Per sentire il futuro che respira. Come superare il divorzio tra natura e umanità
Tratto da: Adista Documenti n° 33 del 28/09/2024
DOC-3338. ROMA-ADISTA. Dal Messico alla Patagonia, sembra avanzare senza sosta il modello estrattivista, nel significato più ampio che ha assunto in America Latina a da qui in tutto il Sud globale e oltre: l’invasione, nei territori del continente, di miniere, industrie petrolifere, grandi dighe, gasdotti, aziende del legname, monocolture (di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto), parchi eolici, progetti immobiliari, con tutta la relativa contaminazione di suoli, fiumi, laghi, aria.
Nessun Paese, indipendentemente dal colore politico del governo, ne sembra immune: in Brasile, che, secondo il rapporto MapBiomas, ha già perso il 33% delle sue aree naturali, principalmente in Amazzonia – a causa soprattutto dell'aumento della superficie destinata all’allevamento (del 79%) e all’agricoltura (del 228%) –, è in atto, per esempio, uno scontro tra la Petrobras e l’Ibama, l’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, attorno alla richiesta della compagnia di trivellare nientedimeno che un pozzo petrolifero al largo della costa dello Stato settentrionale di Amapá, nel bacino di Foz do Amazonas. Una richiesta respinta dall’Ibama sulla base del parere contrario che era già stato rilasciato dall'area tecnica dell’organismo: il piano della Petrobras, spiegava infatti il documento tecnico, non offrirebbe garanzie sufficienti per la salvaguardia della fauna in caso di perdite di petrolio, oltre a evidenziare lacune nella previsione degli impatti in una regione di grande vulnerabilità socio-ambientale, caratterizzata dalla presenza di aree protette, terre indigene, mangrovie e una grande biodiversità marina.
E se sulla decisione dell’Ibama, sostenuta con forza dalla ministra dell’Ambiente Marina Silva, si è scatenato subito un impressionante “fuoco amico”, soprattutto da parte del ministro delle Miniere e dell’Energia Alexandre Silveira, neanche Lula è stato da meno, malgrado la sua dichiarata aspirazione ad assumere un ruolo guida nella lotta al cambiamento climatico. Dopo le sue controverse dichiarazioni al Time in campagna elettorale, quando aveva definito «irrealistico» limitarsi a sfruttare appena le riserve petrolifere già note e aveva parlato del pré-sal come del «passaporto per il futuro» del paese – «Dio è brasiliano», aveva commentato all’epoca della sua scoperta, nel 2006 –, il presidente si è espresso apertamente a favore degli studi esplorativi nella regione, come se una maggiore esplorazione non portasse automaticamente a una maggiore produzione.
Una parziale eccezione in un quadro continentale (e globale) a tinte foschissime è la Colombia, il cui presidente, Gustavo Petro, si era spinto, al Climate Ambition Summit del settembre scorso a New York, a indicare come «obiettivo reale» per ogni Paese quello di tendere all’«azzeramento della produzione e della domanda di petrolio, carbone e gas», diminuendo ogni anno il loro consumo – e la loro estrazione – ed eliminando completamente, come ha già iniziato a fare la Colombia, i sussidi ai combustibili fossili.
Allo stesso modo, nel quadro della Cop 28, proprio mentre il Brasile annunciava il suo allineamento all’Opec, Petro comunicava l’adesione del suo Paese – prima nazione produttrice di idrocarburi a muovere tale passo – al Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili (a imitazione degli accordi per evitare la proliferazione nucleare), di cui al momento fanno parte, con l’unica eccezione colombiana, solo Stati insulari: Vanuatu, Tuvalu, Fiji, Isole Salomone, Tonga, Niue, Timor Est, Antigua e Barbuda e Palau. «È un paradosso – aveva riconosciuto il presidente – che un Paese come quello che rappresento sia qui a questo tavolo, perché anche noi viviamo di petrolio». Tuttavia, «questo non è un suicidio economico: essere qui significa cercare di evitare l’omnicidio, la morte integrale di tutto ciò che esiste».
La Colombia, aveva ricordato Petro nel suo discorso a Dubai, «non firma più contratti di esplorazione di petrolio, carbone o gas; ha eliminato i sussidi alla benzina, proibirà il fracking nel suo territorio», oltre a ridurre del 70%, nell’ultimo anno, la deforestazione nella sua regione amazzonica e a ottenere una quota di energie rinnovabili nella matrice energetica pari al 70%.
All’ondata di estrattivismo in corso in America Latina le comunità contadine, i popoli indigeni, le organizzazioni di donne, i movimenti ambientalisti resistono come hanno sempre resistito, vivendo e costruendo alternative, che si tratti della lotta delle comunità maya, tzotzil, tzeltal e chol contro il Tren Maya nella penisola dello Yucatán, di quella della Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador) contro i progetti minerari, dei mapuche contro le imprese forestali, dei popoli indigeni brasiliani contro l’agribusiness, giusto per citare qualcuno tra innumerevoli esempi. E delineando nuove visioni, per tornare a «camminare in pace con la Terra», come propongono l’economista ecuadoriano Alberto Acosta e l’avvocato ambientale argentino Enrique Viale, entrambi giudici del Tribunale internazionale per i diritti della natura, nell’articolo che qui di seguito riportiamo, pubblicato dall’International Rights of Nature Tribunal (15/7) e rilanciato da Ihu-Unisinos (18/7).
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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