
Conflitto mediorientale. La guerra fa male. Anche agli israeliani
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 15 del 19/04/2025
Crisi interna di Israele? Per noi che sgomenti assistiamo ogni giorno a un’operazione di sterminio in diretta nella complice indifferenza e inattività del mondo politico, sembra impossibile. Eppure non solo analisi teoriche a medio termine di intellettuali autorevoli, come Ilan Pappè, Gideon Levy, e da noi Anna Foa, ma anche articoli d’attualità di fonti accreditate (Haaretz, il coraggiosissimo giornale israeliano progressista per primo) evidenziano crepe significative.
La crisi attraversa tutti gli ambiti, da quello politico a quello militare, da quello economico a quello sociale e psicologico, minimizzata o occultata dalla nostra informazione mainstream sempre scandalosamente parziale. Sul piano politico, ai vertici la tensione è alle stelle. Sono sempre aperti i problemi con l’estrema destra che tiene il premier sotto continuo ricatto, come dimostrano le dimissioni, rientrate con la rottura del cessate il fuoco, di Ben Gvir, sostenitore dell’espansione senza limiti dei coloni. Ma l’assedio a Netanyahu è da più parti. Ha rimosso Ronen Bar, dello Shin Bet, i Servizi di sicurezza, che stava indagando, oltre che su infiltrazioni di elementi di estrema destra nella polizia, su un sospetto caso di corruzione di due suoi stretti collaboratori nei rapporti con il Qatar, che potrebbe esser collegato addirittura a finanziamenti a Hamas. La rimozione è stata poi congelata dalla Corte Suprema, ma ha avviato un’ondata enorme di proteste di piazza e dell’opposizione per l’attacco alla democrazia. E incombono sempre sul premier ben tre diversi processi, con le accuse di corruzione, frode, appropriazione indebita, che non si sono fermati per la guerra. All’ultima udienza, il 24 marzo, Netanyahu si è scagliato contro «questi processi folli» che bloccano il Paese con costi elevati, ma è evidente che la sua difesa è sempre più debole. Tanto che ha fatto approvare una mozione di sfiducia nei confronti della Procuratrice generale Gali Baharav-Miara, che dal 2022 denuncia la deriva autoritaria in atto ed è incaricata della supervisione di questi processi: contestata per «comportamenti inappropriati» e «differenze sostanziali» con la linea politica dell’esecutivo, che impedirebbero un’efficace collaborazione, ha rifiutato di dimettersi, accusando il premier di volere la sua sottomissione totale e un esecutivo senza limiti. Anche altri funzionari di alto livello sono apertamente in rotta col governo, mentre è del tutto impopolare la continua difesa dei privilegi degli ortodossi.
Non solo le vicende politico-giudiziarie, ma la stessa conduzione della guerra hanno minato profondamente la fiducia di buona parte del Paese nell’esecutivo e nel premier: è ormai evidente che Netanyahu tende a prolungare il conflitto per restare al governo e evitare condanne. Continue manifestazioni in piazza e sotto la sua abitazione, dove sono state anche montate delle tende, chiedono la fine della guerra, certo non per i palestinesi, ma per salvare con gli accordi gli ostaggi. E anche per difendere una democrazia formale, la cui tenuta è minacciata anche per gli stessi israeliani. La repressione delle proteste ha raggiunto livelli elevati, con alcuni genitori degli ostaggi malmenati.
La verità è che il Paese è stanco. La guerra, di cui non si vede la fine, sempre più si risolve agli occhi stessi degli israeliani in una distruzione immane che si avvolge in una spirale senza arrivare agli obiettivi – quali? – e impone una vita in emergenza continua. L’economia sta fronteggiando ingenti perdite economiche per lo sforzo bellico, diminuzione di affidabilità sui mercati internazionali, aumento del debito – il più alto mai registrato. Il settore del turismo ha subìto un crollo del 70%, decine di migliaia di aziende hanno chiuso, si è registrato un declino della produzione, dei consumi e degli investimenti, anche se la disoccupazione è finora riassorbita dal reclutamento. La sensazione di incertezza diffusa ha spinto decine di migliaia di israeliani a lasciare il Paese, dal 7 ottobre a oggi, un fenomeno il cui peso va oltre l’entità numerica per un premier che continua a invitare tutti gli ebrei del mondo a trasferirsi in Israele. E circa 150.000 persone che vivevano lungo il confine con Gaza non sono ancora rientrate nelle loro case. La crisi psicologica è pesante: disturbi da stress post-traumatico (PTSD) e depressione dilagano ed è più che raddoppiato il consumo di sonniferi, oltre che di alcool. Particolarmente grave la situazione tra i soldati: lo stesso direttore generale del Dipartimento di riabilitazione del Ministero della Difesa Limor Luria ha parlato di una situazione senza precedenti, sottolineando che tra i 16.550 soldati feriti, anche in modo grave dal 7 ottobre, molti presentano problemi mentali seri e ha avvertito del rischio di un aumento dei suicidi: sono 21 quelli dichiarati ufficialmente nell’arco del 2024, 28 dal 7 ottobre, ma si pensa siano molti di più. Decine di riservisti, soprattutto nell’aeronautica, e anche alcuni ufficiali, hanno dichiarato che non si ripresenteranno, perché non condividono la svolta autoritaria, e per il governo sarà impossibile condannarli, dopo il servizio prestato a Gaza. Moltissimi altri si sa che accamperanno motivi di salute o andranno all’estero se chiamati. Alcuni comandanti temono di non avere forze sufficienti se continua a lungo la guerra, mentre le famiglie cominciano ad avversare il servizio militare per i figli.
La crisi morale, negata, rimossa, cova sotto l’apparente sicurezza e indifferenza, e potrebbe prima o poi far breccia sulla corazza costruita dalla propaganda, che fin dall’infanzia educa al senso di superiorità e di impunità totale garantita dal passato della Shoa e fa interiorizzare la disumanizzazione dei palestinesi. Il meccanismo ormai automatico di accusare di antisemitismo chiunque esprima critiche per tacitare le coscienze potrebbe prima o poi non funzionare più.
L’isolamento internazionale, la condanna del mondo, anche se non dei politici dei Paesi “che contano”, pesano più di quanto si ammetta. La protesta potrebbe intensificarsi fino a far implodere il Paese su se stesso. Si è sentita pronunciare ad alto livello l’espressione “guerra civile” come un esito da non escludere se la situazione non cambia. Lo hanno detto alcuni esponenti dell’opposizione, lo ha detto, suscitando la riprovazione del presidente della Repubblica, Aaron Barak, autorevole giurista e ex-presidente della Corte Suprema in un’intervista a Channel 2: «Israele è sull’orlo di una guerra civile: perché la spaccatura nel popolo è immensa, e non si sta facendo alcuno sforzo per rimarginarla. Tutti stanno cercando di peggiorare le cose». Il governo ha attuato «una sfida diretta alla democrazia e allo stato di diritto di Israele, una linea rossa che non avrebbe mai dovuto essere superata».
Davvero, come dice Anna Foa, ma in fondo anche Ilan Pappe, Israele ha imboccato la via del suicidio? Certamente a oggi, solo una scossa dal suo interno, nella colpevole acquiescenza o impotenza del mondo di fronte alla tragedia del popolo palestinese, potrebbe aprire uno spiraglio di speranza.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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