
Commissione UE, troppe contraddizioni
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 44 del 21/12/2024
Lo sappiamo: la governance della UE si regge su logiche complesse. In particolare essa deve coniugare gli orientamenti delle famiglie politiche con gli interessi degli Stati membri. Lo abbiamo osservato nel travagliato varo della Commissione presieduta da von der Leyen al suo secondo mandato. Alla fine si è scongiurato l’impasse, si è proceduto al suo insediamento. Lo comprendo: il fosco quadro internazionale nel quale si inscrivono l’escalation bellica e l’elezione di Trump hanno suggerito che vi fossero buone ragioni per non frapporvi indugi. Posso tuttavia confessare un sentimento e una preoccupazione? Il sentimento: non è stato un bel vedere, la politica europea ne esce un po’ ammaccata agli occhi dei cittadini.
La preoccupazione: la stessa Commissione pagherà un prezzo ai limiti e alle contraddizioni che hanno segnato il suo varo. Solo qualche esempio: penso alla singolare ristrettezza della maggioranza che le ha votato la fiducia (mai in passato così circoscritta e inferiore di 31 unità a quella che, nel luglio scorso, si pronunciò per il bis alla presidente); penso alla relazione scialba e incolore da lei proposta all’europarlamento; penso al clima mesto e ai rari applausi di cui hanno riferito le cronache; penso alla squadra dei commissari per lo più anonimi e sconosciuti, reclutati con la logica del bilancino; penso soprattutto alla doppia, contraddittoria maggioranza, quella europeista che ha votato il bis a von der Leyen a luglio e quella, comprensiva di destre sovraniste, che si è espressa per la Commissione nel suo insieme.
È facile prevedere che, nel quotidiano esercizio del suo mandato, su snodi cruciali, tali contraddizioni puntualmente riaffioreranno e ne intralceranno il passo. Penso alla principale famiglia politica europea, i Popolari, che hanno fatto la andreottiana politica dei due forni e immeschinito la questione per regolare conti tutti interni alla politica spagnola; penso alla stessa Ursula la cui, diciamo così, versatilità, il cui tatticismo combinatorio confina con il disinvolto funambolismo; penso alla nostra premier e al suo partito a luglio contro (per tetragona convinzione cui non avrebbe potuto derogare, ci disse) e ora a favore, con il sì della delegazione di Fdi ma non degli altri esponenti dei conservatori e riformisti europei di cui la Meloni è presidente; penso al nostro governo diviso allora e diviso oggi (con la Lega che si oppone); penso alla stessa opposizione divisa con il PD dapprima solidale con la più che giustificata resistenza dei colleghi socialisti decisi a non avallare la contraddizione della doppia maggioranza e poi risoltisi a votare il vicepresidente meloniano della Commissione Fitto con il non-argomento (personalizzante) del “meno peggio perché di scuola democristiana”, come se le ascrizioni politiche fossero un dettaglio.
Per inciso, un ministro, Fitto, cui il PD imputa una cattiva gestione del Pnrr in Italia e che dovrà occuparsene in sede europea. Del resto, lo si era inteso subito, la delegazione PD era ed è divisa al riguardo: essa paga la disomogeneità politica delle candidature PD all’Europarlamento. Una disarticolazione del gruppo che, qualche giorno dopo, si è addirittura acuita su una risoluzione (ancorchè non vincolante) a sostegno dell’Ucraina, sulla quale alcuni PD ultraatlantisti hanno votato per autorizzare l’uso di armi fornite dalla Ue sul territorio russo. Sul quale persino FI si è detta contraria in linea con il governo italiano. Infine, per chiudere con le nostre miserie, un commissario italiano il cui personale percorso politico non brilla per linearità essendo passato dall’europeismo democristiano (oggi rinverdito e ostentato) a un partito sovranista post-missino (oggi esorcizzato).
A giudicare dai resoconti della stampa italiana, sembra che vada bene così. Ci si abitua a tutto. Solo mi contenterei che ci risparmiassimo peana del tipo: ha vinto l’Italia, ha vinto l’Europa, ha vinto la politica. Almeno la politica no di sicuro. Perché la Commissione sconta una composizione e un profilo politico massimamente contraddittori e – segnalo – nell’architettura della Ue proprio la Commissione dovrebbe essere semmai l’organo più politico.
Sull’esigenza di assicurare qualità e coerenza politica alla Commissione, Von der Leyen ha fatto prevalere la cura per gli equilibri del Consiglio UE ove siedono i governi nazionali. Nei quali, per definizione, domina la logica intergovernativa anziché quella comunitaria e tra i quali, come non bastasse, spira un vento di destra. Dunque doppiamente penalizzante il tasso di europeismo.
Del resto, già prima della fiducia, si era avuta conferma che la Commissione paga pegno alla suddetta, doppia e contraddittoria maggioranza: in una risoluzione per il Venezuela, negli emendamenti al bilancio UE per finanziare i muri anti-migranti, sulla legge anti-deforestazione e nello stesso calendario delle audizioni dei commissari concepito per tenere in ostaggio la rappresentante socialista spagnola, audita per ultima, per prima incassare il via libera al meloniano Fitto. Tutte ambiguità e compromessi che contraddicono lo spirito dei trattati Ue secondo i quali i commissari devono operare nell’interesse generale dell’Unione e non del proprio Paese.
Franco Monaco già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi del card. Martini, presidente dell’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati, parlamentare del Partito Democratico, già membro della Commissione esteri della Camera e della delegazione parlamentare Osce
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