoreferenziali. Ci occorre la responsabilità di aiutare l’istituzione ecclesiale a riformarsi anche in campo liturgico, impegnandoci per una comunità ecclesiale con più capacità di osare la creatività e l’innovazione. Le autorità liturgiche sono caute, giustamente, davanti alle innovazioni. La creatività liturgica a volte viene definita come abuso13. A questo contribuisce la pressione di un vasto mondo tradizionalista e reazionario, legato alla destra neo-fascista e sovranista, che non solo non vuole innovare ma, addirittura, vuole ritornare alla messa in latino e rifiuta lo spirito del Concilio14, convocato da Giovanni XXIII.

Ma creatività o innovazione non significa, certo, «“annacquare” la liturgia e la spiritualità per renderle più appetibili», come osserva un monaco di Taizé15. Si dovranno continuare a usare i libri liturgici approvati, ma occorre sentirsi in dovere di sperimentare una equilibrata creatività, ove necessario. La grande Tradizione della Chiesa è, anche per me, una risorsa, ma oggi ci viene chiesto che essa «venga adattata con discernimento ai bisogni attuali»16. Si può fare ciò, ma senza atteggiamenti rivendicativi che nuocciono alla comunione ecclesiale. E ciò perché la liturgia eucaristica ancora oggi può essere uno spazio-tempo per aiutare gli uomini e le donne del villaggio globale a guardarsi dentro. Può essere una celebrazione che aiuti a trovare il proprio posto nel mondo, a sentire la chiamata all’impegno e alla solidarietà, a rispondere interiormente alla chiamata liberante del Dio che Gesù ci ha reso vicino.

8. La scelta di «gettare le reti»

Ho scelto di restare nella Chiesa cattolica, di non di lasciarla al proprio destino. Nonostante tutto, la Chiesa è una risorsa per il mondo contemporaneo. Lotto affinché essa sopravviva al Terzo millennio. Vale la pena impegnarsi in essa, con essa. Di fronte alle diverse sfide del nostro tempo, se si mette in cammino, come ha fatto al momento del Concilio Vaticano II, dopo secoli di immobilismo, sono convinto che la Chiesa cattolica possa ancora uscire in mare aperto e andare verso la “Galilea” nel paradigma contemporaneo ed essere una risorsa per la società. Da cristiani, da cristiane, non smetteremo di spingere i nostri figli e le nostre figlie a domandarsi che senso ha la vita. Non ci rassegneremo a farli diventare facili prede della logica nichilista imposta dal mercato. Anche oggi risuonano per noi le parole appassionate del Gesù risorto: «Gettate la rete e troverete» (Giovanni 21,6). Se non smetteremo di avere fiducia con la necessaria passione, allora getteremo le reti. Se non ci chiuderemo in un cattolicesimo borghese, allora vedremo quel mattino di quando, anche solo una persona, esclamerà: «Qui mi sento a casa»17.

Note

1. Il titolo del presente intervento è stato sviluppato nell’ambito della “Fraternità estiva” organizzata dalla Comunità ecclesiale della Rettoria Santa Maria di Portosalvo che è in Palermo (Motta D’Affermo 18-21 luglio 2024), dal titolo “Leggere i segni dei tempi. Discernimento e impegno”.

2. Cfr. Harwey Cox, La festa dei folli, Bompiani, Milano 1971.

3. Louis-Marie Chauvet, La messa detta altrimenti, Queriniana, Brescia 2024, p. 22.

4. Louis-Marie Chauvet, La messa detta altrimenti, p. 22.

5. Sulla crisi di credibilità della Chiesa si può leggere: Hans Küng, Salviamo la Chiesa, Rizzoli, Milano 2011.

6. Cfr. Ludovica Eugenio, “P. Zollner: sulla questione abusi”, in Adista notizie 29 maggio 2024, p. 12.

7. Sulla questione del ministero ordinato alle donne: Andrea Grillo (ed.), Senza impedimenti. Le donne e il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2024; AA.VV., Donne e ministeri nella Chiesa sinodale, Paoline, Milano 2024.

8. Vito Mancuso, “Introduzione”, in Matthew Fox, In principio era la gioia, Campo dei Fiori, Roma 2011, p. X.

9. John Shelby Spong, Perché il cristianesimo deve cambiare o morire, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2022, p. 123.

10. Matthew Fox, In principio era la gioia, p. XLIV.

11. Matthew Fox, In principio era la gioia, p. 57.

12. Louis-Marie Chauvet, La messa detta altrimenti, p. 52.

13. Cfr. Paolo Cugini, L’eucaristia domani, Effatà editrice, Cantalupa (To) 2023, p. 121.

14. Il Concilio, nella Costituzione Sacrosantum concilium, afferma: «Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della chiesa». In ogni caso, «le nuove forme» devono scaturire da «quelle esistenti» (n. 23). La Sacrosantum concilium disconosce il termine «creatività», ma accetta il termine «adattamento» (nn. 37-40).

15. Fr. John di Taizé, “Assetati di silenzio. L’esperienza di Taizé”, in Concilium 5/2015, p. 109.

16. Fr. John di Taizé, ibidem.

17. Frère Maxime, “Venire a Taizé, come a casa propria. L’esperienza della comunità di Taizé con giovani adulti”, in Concilium 2/2015, p. 96.

*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

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