
Il nome di Dio non è più Dio
Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 12/04/2025
Qui l'introduzione a questo testo.
Il nome del Mistero
Lo abbiamo sempre chiamato così: Dio. Sono secoli, millenni che il nome Dio risolve i nostri problemi quotidiani. Tutto ciò che non è possibile spiegare razionalmente o ragionevolmente può essere trasferito immediatamente alla parola Dio. Tutto ciò che di misterioso si è presentato nei secoli all’essere umano è stato risolto facendo appello a questa semplice parola: Dio.
Quando gli eventi sono misteriosi, incomprensibili, difficili da spiegare, allora non ci resta altro che rifugiarci in Dio. Accade così anche oggi. Invochiamo Dio affinché ci aiuti in una determinata situazione della nostra vita divenuta complicata. Dio è un nome che, se è vero, come vedremo, che appartenga all’ambito religioso, è altrettanto vero che si trova sulla bocca di tante persone che non s’identificano con una specifica religione. È un aspetto così normale e spontaneo invocare il nome di Dio che qualche filosofo è arrivato a sostenere che sia un’idea innata, che troviamo dentro di noi al momento della nascita. Può darsi, anche, che, a forza di pronunciare il nome di Dio da migliaia di anni, sia divenuto qualcosa di talmente presente alla nostra coscienza da renderlo reale.
Non c’è solamente, comunque, un’esperienza esterna di ciò che è misterioso che ci spinge a invocare Dio. Ci sono anche percorsi interiori dell’animo umano, che sperimenta la percezione di una realtà che non può essere classificata con i soliti criteri che mettiamo in atto nella vita quotidiana. Accade, per esempio, quando la malattia passa vicino a persone che amiamo e che ci spingono a invocare quella forza che sembra essere capace di intervenire nella realtà modificandone l’orizzonte. Sono gli eventi estremi che ci spingono a pensare che esista una forza amica che può sistemare le cose, una forza nell’universo che ci conosce, sa cosa pensiamo e cosa sentiamo. Questa forza la chiamiamo Dio perché è il nome che abbiamo trovato nella nostra cultura e che viene utilizzato proprio in questi casi. Il problema è che questo nome, attraverso i secoli, ha subìto un tale rivestimento di significati da non riuscire più a coglierne l’essenza.
Ci possiamo chiedere, allora: è possibile dire Dio senza Dio? Sembra un gioco di parole, ma esprime una realtà molto profonda. È possibile provare a dire che cosa esprime il contenuto della parola Dio mettendo da parte ciò che di Dio dicono le religioni? C’è una forza nell’universo che, come tale, è immanente, cioè non è nel cielo così come hanno pensato gli antichi. Il cielo, di fatto, appartiene alla realtà immanente, perché fa parte dell’universo. È possibile dire Dio senza fare ricorso alla dimensione trascendente? Può sembrare blasfema una simile operazione, anche perché da sempre Dio è stato pensato in questo modo: un essere trascendente che abita il cielo. Famose sono le parole di Aristotele che arriva a definire Dio come la causa di tutto, il motore immobile, che muove il mondo con la forza di attrazione. (…).
Ancora. È possibile dire Dio sganciandolo dalla prospettiva metafisica elaborata dalla filosofia greca? Il senso di queste pagine è anche dettato da un desiderio di liberazione, il desiderio, cioè, di liberare Dio dalla prigione dell’essere. Solo così, forse, è possibile iniziare una ricerca che riesca non tanto a dare un nome, ma un contenuto a quelle esperienze che possiamo definire spirituali (…). Per questo tipo di ricerca non ci si può affidare ai libri di teologia, ma a quelli di mistica e di spiritualità, anche se pure questi possono essere contaminati negativamente dalle scuole di pensiero teologico dell’epoca in cui sono stati scritti.
E se andassimo da soli alla ricerca del senso di Dio? E se provassimo a liberarci in un colpo di tutti gli scaffali di libri che parlano di lui e provare a dire ciò che percepiamo con parole nostre, senza paura di essere giudicati? (…).
Un nuovo paradigma interpretativo
Gli autori del post-teismo ci avvertono che la parola Dio non è altro che un paradigma, un concetto-ombrello emerso alcuni millenni addietro per indicare il Mistero. Una parola che, nell’epoca del nuovo paradigma scientifico, deve essere abbandonata per sempre. Il paradigma teista avrebbe avuto un esito positivo anche grazie al dualismo cosmologico, di matrice non ben precisata, che avrebbe permesso di situare Dio nel cielo e l’uomo sulla terra. Questo paradigma ha funzionato sino a quando l’evoluzione dell’astronomia sviluppatasi nell’epoca moderna con Galileo, Copernico, Tycho Brahe e Keplero, solo per fare alcuni nomi, ci ha consegnato un universo infinito e una realtà totalmente immanente. Se il cielo non esiste, dove sarà la dimora di Dio? Se non esiste una realtà trascendente, come facciamo a parlare di paradiso? A questo punto del discorso siamo obbligati a pensare in modo nuovo non solo il luogo specifico in cui collocare Dio, ma anche a pensare Dio in un modo totalmente diverso da come abbiamo fatto sinora. La prospettiva post-teista spinge a eliminare dal discorso su Dio la dimensione trascendente, perché non rispetta quelli che sarebbero i dati che il paradigma scientifico ci consegna. Tutto, allora, è immanente, e tutto avviene nell’orizzonte dell’immanenza. Se volessimo riscrivere la storia delle religioni togliendo di mezzo la dimensione trascendente e le letture metafisiche della stessa, ci rimarrebbe ben poco. Abbiamo sempre, infatti, pensato Dio come una realtà che non appartiene al nostro mondo mortale e lo abbiamo da sempre collocato in una realtà totalmente diversa dalla nostra e, quindi, immortale, eterna. I post-teisti ci aiutano a pensare che questo tipo di realtà è una produzione culturale della nostra mente, prima di essere un dato della realtà. (…).
Ci risulta difficile pensare a un Dio che abita in terra. Lo stesso Gesù, che nella tradizione cristiana è colui che, in modo definitivo, ha manifestato all’umanità il volto di Dio, quando insegna ai suoi discepoli a pregare, indica come luogo in cui abita il Padre proprio il cielo: «Padre nostro, che sei nei cieli... sia fatta la tua volontà, come in cielo...» (Mt 6,9-10). Sempre in questa prospettiva è possibile affermare che tutto il Nuovo Testamento e la stessa vita di Gesù sono stati pensati alla luce dell’unico paradigma a quel tempo a disposizione, vale a dire il paradigma teista.
A questo punto viene da chiedersi, ed è una domanda che sgorga dalla riflessione post-teista: se Dio non abita più il cielo e se non ha una dimensione trascendente, come possiamo definirlo? Il fatto che avesse un luogo definito in cui l’avevamo collocato provocava un senso di sicurezza, che rendeva la vita più lieve, serena. C’era, infatti la convinzione e, bisogna pur dirlo, abbiamo ancora questa sensazione, nonostante tutto, di qualcuno, che dall’alto, dal cielo per l’appunto, vigilava sulla terra, proteggendo l’umanità. Il Dio che abita il cielo ha sempre raccolto delle qualificazioni positive e assolute: onnipotente, onnisciente, trascendente. Nella prospettiva teista Dio è un essere personale, con il quale è possibile dialogare, ricevere risposte personali. È su questa relazione personale tra Dio e l’uomo, la donna, che sgorga il senso profondo della preghiera.
C’è la percezione, non solo esteriore, ma soprattutto interiore, che Dio sia in grado di entrare nella storia, d’intervenire a nostro favore, a volte anche a scapito di altri. A questo proposito nella tradizione cristiana non abbiamo solo i salmi, che testimoniano una relazione personale con Dio, ma anche i profeti. La Bibbia è piena di narrazioni di un Dio personale che interviene a favore di qualcuno o di tutto il popolo d’Israele, sconfiggendo i suoi nemici. Al di là di questi aspetti tragici, c’è però la testimonianza di coloro che hanno beneficiato positivamente dell’intervento di Dio nella propria storia personale, come ad esempio viene raccontato da tanti salmi.
Se Dio non abita più in cielo: dove si trova? A chi ci rivolgiamo nel bisogno? Come si fa a pregare un Dio che non sappiamo più dove sia, che nome abbia e che non interviene più nella nostra storia? Ancora. Se si è trattato solo di un’operazione culturale in un tempo in cui i dati a disposizione erano scarsi, chi abbiamo pregato e come definire le percezioni avute? Si è trattato di pura e semplice suggestione, o c’era dell’altro? Sono domande importanti perché aprono il varco a uno degli aspetti più importanti della definizione di Dio, vale a dire la sua dimensione personale. Sia nell’ebraismo che nel cristianesimo si tratta di un dato fondamentale. Dio è percepito come una persona che interagisce con l’uomo e la donna. Il venir meno dell’aspetto personale di Dio, come indica la lettura post-teista, pone non pochi problemi. Allo stesso tempo, però, è importante sottolineare che la negazione della dimensione personale di Dio non conduce all’ateismo, alla negazione del Mistero, ma lo intende declinare in un modo totalmente nuovo. Dire, infatti, che Dio non abita più in alcun cielo dal momento che il cielo l’abbiamo inventato noi, perché l’universo è infinito, non significa affermarne la scomparsa definitiva. La domanda allora, a questo punto potrebbe essere questa: è possibile pensare Dio in modo non trascendente, ma immanente?
Dire Dio in modo non religioso?
Dare un nome al Mistero è sempre stata un’operazione ambigua. Se, infatti, prendiamo la letteratura teologica o i grandi testi delle tradizioni delle religioni del libro, il concetto di Dio è sempre stato identificato come una realtà infinita e onnipotente. Dio, quindi, sarebbe un nome che avrebbe la pretesa di racchiudere l’infinito nel reticolo di alcune lettere. Non a caso, sorsero alcune correnti di pensiero che ritenevano impossibile parlare di ciò che è infinito, né, tantomeno, definirlo. (…). Dio è il nome che le religioni danno al Mistero. (…). La parola Dio, infatti, declina il modo di una religione di comprendere il Mistero. Ciò significa che nel nome di Dio di una religione troviamo il significato di un’esperienza specifica, la storia di un popolo. Nei miti e nei culti religiosi di un popolo, viene riprodotto un modo specifico dell’esperienza del Mistero. La parola Dio, in questa prospettiva, prima di essere una verità assoluta, obiettiva, valida per tutti, rivela il contenuto attribuito da una comunità a un’esperienza limitata e circoscritta nel tempo. È esattamente il contrario di ciò che le teologie hanno voluto esprimere nel momento in cui hanno tentato di codificare in modo apodittico verità frutto di esperienze circoscritte in uno spazio e in tempo determinato. (…).
Il nome Dio, infine, fa riferimento non solo al dato misterioso colto da un popolo, ma anche alle esperienze personali che vengono in contatto con il Mistero. (…). Utilizziamo la parola Dio di una specifica religione per definire la nostra personale esperienza del Mistero.
Il paradigma post-teista, liberandoci dal paradigma teista, può aiutarci a narrare la nostra personalissima esperienza del Mistero in modo non religioso. (…).
Raccontare il Mistero in modo non religioso è possibile? Questa è una delle possibilità che l’attuale contesto culturale post-teista ci permette di realizzare. (…)
Il Mistero dice di per sé l’impossibilità di descriverlo in una forma esaustiva: sfugge a ogni tipo di classificazione. Il problema è nato quando qualcuno ha iniziato a volerlo descrivere. (…). La religione codifica in modo tale la relazione con il Mistero da renderne difficile l’accesso. (…). Il Mistero conosciuto attraverso la religione offre un materiale che veicola la comunicazione: mette le parole in bocca. Il grande rischio della religione è che si sente a tal punto esperta del Mistero da non farne mai un’esperienza autentica. (…). Per questo motivo, nella cultura post-moderna che ha aperto processi di decostruzione culturale, compresa la religione, molte persone abbandonano gli spazi religiosi per cercare il Mistero altrove e, probabilmente, avranno più possibilità d’incontrarlo. (…).
Dire il Mistero in questo particolare frangente della storia, che in pochissimi decenni ha smantellato la fragilità dei sistemi razionali, che alla distanza si sono dimostrati incapaci di descriverlo, significa il coraggio di piegare le sbarre arrugginite della metafisica, che per secoli hanno preteso di rinchiudere il Mistero, e così liberarlo, permettendo alle persone libere d’incontrarlo per come si manifesta e non per come lo si rappresenta. (…).
Spunti per un’analisi
È sotto gli occhi di tutti il progressivo sgretolamento del cristianesimo come religione che si è affermata e identificata in Occidente. Ogni evento di cambiamento radicale non può essere spiegato solamente da un punto di riferimento. Nel nostro caso, c’è una serie di elementi che vanno tutti nella stessa direzione, vale a dire, la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Sappiamo che cosa sta per finire, ma non abbiamo ancora molti elementi per capire verso dove stiamo andando. (…).
Che cosa dovrebbe fare la Chiesa, in quest’epoca di cambiamento, per non perdere il contatto con la realtà? Quali scelte dovrebbe compiere per riuscire, ancora oggi, ad annunciare in modo autentico il messaggio di Gesù? A che cosa dovrebbe rinunciare in modo definitivo, per fare spazio alla novità che germoglia dalla storia?
Gli ultimi decenni sono stati un progressivo processo di smascheramento prodotto dalla cultura occidentale, che ha ridotto il cristianesimo a forma vuota, inutile per la vita. (…). La profonda crisi climatica che sta devastando il pianeta, la costante crisi economica frutto del modello neoliberale, che sta aumentando giorno dopo giorno il fosso tra i pochi ricchi e una moltitudine di poveri, la crisi delle democrazie segnate da un’avanzata impressionante degli schieramenti politici di estrema destra, sono alcuni sintomi di un crollo definitivo della proposta moderna, della possibilità di controllare l’evoluzione della storia a partire da idee predefinite. In questo percorso, la Chiesa ha le sue responsabilità e, per questo, la crisi globale la sta intaccando in profondità. Tutte le volte che si è irrigidita trincerandosi nella difesa di principi assoluti, ha perso la possibilità di mettersi in ascolto della realtà e percepire la voce del Verbo incarnato. (…). I sistemi rigidi elaborati nell’epoca moderna hanno mostrato il grande limite di irrigidire la verità, mostrandone solo un aspetto, che emerge dalla definizione. La verità manifestata dal Mistero è per sua natura molteplice, poliedrica, come ho già ricordato nella prima parte. La definizione del Mistero può avere un aspetto pedagogico, ma non può avere la presunzione di dire tutto il Mistero. Se questo discorso vale in generale, ancora di più assume un significato quando in gioco c’è la Verità del Mistero manifestata da Gesù Cristo, il Verbo che si è fatto carne, è venuto ad abitare in mezzo a noi, camminando con noi. In questa prospettiva, la storicità dell’evento non può essere dimenticata, per non correre il rischio, come di fatto è avvenuto in passato con il pensiero metafisico, di ridurre l’evento dell’Incarnazione a un concetto astratto. La rivelazione del Mistero in Gesù Cristo richiede un costante sforzo ermeneutico, perché la verità, d’ora innanzi, prima di essere un concetto astratto, è una persona viva che cammina con noi, che dev’essere accolta così com’è e come si manifesta e non intrappolata in rigidi rivestimenti concettuali. È proprio questo uno degli aspetti più positivi dell’attuale contesto post-moderno: la possibilità di pensare la verità nel suo contesto storico e non di coglierla come un’idea astratta. (…).
Che cosa lascia dietro di sé la scomparsa della cristianità? Un vuoto incolmabile. Forse, soprattutto, la percezione di un tempo perduto in cose senza senso, soprattutto da parte di coloro che ci hanno creduto, di coloro, cioè, che hanno creduto che la forma cristiana fosse portatrice del divino, di qualcosa, dunque, di assoluto, eterno. Possiamo, invece, tranquillamente dire che si è trattato di una grande mistificazione, di un enorme sopruso, di una grande manipolazione del Mistero. Abbiamo trascorso secoli identificando il Mistero rivelato in Gesù Cristo con quel sacro e quella struttura religiosa che proprio Gesù era venuto a scardinare. (…). Secoli di manipolazioni sacrali hanno prodotto una religione materiale dominata da una casta sacerdotale, che ha ridotto la religione a pura formalità rituale, impedendo in questo modo al popolo di Dio di fare esperienza del Volto del Mistero manifestato in Gesù. Con gli occhi di poi possiamo dire: non era proprio tutto da buttare quello che affermava il grande critico della cristianità Friedrich Nietzsche. Aveva già detto tutto, o quasi. Aveva percepito in profondità la fine dell’epoca cristiana e intravisto la nuova, in cui gli uomini avrebbero dovuto imparare a vivere senza appoggiarsi a Dio, ovvero, al Dio inventato dagli uomini, al Dio analgesico, al rifugio dalla durezza della vita. Aveva capito che il Dio costruito nei secoli dall’Occidente era ormai morto. (…). Secoli di fuga dalla realtà hanno manifestato un’infedeltà alla terra, per dirla sempre con Nietzsche, che ha avuto come conseguenza immediata la creazione di una religione incapace di dialogare con il mondo. Lo smantellamento delle strutture forti della modernità permette alle attuali generazioni di uscire dal tempio per assaporare la vita e costruire percorsi in cui sia visibile la fedeltà alla terra, il rispetto delle culture altre, la creazione di spazi affinché tutti e tutte possano manifestare la loro diversità senza preclusioni o preconcetti. (…).
L’universo interconnesso in un mondo contaminato
Se tutto è interconnesso significa, da un punto di vista culturale, che tutto può essere contaminato. Non ci sono mondi da difendere, sistemi da costruire, muri da innalzare. Se tutto è interconnesso con tutto, significa che tutti abbiamo bisogno di tutti, perché l’interconnessione è la matrice esistenziale, culturale, biologica della realtà. In questo capitolo utilizzo il termine contaminazione nella sua valenza positiva, cioè come portatore di significati nuovi, che vale la pena accogliere e, allo stesso tempo, comunicare. Nel nuovo contesto culturale definito come post-moderno o post-secolarizzato, oppure anche postcristiano e post-teista, che da decenni sta prendendo piede in Occidente a ritmi vertiginosi, le strutture rigide sono destinate a essere soppiantate. (…).
Le strutture di pensiero sistematico e dogmatico, così significative nel periodo medievale e moderno, non funzionano più, proprio perché non permettono la modificabilità necessaria richiesta dalle strutture di pensiero postmoderno. Ci vuole ben altro.
L’attuale contesto, dunque, non permette a nessuno di dormire sul sofà dell’abitudine, del «si è sempre fatto così». I punti di riferimento esistenziali vengono ricercati per la qualità della vita che possono offrire e, dunque, sul piano quantitativo piuttosto che qualitativo. Vale ciò che è buono ed efficiente nell’immediato, più che puntare sui significati eterni, quelli che durano – o sembrano durare – per sempre. (…). Non c’è possibilità di sopravvivenza per quella cultura che intende salvare la propria presunta purezza. Può sopravvivere, senza dubbio, ma come cimelio del passato, residuo storico da museo, senza alcuna possibilità di avere incidenza nel presente. Anche perché una caratteristica specifica della postmodernità è la vita nel presente come unica dimensione in cui c’è possibilità di esistenza. (…).
Una Chiesa contaminata?
La Chiesa entra in questo contesto liquido e contaminabile come un corpo duro, impenetrabile e, di conseguenza, perdente, nel senso letterale del termine, destinato a scomparire o, perlomeno, a rimanere un pezzo più o meno sofisticato da museo. È una struttura lenta e, quindi, impossibilitata ad abitare la velocità postmoderna. Ci mette troppo tempo per prendere decisioni e per questo, con il tempo, è divenuta una struttura inattuale, con delle proposte sul piano etico ed esistenziale inadeguate perché obsolete. La Chiesa si è così abituata nei secoli a determinare le leggi morali e spirituali della società in modo unidirezionale, che ritiene impensabile dover assimilare dei valori esterni. Nel tempo, è divenuta così autoreferenziale da essere incapace di mettersi in discussione: è un aspetto che non appartiene al suo codice genetico. La Chiesa si percepisce da sempre come maestra, ma non come discepola, perché pensa di non avere nulla da apprendere, ma solo da insegnare. (…).
Proprio per questi motivi, la struttura ecclesiale in tutti i suoi aspetti giuridico, teologico, etico e burocratico non ha alcuna chance di sopravvivere nel mondo dei sistemi contaminati e contaminabili. Le strutture rigide in un universo interconnesso si spezzano, si sbriciolano, vanno in frantumi. (…).
Diversa, invece, è la base della Chiesa, proprio perché fatta di persone che vivono quotidianamente in mezzo a mondi contaminati e in continua contaminazione. A questo livello e, cioè, al livello della Chiesa popolo di Dio, il futuro è possibile (…).
Il Vangelo: l’amore che ci contamina
Il dato più significativo, che mi sembra opportuno segnalare, è che questa modalità che potremmo definire contaminata è iscritta nella proposta cristiana. Lo si vede già in atto nello stile di Gesù, che non teme la rivalità di coloro che operano il bene anche se non lo fanno nel suo nome, perché «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,39-40). (…). È Gesù, dunque, che mostra il cammino di un’umanità aperta allo scambio con l’altro, all’accoglienza del bene e dell’amore che proviene dall’esterno del proprio circolo di amici e amiche, proprio perché la comunità di amici e amiche che lo seguono non è chiamata a difendere nessuna dottrina e nessuna fortezza, ma a vivere uno stile di amore senza frontiere. (…)
(…). È la comunità che sorge spontaneamente dal basso, che trova nel Vangelo una luce per il proprio cammino esistenziale e, in questo cammino, apprende a non temere di lasciarsi contaminare dagli elementi che provengono dall’esterno, perché ha imparato che lo Spirito soffia dove vuole e nessuno può pensare d’imprigionarlo (cfr. Gv 3,8).
La Chiesa che si lascia contaminare accogliendo al suo interno le provocazioni positive dei mondi circostanti ha la possibilità di crescere, di trasformarsi e di contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e più umano, in forza anche del suo patrimonio di valori. E così, mentre più rapidamente del previsto si odono i rumori dello sbriciolamento della struttura ecclesiale formatasi nei secoli, sbocciano da tante parti quelle comunità cristiane che, come la semente di mostarda o come il lievito nella pasta, contribuiscono alla trasformazione del mondo permettendo che lo Spirito presente nei tanti cammini di pace, di giustizia e di amore diffusi ovunque, contamini e trasformi coloro che vi aderiscono. (…).
Conclusione
Forse ha ragione Collin quando dice che il cristianesimo non esiste ancora. Lo prendiamo come un auspicio e come l’indicazione di un cammino, come per dire che chi desidera vivere, sperimentare la proposta cristiana, deve andare nella direzione opposta a quella che era stata indicata nella cristianità, senza nostalgia del passato, ma guardando avanti con fiducia. (…) Provo, quindi, in sede di conclusione, a indicare alcune piste di sviluppo che, a mio avviso, sono già in atto.
La prima di queste è la possibilità di un cristianesimo non istituzionale. (…) Abbandonare i luoghi di culto istituzionalizzati, che diventano sempre più vuoti, per ritrovarsi a leggere la Parola di Dio in piccole comunità domestiche, in un movimento che si sviluppa dal basso, senza la necessità di un riferimento istituzionale, che spesso diviene la causa della lentezza del cammino delle comunità: è questo un primo sviluppo.
Possibilità di creare comunità in cui il principio di uguaglianza non sia un’utopia, ma il clima naturale del cammino. Se l’istituzione controlla i contenuti e le modalità del cammino, la libertà in un percorso di base non istituzionalizzato metterebbe le basi per un’esperienza comunitaria in cui i membri hanno gli stessi diritti e doveri, compreso quello della presidenza nella celebrazione. (…). Comunità di questo tipo, modellate dallo stile del Vangelo, potranno divenire cammini costanti di umanizzazione, luoghi di accoglienza, di fraternità e di sororità.
La comunità che si struttura nell’epoca post-cristiana, proprio perché non è istituzione, non ha bisogno di leader, di guide. Tutti possono celebrare e tutti possono guidare la comunità, perché la prospettiva non è più piramidale, ma circolare. (…).
Una caratteristica che ha segnato negativamente e in profondità la cristianità occidentale è stata il suo intreccio con il potere politico ed economico, spesso divenuto motivo di scandalo. La Chiesa come potenza del mondo ha tenuto lontano dai propri spazi coloro che invece avrebbero dovuti essere accolti. (…). Nell’epoca post-cristiana che stiamo iniziando a vivere, ci sarà la possibilità d’impostare comunità che s’ispirano al Vangelo e che potranno proporsi come una vera e propria società alternativa alle logiche del denaro e a tutte le logiche di oppressione.
Un’altra caratteristica del cammino ecclesiale post-cristiano è che è contaminabile. (…). Mentre la caratteristica di una struttura rigida è quella di proteggersi dalle possibili contaminazioni che possono mettere in pericolo il sistema, in una cultura post-moderna che è, allo stesso tempo, post-sistemica la fluidità consente ed esige la possibilità delle contaminazioni conoscitive. Trasportare queste intuizioni in campo teologico significa riconoscere la presenza dello Spirito Santo in ogni cultura e riconoscere che lo Spirito è già presente in tutto ciò che di buono e giusto c’è nell’universo. (…).
Il cambiamento non avverrà da un giorno all’altro: richiederà tempo. In ogni modo, il dato certo è che il cambiamento è in atto e la struttura moderna della cultura occidentale è ormai parte del passato. Siamo, quindi, in una specie di zona di mezzo, in cui non ci sono punti di riferimento e questo stato genera inquietudine, insicurezza, desiderio di attaccarsi ai ricordi del passato. Avere lo sguardo rivolto al futuro dove si trova il Cristo vittorioso sulla morte significa fidarsi di Lui, della sua Parola, del suo Vangelo, di quello che sta operando in mezzo a noi. Mai come in questa epoca di passaggio verso il post-cristianesimo il mondo ha bisogno di comunità alternative, che sperimentino ogni giorno la bontà della proposta del Signore risorto.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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