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“Essere giornalisti in una città occupata”: parla un giornalista di Bukavu

“Essere giornalisti in una città occupata”: parla un giornalista di Bukavu

“Essere giornalisti in una città occupata”: è questo il tema che affronta l’intervista, pubblicata dal blog La Bottega del Barbieri, che Ursule Vitali (giornalista che frequenta da anni la regione dei Grandi Laghi e che ha più volte collaborato anche con Adista, v. qui) ha raccolto sul campo, ascoltando la testimonianza di un collega di Bukavu (Sud Kivu), città che dal 16 febbraio vive sotto l’occupazione del Movimento 23 Marzo (M23) fiancheggiato dal Ruanda di Paul Kagame.

L’intervistato, anonimo per ragioni di sicurezza personale, racconta il grande senso di solitudine e abbandono che vivono oggi i giornalisti liberi nell’Est del Congo: «Prima, se c’erano casi di violazione dei diritti umani, avevamo l’opportunità di incontrare le autorità, porre domande. La Società civile e gli attori sociali erano tra i nostri interlocutori». Dopo l’avanzata dell’M23, autorità, attivisti e giornalisti sono morti o fuggiti. Quelli che sono rimasti poi, o si sono “venduti” all’occupante o subiscono la persecuzione delle milizie e, drammaticamente, l’autocensura, dettata dalla paura di subire violente ritorsioni. «Questa autocensura sta uccidendo il giornalismo», confida la fonte all’intervistatrice: «Ci chiediamo perché continuare a scrivere se le nostre dita tremano continuamente mentre scriviamo un articolo».

Altre difficoltà riscontrate sono legate alla povertà di mezzi e risorse, alla necessità di stabilire relazioni all’estero per l’impossibilità di pubblicare sulle testate locali, l’assenza forzata di organizzazioni internazionali e ong. Inoltre, le nuove autorità hanno sciolto il sindacato dei giornalisti, si sono intestate l’autorità del rilascio delle tessere e delle autorizzazioni, hanno imposto un nuovo lessico addomesticato, che sostituisce termini come “zone occupate” con “zone liberate”, “ribelli” con “liberatori”, ecc.

«Se si uccide la stampa allora si uccide la democrazia – conclude il giornalista – e, in un modo o nell’altro, la nostra umanità, perché il giornalista è l’occhio e l’orecchio della comunità. Se non ci sono più i giornalisti, significa che a un dato momento non sappiamo più cosa succede nella città, nella comunità, cosa si fa. Quando sono arrivati i ribelli, non c‘è stata nessuna trasmissione mediatica, per tre o quattro giorni tutti si chiedevano: “Cosa sta succedendo in città? Andiamo a lavorare o no?”».

L’intervista si chiude con un appello del giornalista di Bukavu, che ha chiesto: solidarietà internazionale in questo momento difficile, in particolare dalle organizzazioni della stampa internazionali; risorse per sopravvivere e strumenti per svolgere il proprio lavoro anche in clandestinità, pubblicando magari a Kinshasa o all’estero; che l’informazione globale non si volti dall’altra parte ma diffonda notizie su quanto sta succedendo nell’Est del Congo. Da parte die giornalisti di Bukavu, conclude l’intervistato, resta «la volontà di continuare a lavorare. Abbiamo solo bisogno di questo acceleratore, di questo sostegno da parte di altri colleghi, di altri giornalisti in tutto il mondo, per continuare a servire la comunità».

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