Abusi: la Cei dà i soliti numeri
Tratto da: Adista Notizie n° 22 del 07/06/2025
42269 ROMA-ADISTA. 98 pagine di dati che dimostrano una sola cosa: che la cosiddetta “via italiana” alla lotta agli abusi percorsa dalla Conferenza episcopale italiana è nata storta e quindi rivela tutte le sue storture e i suoi limiti. Al netto dell’elegante presentazione, il 28 maggio, all’Ambiasciata italiana presso la santa Sede, con una nutrita presenza di relatori e di pubblico, i dati della “Terza Rilevazione territoriale” (il nome cambia ogni volta: “I report”, II Rilevazione, III Rilevazione territoriale), che copre il biennio 2023-2024, dimostrano plasticamente che l’approccio della CEI – che vuole fare prevenzione senza prima fare verità sulla reale situazione del fenomeno degli abusi in Italia con una commissione indipendente d’inchiesta, e non guarda alle cause sistemiche del problema – è sbagliato, lento, non parte dalla cura delle vittime ed è una perdita di tempo (e soldi). Solo alcune delle criticità emerse nei risultati sono state esplicitate durante l’evento, moderato dal giornalista del TG1 Ignazio Ingrao, al quale soltanto è stato concesso di porre domande ai relatori. Grottesca la risposta di mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario della CEI, alla domanda sul caso della diocesi di Bolzano che, unica in Italia e in totale controtendenza rispetto all’orientamento della CEI, ha affidato a uno studio legale tedesco l’indagine indipendente sugli abusi nel suo territorio, nell’ambito di un progetto triennale portato avanti con con l’Istituto di Antropologia della Pontificia Università Gregoriana (IADC), presieduto da p. Hans Zollner (v. Adista Notizie n. 41/23; 4/25; Adista Segni Nuovi n. 5/25). Mons. Baturi ha commentato: «Anche la diocesi di Bolzano ha confermato la bontà del sistema italiano».
I dati
Chiara Griffini, responsabile del Servizio Nazionale Tutela minori e persone vulnerabili della CEI, si riempie la bocca di termini come “Participatory Action Research”, “Compliance” e “Accountability”, ma la Rilevazione – meramente quantitativa – mostra un interesse autoreferenziale, esaminando per lo più la struttura del servizio, le attività del servizio, la struttura del Centro di ascolto, le attività del Centro di ascolto. I dati – che si riferiscono a 184 risposte ricevute, raccolte in 194 diocesi su 206 – mostrano chirurgicamente come le iniziative messe in campo dalla Chiesa italiana (incontri formativi soprattutto) perdano di attrattiva già nei primi cinque anni di vita: i partecipanti, dal 2022 (3.276), sono calati di due terzi (1.178 nel 2024): dato questo sapientemente mimetizzato dalla ricercatrice Barbara Barabaschi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza (che, pur essendo una istituzione di altissimo profilo scientifico e accademico, di “indipendente” non ha proprio nulla. E qui viene a mancare quel requisito che solo sarebbe garanzia di oggettività e terzietà e di valutazioni scevre da conflitti di interessi). Barabaschi ha ammorbidito il flop parlando di un exploit iniziale e di una «continuazione» successiva dell’attività. Anche il numero degli incontri formativi è in calo negli ultimi tre anni, ma furbescamente nella Rilevazione si sottolinea solo l’aumento complessivo registrato tra il primo anno e l’ultimo. Dunque, una sorta di implosione interna, che fa passare in secondo piano l’aspetto che viene presentato come il più critico: la mancanza di iniziative con enti e istituzioni non ecclesiali. Un aspetto importante, sì, ma che sposta all’esterno lo sguardo critico, mentre le criticità intrinseche del metodo italiano sono (come peraltro già rilevavamo da quando esso è nato, nel 2022; v. Adista Notizie nn. 24/22 e n. 40/23) senz’altro più profonde.
Del resto, come già nel 2022, sono i referenti stessi dei servizi a dare brutti voti alle iniziative in un questionario di gradimento. I giudizi espressi sono insufficienti (sotto il 6 in una scala da 1 a 10) in 10 voci su 18, e le voci che raggiungono la sufficienza raggiungono, appunto, soltanto la sufficienza, con solo 4 voci in totale migliorate di qualche decimale e un generale peggioramento di diverse altre.
I centri d’ascolto sono diminuiti
Il dato più grottesco riguarda i Centri d’ascolto, che dovrebbero almeno essere capillari, trattandosi del primo punto di contatto per le segnalazioni di abuso. Il loro numero, innanzitutto: 103 quelli che hanno risposto per 130 diocesi: vale a dire che soltanto il 63,1% delle 206 diocesi italiane ne ha uno, dando per buono il fatto che da nessuna altra parte della Rilevazione compare un numero assoluto dei Centri attivati. La Rilevazione presenta diagrammi e tabelle sull’identikit dei referenti (per lo più donne, laiche e in maggioranza con competenze psicologiche), sulle loro competenze, sui membri delle équipe di sostegno, laddove ci sono, ma omette di osservare che i Centri di ascolto, invece di aumentare la loro capillarità, sono diminuiti rispetto all’ultimo report del 2022, dove i centri citati erano 108 e coprivano 160 diocesi (77,7%). Una diminuzione di copertura quasi del 15% in due anni. Nessuno dei relatori – e nemmeno la Rilevazione, redatta dalla Cattolica di Piacenza – si perita, stranamente, di segnalare questo dato, che viene invece rappresentato come un “consolidamento”.
E poi si arriva alle attività dei Centri: i contatti, in primo luogo, il cui aumento sui 5 anni (da 38 del 2020 a 373 del 2024) è presentato come un successo. Ma su 103 centri, 63 non hanno avuto alcun contatto. I contatti ricevuti dai restanti 40, appunto 373 nel 2024, sono in calo rispetto ai 451 dell’anno prima e sono per l’84,8% di non vittime (erano circa la metà, invece, nel 2020-21). Le segnalazioni o denunce, insomma, rappresentano nel 2024 una minima parte, il 15,2% dei contatti totali.
Quanto ai motivi dei 373 contatti del ‘24, il 69,1% è dato dalla richiesta di informazioni sulle attività del Centro (riguardo ad abusi in ambito ecclesiale, 35,4%, e non ecclesiale, 33,7%, dato, questo, che ha fatto dire a Chiara Griffini, in sostanza, che i Centri sono un baluardo contro gli abusi per la società tutta).
I casi di abuso rilevati
Veniamo ai dati riguardanti i casi di abuso segnalati (che sono sempre, vale la pena ricordarlo, la punta dell’iceberg del fenomeno complessivo, proprio perché rappresentano solo l’emerso e per di più l’emerso della sola Chiesa, non tenendo conto delle denunce all’autorità civile). Per il biennio 2023-24, sono stati denunciati 69 casi, di cui quasi la metà (32) riferiti al passato e di cui più di due su tre (50) avvenuti nel Nord Italia; un dato che in proporzione sembra non discostarsi, pur nell’impossibilità di scorporare i dati del biennio ‘23- ‘24, dai 32 del 2022. Si parla per l’89,9% di abusi reali, non virtuali, perpetrati in una varietà di modalità che va dai cosiddetti «comportamenti e linguaggi inappropriati» (ricatti, offese, manipolazioni psicologiche, molestie verbali ecc.) in 36 casi, ai toccamenti (25), alle molestie (19), abusi spirituali e di coscienza (17), a violenze e abusi psicologici (14) a rapporti sessuali (11; significativo che non siano definiti “stupri”) fino ad atti di esibizionismo, pornografia, adescamento e abuso online e stalking. Teatro degli abusi è in gran parte la parrocchia (27), ma crescono significativamente le violenze avvenute in case di formazione, seminari, collegi e campeggi (2 nel 2022, 11 nel biennio 2023-2024) e durante iniziative diocesane (quadruplicate in 3 anni).
Le vittime, sempre più giovani
È sconvolgente il dato riguardante l’età delle 115 presunte vittime degli ultimi due anni (in realtà sono 118, ma di tre non si hanno dati su età e sesso; erano 54 nel 2022): qui aumenta la fascia 0-4 anni (dallo 0,0% del 2020 al 5,2% del 2023-24), raddoppia quasi la fascia 5-9 anni ma soprattutto aumenta di 4 volte la quota dei 10-14enni (7,4% nel 2022; 31,3% nel biennio successivo).
Un dato interessante, che tende ad allineare l’Italia agli altri Paesi, è quello riguardante il genere delle vittime: erano in maggioranza femmine nel 2022 (44 su 54), ora la proporzione si è ribaltata (64 i maschi, 51 le femmine nell’ultimo biennio).
Gli abusatori, sempre più preti
Si parla di 69 casi, ma di 67 presunti autori di reato nel biennio 2023-24 (erano 68 nel biennio 2020-21 e 32 nel 2022); l’identikit è quello di un maschio (65 su 67 casi), prete (44 su 67, erano 30 su 68 nel 2020-21) di età media di 50 anni (un po’ più alta rispetto ai casi emersi nel passato). Nella maggior parte dei casi, «i responsabili dei Centri di ascolto non conoscono le eventuali denunce in sede civile (52 casi su 66 nel caso dell’indagine 2023- 2024)». Solo in 14 casi, dunque, è nota l’evoluzione della segnalazione verso la denuncia in sede civile.
Un altro dato significativo è quello del follow up del caso e delle informazioni al riguardo: su 67 segnalazioni, soltanto per 40 si è a conoscenza di cosa è successo dopo. Di questi 40, solo 1 è una condanna; per 5 casi il processo canonico è in corso, per 16 l’indagine previa; 11 i casi con provvedimenti adottati a fine procedimento (pene canoniche, restrizioni, impedimenti, ecc.), in sei casi la trasmissione al Dicastero per la Dottrina della Fede, 3 le archiviazioni. Il totale è 42, ma d’altronde le incongruenze nella Rilevazione non sono poche.
L’accompagnamento delle presunte vittime e dei presunti autori
Come vengono accompagnate le persone coinvolte nei casi di abusi? La differenza balza all’occhio. Se per le vittime (parliamo dell’ultimo biennio, dunque parliamo di 118 persone) la maggior parte del sostegno si risolve nelle «informazioni e aggiornamento circa l’iter della pratica» (28 casi), solo in 11 casi è stato attivato un accompagnamento psicologico e in 12 un accompagnamento spirituale. In 12 casi c’è stato un incontro con l’Ordinario, e altri 12 casi finiscono in una categoria generica «Altro».
Guardiamo ora ai presunti autori di reato (67 nell’ultimo biennio): accompagnamento psicoterapeutico in 15 casi, indirizzamento verso comunità di accoglienza specializzata (6 casi); colloqui personali con sacerdoti o con il vescovo (7 casi), percorso genericamente «seguito dall’equipe diocesana» (3).
Sulla vita consacrata, invece…
Nel corso dell’evento, sono stati anche presentati due nuovi sussidi della CEI, uno sulle “buone prassi”, di Francesco Airoldi e Gianluca Marchetti, l’altro, a cura di Anna Deodato, Amedeo Cencini e Luigi Sabbarese, riguardante la «prevenzione e formazione nella vita consacrata», la cui presentazione è stata affidata ad Anna Deodato, consacrata e formatrice, che accompagna religiose abusate e fa parte del Consiglio di presidenza del Servizio nazionale Tutela minori e persone vulnerabili della CEI. Un approccio sistemico, “a monte” del problema, quello di Deodato (totalmente differente da quello “a valle” della “via italiana” della Cei), che ha messo in luce la necessità di una revisione della formazione in una chiave interdisciplinare, che prenda in oggetto alcuni cardini che oggi presentano criticità: obbedienza, sessualità, relazione, potere, autorità, abuso spirituale: una dimensione strutturale, insomma, su cui fare una profonda analisi critica. Il tutto, a partire dalle esperienze di incontro e ascolto delle persone vittime di abusi. Rispetto alla parte precedente dell’incontro, centrata sull’esame della Rilevazione, sembra di trovarsi di fronte a due mondi separati e paralleli che non comunicano. Perché non si applica lo stesso approccio analitico agli abusi da parte del clero?
*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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