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UNA DECISIONE CHE FERISCE IL NOSTRO ONORE

Tratto da: Adista Documenti n° 60 del 17/07/2010

Nobile compagno presidente Lula,

è con la tenerezza, l’affetto e l’amore di un fratello, la fiducia, il rispetto e l’impegno militante di un compagno delle organizzazioni e delle lotte storiche dei lavoratori e delle lavoratrici di questo Paese e del mondo che sento la libertà e il diritto di inviare questa lettera (...).

Mi rivolgo a lei a partire dalla mia identità di lavoratore rurale, di sindacalista, di ambientalista, di militante e fondatore del Partito dei Lavoratori, la cui creazione cominciai a sognare e a preparare quando ancora mi trovavo in esilio, insieme a degni compagni e compagne banditi dal Paese per l’intolleranza del regime militare (...).

In realtà, compagno Lula, la mia storia di lotta sociale e politica è nata proprio qui in Maranhão, di cui sono figlio, con la mia matrice etnica nera e indigena.

A luglio compirò 75 anni. Quando ero giovane, ho visto mio madre e molti membri di famiglie contadine massacrati e derubati da latifondisti, colonnelli e jagunços (il nome che nel Nordest del Brasile si dà ai paramilitari al servizio dei leader politici, ndt), coperti e protetti da un governo oligarchico. Una volta, mentre eravamo riuniti in una piccola comunità rurale del Maranhão, venimmo attaccati da un gruppo di soldati e jagunços, che assassinarono 5 persone totalmente indifese, tra cui un bambino che, corso ad abbracciare il padre caduto a terra, venne preso per le gambe e gettato contro una parete, e un’anziana che, tentando di impedire la morte del figlio, venne pugnalata alla schiena, e lasciata agonizzante a terra. Riuscii a fuggire per puro miracolo, con un proiettile in una gamba, giurando di lottare per il resto della mia vita contro i latifondisti e le loro ingiustizie.

Assistii a un secondo massacro nel 1959, mentre eravamo riuniti in una comunità chiamata Pirapemas per preparare la difesa di alcuni compagni accusati di aver invaso una proprietà e rubato dei frutti. Arrivò un gruppo di 20 poliziotti e soldati e il sergente chiese chi fosse il presidente del-l’associazione. Poiché gli fu risposto che non c’era un presidente, il sergente disse: allora tutti sono presidenti e tutti moriranno. Quel giorno furono assassinati sette compagni e altri tre vennero gravemente feriti.

La mia prima motivazione di lotta era un sentimento di pura rivolta, di odio verso gli sfruttatori della mia famiglia e delle famiglie contadine della regione. Dominato da quest’o-dio e senza alcuna coscienza politica, giunsi a credere che la liberazione dei lavoratori dello Stato dipendesse da un salvatore della patria, da un uomo coraggioso, da un eroe che, con l’appoggio elettorale degli oppressi, avrebbe messo fine a tale dominazione. A partire da questa visione così limitata e dal senso di rivolta per la violenza testimoniata e sofferta, vidi sorgere, nella mia ingenuità, una speranza di salvezza della massa contadina dal giogo dei latifondisti legati al potere oligarchico che dettava legge in Maranhão. Il nome di questa speranza era quello di José Sarney.

Con un discorso molto abile e con la radicalità di un rivoluzionario, Sarney prometteva esattamente quello che noi contadini volevamo sentire: un Maranhão nuovo e libero dall’oligarchia, riforma agraria, punizione dei crimini commessi contro le famiglie contadine e risarcimento dei danni provocati dai fazendeiros. Io gli credetti e lo sostenni in maniera agguerrita nella campagna elettorale, percorrendo a cavallo tutte le comunità della regione. Risultato: con una grande adesione popolare, José Sarney venne eletto nel 1965 governatore del Maranhão. All’epoca io ero già presidente del Sindacato dei lavoratori rurali di Pindaré-Mirim, che riuniva i contadini di tutta la grande regione del Pindaré. Pur non avendo ancora una solida coscienza di classe, ero già stato catturato e pestato severamente dalla polizia della dittatura militare. Fu per questa persecuzione che detti credito alle promesse di Sarney che, nel caso fosse stato eletto, sarebbe stato un alleato dei lavoratori contro la repressione della dittatura militare.

Il 13 luglio 1968 il Sindacato dei lavoratori rurali di Pindaré Mirim aveva convocato una riunione con un medico su questioni relative alla salute degli associati. Il sindaco aveva annunciato una visita al sindacato quello stesso giorno. Alle 10 della mattina, arrivò una persona chiedendo del presidente del sindacato. Quando mi avvicinai alla porta fui ricevuto da un colpo di fucile a una gamba da parte della polizia militare. Altri compagni furono colpiti dai proiettili ma non ci fu alcuna vittima. Io venni condotto in prigione e gettato in una cella senza ricevere alcuna cura per la ferita, cosicché la gamba, andata in cancrena, mi venne amputata.

Sarney si trovava in viaggio in Giappone e al suo ritorno disse di non sapere nulla e mandò i suoi assessori a prendere contatto con me, offrendo sostegno alla mia famiglia, una protesi, una casa e altre cose, purché diventassi un sostenitore del suo governo. Risposi che non ero in carcere perché ero un bandito, che la mia gamba era stata ferita da un proiettile sparato dalla stessa polizia militare dello Stato da lui governato. Pertanto, la mia gamba era una questione della classe che io rappresentavo, la mia gamba era la mia classe. Da allora divenni un nemico del regime militare, vittima di persecuzione permanente. Fui arrestato 9 volte e sottoposto alle peggiori torture che un essere umano è capace di sopportare.

Vidi molti dei miei compagni e compagne torturati e uccisi per ordine del governo militare di cui Sarney diventò parte prima come governatore del Maranhão e poi come senatore. Vale la pena ricordare che fu nel primo governo della nascente oligarchia Sarney che fu promulgata la Legge statale 2.979, regolamentata dal Decreto 4.028 del 28 novembre del 1969, che (...) ha rappresentato il maggiore strumento di legalizzazione della grilagem (appropriazione indebita attraverso la falsificazione dei titoli di proprietà, ndt) delle terre del Maranhão, promuovendo l’espulsione delle famiglie contadine e la loro migrazione in altri Stati.

Sfuggii alla morte, per quanto mutilato e con ferite fisiche e psicologiche profonde, grazie alla solidarietà di Amnesty International, delle Chiese cattoliche ed evangeliche, del Partito Comunista del Brasile. Venni infine esiliato in Svizzera, da dove continuai a denunciare le atrocità delle dittatura militare (...).

Compagno Lula, oggi viviamo un nuovo momento nella storia del Brasile; quelle lotte dagli anni ‘50 agli anni ‘90 non sono state invano (...): oggi abbiamo un partito che è diventato la maggiore espressione politica della classe lavoratrice in America Latina; abbiamo il migliore presidente della storia di questo gigantesco Paese, che è un operaio e un nordestino e che come me quasi non ha avuto accesso alla scuola. (...).

 

Il limite è la dignità

Però, compagno presidente, ultimamente ho vissuto l’angoscia maggiore che un uomo con la mia traiettoria di vita potrebbe immaginare e sopportare. Quella dell’imposi-zione della tesi della Direzione nazionale del mio partito e, secondo quanto mi è stato detto, di lei stesso, in base a cui il nostro progetto politico e sociale passa ora per il rafforzamento dell’egemonia dei Sarney in Maranhão. Comprendo l’equilibrismo a cui il compagno presidente è stato costretto per garantire una qualche condizione di governabilità, ma conosco l’alto costo che viene pagato dal nostro governo per questi sostegni congiunturali. Compagno, tutto ha un limite e questo limite è la nostra dignità.

Quello che si sta imponendo a noi petisti del Maranhão supera tutti i limiti della tolleranza e ferisce mortalmente il nostro onore e la nostra storia. (...). Com’è che ora i miei stessi compagni di partito vogliono obbligarmi a difendere questi personaggi che mi hanno torturato e hanno ucciso i miei più fedeli compagni e compagne? Potete avere la certezza che questa è la peggiore di tutte le torture che si possono imporre a un uomo. (...).

Pertanto, sto rivolgendo questo appello al più illustre compagno del partito e proclamando ad alta voce che non accetterò a nessuna condizione l’idea che a questo punto della mia vita io debba negare la mia identità e disonorare la memoria dei miei compagni e delle mie compagne cacciati e sterminati dall’oligarchia e dai detentori del capitale nel Maranhão, in Brasile e nel mondo intero.

Mi scuso se questa mia posizione non è di gradimento suo e della Direzione nazionale del Pt, ma non ho altra scelta di fronte a una tesi che distrugge la nostra identità collettiva e rappresenta la negazione di tutto quello che abbiamo affermato con le parole e le azioni. Spero di contare sulla solidarietà e la comprensione del mio storico compagno di utopie e di lotte.

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