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La coercizione a vivere

La coercizione a vivere

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 29 del 02/08/2025

Il 15 luglio l’Associazione “Luca Coscioni” ha consegnato al Senato una sua proposta di legge (sottoscritta da oltre 74mila firme in sole due settimane di mobilitazione) per legalizzare tutte le scelte di fine vita. La data era obbligatoria: infatti il 17 luglio l’Aula avrebbe iniziato l’esame di un testo sull’argomento proposto dal Governo.

In questioni del genere i primi due rischi che si palesano sono il difetto di informazione e la polarizzazione, sia partitica sia teologica.

Quanto alla correttezza dell’informazione, è utile focalizzare tre punti-chiave del dissenso: per il disegno di legge governativo (sostenuto da tutta la maggioranza parlamentare) il diritto al suicidio assistito va limitato ai casi di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale; va esercitato dal malato in prima persona senza intervento di un medico; il tutto con esclusione totale del Servizio sanitario nazionale. Come ha spiegato in un’intervista Marco Cappato, nel progetto di legge della “Luca Coscioni” – invece – andrebbe previsto il caso di pazienti oncologici terminali anche se non dipendenti da trattamenti sanitari straordinari; andrebbe ammesso l’intervento di un medico (qualora il paziente per qualsiasi ragione tecnica o psicologica, pur in preda a dolori insopportabili, non volesse/potesse ricorrere all’auto-amministrazione) su base volontaria; in questa ipotesi, l’attuazione della decisione del malato dovrebbe essere presa in carico dal Servizio sanitario nazionale.

La chiarezza sui termini precisi dell’alternativa fra le due proposte di legge non rende meno indolore l’opzione pratica: siamo in un ambito tematico in cui solo gli stupidi – e gli speculatori elettorali in cattiva fede – possono esibire certezze assolute senza “se” e senza “ma”. Anzi, in cui ogni intervento legislativo dovrebbe essere minimale o, comunque, il più “leggero” possibile. Da qui la necessità di liberare lo scenario dai pregiudizi di partito o di Chiesa.

Chi ha avuto qualche esperienza sul campo sa che in un malato che invoca l’eutanasia e in un altro che la rifiuta (almeno sino a quando ciascuno ha la lucidità per decidere e per manifestare il proprio volere) l’appartenenza partitica influisce quasi per nulla rispetto ad altre considerazioni più personali. Esattamente come in altri ambiti (uso delle droghe leggere, divorzio, aborto, legami affettivi stabili fra persone omosessuali etc.) è frequente osservare la discrasia tra ciò che un soggetto proclama in sede di dibattiti “politici” e ciò che egli pratica nella sfera privata, lontano dai riflettori. È davvero doloroso constatare come gli interessi propagandistici delle varie fazioni in lizza riescano a fagocitare, con la spietata indifferenza degli avvoltoi, qualsiasi tragedia tocchi la viva carne dei cittadini.

Molto più incisiva, se non vedo male, la differenza teologico-religiosa. Chi sin dall’adolescenza è stato condizionato a valutare come gravemente peccaminosa qualsiasi modalità di suicidio, per qualsiasi motivazione, più difficilmente è disposto a mutare prospettiva e a rifiutare la “prova di fedeltà e di amore” che Dio gli chiederebbe nel tratto finale dell’esistenza terrena. Per questo riterrei urgente, anche in questo campo, una profonda revisione etica a livello di ricerca teologica e (in prospettiva, di conseguenza) dell’insegnamento magisteriale e della catechesi ordinaria.

Innanzitutto, in prospettiva più generale, andrebbe argomentato anche teoreticamente quell’abbandono, che di fatto si è registrato nel mondo cattolico, di ogni tendenza “doloristica” (a fondamento della quale agisce un’interpretazione distorta della passione e della morte di Gesù): no, il dolore – fisico e psichico – non è un valore! Che, occasionalmente, possa diventare per qualcuno occasione di maturazione, di esodo dal proprio egocentrismo, di comprensione dell’altro, non cancella la sua essenza negativa. La sofferenza è un male che ogni essere umano deve combattere in sé e fuori di sé, che nessuna divinità rispettabile può benedire.

Se dall’angolazione generale zoomiamo sull’accompagnamento al morire vorrei rievocare un momento del convegno di medici organizzato, una ventina di anni fa, dalla Samot di Palermo (una delle tante associazioni che da decenni lavorano nel Paese per le cure palliative). In quella occasione mi sono trovato, a fianco della vedova Welby, a concordare con il mio amico – teologo raffinato quanto libero – don Cosimo Scordato sulla tesi che per tutti i credenti la vita è un “dono di Dio”, ma che – proprio se è davvero un dono – non può non essere segno di benevolenza. Se regalo una bella pianta a un’amica sono felice che lei l’accolga con gratitudine, la custodisca, la innaffi, la curi con pollice verde. Ma se – a un certo punto, nonostante ciò – la pianta iniziasse a deperire irreversibilmente, a non fiorire, tanto meno a profumare, come donante pretenderei che la donataria la tenesse con sé sino alla dissoluzione?

In un aureo libretto tradotto in italiano quasi venti anni fa, uno dei teologi più acuti e coraggiosi del nostro tempo ha inanellato una serie di considerazioni di attualità, tra cui la riflessione che proprio chi crede in una qualche forma di sopravvivenza dovrebbe essere culturalmente meno abbarbicato alla vita biologica rispetto ai non-credenti (H. Küng, La dignità del morire. Tesi sull’eutanasia, Datanews, Roma 2007). Uno dei suoi criteri orientativi mi pare condivisibile a prescindere dalle proprie convinzioni in campo religioso: «Veramente nessun uomo deve essere costretto o anche solo spinto a morire un giorno o anche una sola ora prima di quanto egli voglia. Viceversa, però, nessun uomo deve essere costretto a continuare a vivere a ogni costo. Il diritto di continuare a vivere non può diventare un dovere, il diritto alla vita non equivale a una coercizione a vivere» (p. 54). 

Augusto Cavadi è del Centro di ricerca esperienziale di teologia laica, Palermo; co-dirige con la moglie Adriana Saieva la “Casa dell'equità e della bellezza” di Palermo

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