UNA CATTIVA TEOLOGIA
Tratto da: Adista Documenti n° 11 del 06/02/2010
Sui giornali si è letto che “vi sono mali peggiori del terremoto di Haiti” (è la frase pronunciata da mons. José Ig-nacio Munilla, vescovo di San Sebastián, v. Adista n. 8/10; ndt). Munilla ha detto “donde dije digo, digo Diego” (scioglilingua spagnolo relativo a chi rettifica sbrigativamente una precedente affermazione, ndt), spiegando che stava parlando su un piano teologico, a partire dalla “sua” teologia: “Il male che soffrono questi innocenti non ha l’ultima parola, perché Dio ha promesso loro la felicità eterna”. Affermazione pericolosa che invita a consolare le vittime sulla base di una religione “oppio del popolo” che darebbe ragione a Marx, Feuerbach o Nietzsche.
Non impediremo certo ai credenti di chiedersi se la fede dica loro qualcosa quando si trovano di fronte all’enigma (enigma e non problema, enigma senza soluzione teorica né in filosofia né in teologia); l’enigma del male in carne viva. Ma non si può chiedere alla fede quello che non può dare.
Non ci sono né risposte teoriche né ricette magiche per risolvere l’ostacolo del male o per consolarci superficialmente quando non possiamo risolverlo. Il Vangelo non ci dà questo tipo di ricette, né facili consolazioni. Neppure ci offre spiegazioni evidenti che facciano scomparire i dubbi del credente o che convincano con argomentazioni irrefutabili il non credente.
Nulla di questo possiamo aspettarci dal Vangelo. Quello che ci offre è un’altra cosa: speranza per proseguire nella prassi (mobilitarsi da subito per prestare aiuto); prassi umana solidale impegnata per la liberazione dal male, malgrado tutto. Ci darà, la fede, anche la forza per pregare in silenzio di fronte al silenzio di Dio dinanzi al male, ma sarà una preghiera di richiesta e lamento: “Perché mi hai abbandonato?”.
“Perché doveva capitare questo proprio a coloro che già si trovavano in una situazione di morte in vita da tanti anni, nell’indifferenza del mondo? Perché?”. Di fronte a tale reazione, i membri di una comunità neoconservatrice ci raccomandano di non lamentarci: “Parlare così - dicono - è un’of-fesa a Dio”. In quanti vivono questo tipo di spiritualità potrebbero trovare eco le parole di Munilla: “Il male che soffrono questi innocenti non ha l’ultima parola, perché Dio ha promesso loro la felicità eterna”. È la teologia di evasione e fuga che credevamo superata dalla Gaudium et spes.
Anche facendo uno sforzo per salvare la buona intenzione di chi pronuncia questa frase, ciò che bisognerebbe dire a un credente che protesta come Giobbe è altro: “Non offendi Dio a dire come il salmista: ‘Perché, Signore, fino a quando?’. Sa molto bene Dio che questo grido è l’unica preghiera che puoi fare in questo momento. Continua a dirla. Non è una protesta offensiva, ma un lamento che sale dalla fede in forma di preghiera. Continua a parlare così a Dio. Sarebbe falso, artificiale e persino ipocrita pretendere una conformità e una rassegnazione facili e sorridenti dopo quanto è accaduto. Continua, pertanto, senza sentirti in colpa, a ripetere a Dio nella preghiera questo grido. Questo grido è la tua preghiera, l’unica che puoi fare ora. E che Lui ti dia la forza per restare come Gesù in croce in silenzio di fronte al silenzio di Dio dinanzi al male, ripetendo: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Questa non è teologia di evasione. È una teologia molto diversa da quella che presume di sapere il perché del male e ne attribuisce a Dio la pianificazione, dicendo: “Dio lo ha permesso”. A volte si parla del male da una prospettiva teologica che ne giustifica la pianificazione. Ma una fede matura deve far proprio un tipo di teologia che dice: “Dio non può volerlo, né permetterlo per nessuna ragione. Semplicemente, non me lo spiego. Non so perché avviene tutto quello che sta avvenendo, ma il Dio in cui credo, invece di rispondere alla mia domanda su dove stava quando ha tremato la terra, mi sfida a chiedermi dove ero io prima che tremasse, quando ha tremato e dopo aver tremato (come acutamente diceva González Faus dopo lo tsunami indonesiano). E devo abbassare il capo riconoscendo che non mi ero mosso, che mi costa muovermi e che anche a me tocca una parte di responsabilità nell’abbandono delle vittime o nel ritardo nel salvarle. E mi dà la forza per liberarmi dalla mia mancanza di solidarietà e liberare anche altri dal male, malgrado tutto.
Per assumere questa teologia e questa spiritualità bisogna cominciare a non aver paura a dire: “non sappiamo, non capiamo, non ci è chiaro...”. Perché avere fede non è avere tutto chiaro, ma coinvolgersi in una prassi di ‘liberazione con speranza’ malgrado l’oscurità. Avere fede non è vivere sempre avvolti dallo “splendore della verità”, ma ricevere la forza per vivere in mezzo alla nebbia delle incertezze.
Con una fede così si può perdere il timore di protestare pregando. Allora la protesta non è blasfemia, ma preghiera sotto forma di grido di impazienza, angoscia e speranza allo stesso tempo. Questa teologia è più fedele al messaggio biblico di quella che ammette la possibilità che Dio consenta il male. Questo modo di trasformare la protesta in preghiera il filosofo e credente Paul Ricoeur lo chiamava “l’impazien-za della speranza”.
Tale atteggiamento di fede non solo non risolve il problema del male, ma, nella consapevolezza del fatto che sia un enigma più che un problema, lo accresce mettendolo a confronto con un Dio di amore. Nel caso del credente, la crisi di fronte allo scandalo del male, l’indignazione contro la vittoria del male e il dolore per la sofferenza innocente è più acuta. Per questo è una “fede con speranza, malgrado...”.
Il contributo del cristianesimo all’enigma del male è facilitare la prassi di staccare dalla croce i crocifissi, come dice Jon Sobrino, animati dal silenzio di Gesù in croce di fronte al silenzio di Dio dinanzi al male. Né il libro di Giobbe né il grido “Perché mi hai abbandonato” di Gesù possono scomparire in quanto inseparabili dalla speranza cristiana. Come Paolo, il credente chiede “Perché?”. E come Paolo tace meditando: “Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rom 11,33).
Bisogna smascherare la teologia e la spiritualità del “non c’è male che per bene non venga”. Non neghiamo che ci sia qualcosa di profondo nella saggezza popolare di questo proverbio. Tanto più che si collega a un detto biblico famoso: “Le mie vie non sono le vostre vie” (Is 55,8). Bisogna ammettere che si dia a volte l’esperienza di riconoscere la parte di bene che c’era in quello che ci è apparso un male o il bene che ne è venuto poi. Ma il pericolo del fraintendimento inizia quando attribuiamo a Dio la pianificazione di mali per trarne beni. In questo senso non era certo la cosa più appropriata per un giorno come quello del terremoto evidenziare nell’informazione sull’Assemblea episcopale le parole del nunzio: “Dio regge con provvidenza amorosa i fili della storia”. Né le catastrofi naturali come il terremoto, né quelle che provocano gli esseri umani come l’Olocausto possono o devono essere razionalizzate facendo appello a una provvidenza che fa giochi di prestigio tirando fuori colombe di bene dal cilindro del male.
Questo equivoco è stato favorito dalla traduzione del testo di Rom 8, 28 in “tutto si trasforma in bene”. È più corretto tradurre con Alonso Shökel “Con quelli che amano Dio, Egli coopera in tutto per il loro bene” (aggiungendo noi: “malgrado tutto il dolore...”).
Una lettura come questa conduce a una prassi di speranza di fronte al male e malgrado il male, molto diversa da quella che sorge da letture razionalizzatrici, spiritualiste, moralizzanti o giustificatorie di Dio.
Non do la colpa del male a Dio né mi impegno a giustificarlo attribuendogli la pianificazione del male per trarne un bene. Neppure dico che Dio lo permette (come piace alla teologia provvidenzialista agostiniana, tanto gradita a qualche teologo tedesco a Roma). Dico, sinceramente, che né intendo il male, né mi spiego come possa essere permesso. Ma confido nel Dio in cui credo, come dice Paul Ricoer, non perché mi risolva l’enigma del male, ma malgrado non me lo risolvi; grido pregando in forma di protesta e ricevo forza per impegnarmi a far scendere qualche vittima dalla sua croce.
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