Una parola in più contro il degrado
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 57 del 23/05/2009
C’è qualcosa che non torna nella tesi che sostiene l’inevitabile condanna del popolo italiano al degrado politico-culturale. Il ragionamento, sostenuto da molti a prescindere dalla propria posizione politica, è più o meno questo: non facciamoci illusioni, in altri Paesi (vedi Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna solo per far degli esempi) gli scandali delle vite private dei potenti entrano in gioco nel dibattito pubblico e generano effetti quasi sempre devastanti per la carriera del politico di turno “beccato” con le mani nella marmellata. Qui da noi non è così e non lo sarà mai. E le conclusioni hanno ugualmente una doppia faccia. Esagerata, la morbosa attenzione e severità di quei paesi sulle vicende private, quasi sempre legate alla vita sessual-familiare; e insieme troppo tenera e accondiscendente quella italiana, tutta giocata sul presupposto “un politico si giudica per quello che è capace e no di fare per il Paese e non per i suoi comportamenti privati”. Sarà vero? I più colti aggiungono a queste interpretazioni anche una deduzione riconducibile all’imprinting cattolico della mentalità italica (pecca fortissimamente ma poi pentiti con altrettanta convinzione…), e a quello protestante di altre popolazioni, più esigente, almeno sulla necessità di evitare confusione tra pubblico e privato.
Ammesso e non concesso che sia così, l’effetto di uno scoraggiamento di fondo prodotto da questo modello di pensiero (pur adottato con diverse sfumature) è nei fatti l’assecondare il circuito perverso intrapreso dal degrado civile, politico e morale del nostro Paese. È questione di linguaggi usati, di forma mentis, di comportamenti, di approccio alle persone, alle istituzioni e alle relazioni fra questi. La battuta volgare, il continuo riferimento a pratiche e costumi non appropriati per i luoghi e le persone incontrate, i frequenti riferimenti sessuali, la sguaiatezza esemplare portata agli estremi (si pensi – ad esempio – alla mortadella e allo spumante sfacciatamente ingurgitati in Parlamento per festeggiare la caduta del governo Prodi da un politico per nulla punito, anzi, ripresentato ora per le elezioni europee), hanno – in fondo – il principale obiettivo di svilire persone e istituzioni, regole e rappresentanti. In sostanza la dignità stessa della politica. Parlare e comportarsi come si presume faccia il volgo al bar parlando di sport, donne o motori, trascina il valore della cosa pubblica verso il basso, per potere, a quel punto, affrancarsi dal giudizio sulla qualità e sulla ragionevolezza delle proposte fatte.
Non è questione di moralismo, è questione prettamente politica. A mio avviso sbaglia chi afferma: non è su queste cose che noi che crediamo alla politica dobbiamo attaccare, contano i fatti, le cose concrete, i ragionamenti, altrimenti facciamo solo moralismo. Ma quale concreto e positivo discorso può trovare terreno fertile per germogliare se il terreno preparato è concimato con il peggior fertilizzante, in grado di distruggere ogni seme?
Si è parlato in questi giorni di “personale” diventato “politico”, le faccende private del presidente del Consiglio sono diventate, inopportunamente secondo i più, faccenda pubblica. Ebbene io penso che il problema italiano sia esattamente il contrario: il pubblico che diventa privato. Ossia affare da risolvere nel mero ed esclusivo interesse mio e della ristretta cerchia di chi mi sta intorno (e più stretta è, meglio è). è l’attuale e dominante ideologia della privatizzazione, ci avvertono Beck e Bauman.
Per invertire la tendenza (o forse più realisticamente per tentare di frenare la progressiva discesa) penso che si debba e si possa ricominciare a calcare la mano a partire dai linguaggi, dai comportamenti, dallo stile, dalle modalità di pensiero. Se chi conta percepisce nell’opinione pubblica un tacito consenso o per lo più un flebile dissenso su queste categorie (del politico, ribadisco), non sarà per nulla semplice, poi, tornare a parlare di numeri, di progetti, di norme, di atti amministrativi o di quant’altro fa la politica nell’accezione positivista e concreta. (V.S.)
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