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Il senso del limite

- Solo un confine che delimita la sua estensione può avviare concrete possibilità di pace in Israele

Tratto da: Adista Contesti n° 70 del 18/09/2010

Tratto dal quotidiano israeliano “Haaretz” (8/9/2010). Titolo originale: “Give us a border!”

 

I colloqui diretti lanciati al summit di Washington devono avere un obiettivo, quello di fissare il confine tra Israele e Stato palestinese in Cisgiordania. Israele ha bisogno di un confine che lo definisca, normalizzi il suo stato interno, ponga fine al dissenso sugli insediamenti e renda più saldo il consenso nazionale. Questa è la missione vitale del primo ministro Benjamin Netanyahu. Se avrà successo, avrà giustificato il suo ritorno al potere e passerà alla storia come un leader costruttivo.

Netanyahu si sta ora concentrando sulla questione palestinese. Più di un anno fa, ha dedicato tutto il suo primo incontro con il presidente Usa Barack Obama alla minaccia iraniana. I palestinesi erano citati solo en passant. Nei loro due ultimi incontri l’agenda è stata capovolta, secondo fonti americane. La maggior parte del tempo è stata dedicata al processo diplomatico con i palestinesi e l’Iran è stato messo da parte.

Dal punto di vista di Netanyahu, l’accordo su cui sta lavorando con il presidente palestinese Mahmoud Abbas è destinato a creare un equilibrio tra due interessi israeliani: il desiderio di non includere i palestinesi della Cisgiordania all’interno dei confini di Israele e di non governare su di loro, e di conservare la capacità di autodifesa. I palestinesi otterranno sovranità e daranno a Israele sicurezza. Questo è l’affare che Netanyahu sta proponendo, impacchettato nelle promesse di “mettere fine al conflitto”.

Porre fine al conflitto è un obiettivo ambizioso, ma Netanyahu e Abbas non saranno in grado di realizzarlo. Non perché siano cattivi leader o perché vogliano che il conflitto continui, ma perché la sua conclusione non dipende da essi. Nessuna firma può eliminare le storie in conflitto dei due popoli, ognuno dei quali si considera la vittima e vede il suo rivale come un invasore indesiderato. È impossibile trovare un compromesso su un ethos nazionale con un tratto di penna, ed oggi non vi è possibilità di formulare una storia congiunta israelo-palestinese. Se i negoziati focalizzeranno l’attenzione su chi ha ragione e chi ha torto, e chi c’era prima, possiamo scordarceli fin d’ora.

La questione delle storie deve esse lasciata agli storici, agli educatori e ai creatori di cultura. Gli statisti devono prestare attenzione agli aspetti pratici della vita e accordarsi sul confine in Cisgiordania e Gerusalemme est come strumenti di sicurezza che garantiranno la stabilità. Il confine deve rendere chiaro dove finisce Israele e dove inizia la Palestina, dove stiamo noi e dove stanno loro.

Israele ha riconosciuto due tipi di confine, i confini di pace con l’Egitto e la Giordania e i confini per la deterrenza con la Siria, il Libano e la striscia di Gaza. Non c’è un confine chiaro nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est, solo sistemazioni locali di separazione, mura e steccati, posti di blocco e strade separate, ed un ininterrotto tentativo di stabilire i fatti oggettivi e di spingere da parte l’altra parte.

Per molti versi, le relazioni di Israele con “Hamastan” a Gaza (eventuale governo di Hamas nella dicitura spregiativa di Israsele, ndt) sono più strutturate che con l’autorità palestinese di Mahmoud Abbas in Cisgiordania, dove le due parti cooperano sulla sicurezza e sugli accordi economici sotto la copertura della rivalità diplomatica. Il disimpegno da Gaza  ha creato un confine chiaro, e tutti sanno dove finisce il controllo di Israele e dove inizia la sovranità di Hamas. Chiunque cerchi di valicare il confine lo fa a rischio della sua vita, e la parte che spara al di là del confine sa bene che verrà a sua volta attaccata. È una versione semplificata di una “sovranità in cambio della sicurezza”.

Il confine in sé non garantisce tranquillità. Israele è stato attaccato dall’altra parte dei suoi confini concordati e ha invaso tutti i Paesi limitrofi. Ma il confine fa miracoli per il consenso interno. Durante la seconda Guerra del Libano e l’Operazione Piombo Fuso, l’esercito è tornato in aree che Israele aveva lasciato libere grazie al piano di disimpegno unilaterale. Ma, ancora una volta, se n’è andato. Nessuna discussione seria è stata portata avanti sulla rioccupazione della zona di sicurezza nel Libano meridionale o sulla edificazione, ancora una volta, di Gush Katif (blocco di 17 insediamenti israeliani nel Sud della Striscia di Gaza. Nell'agosto 2005 gli 8.000 residenti furono obbligati a evacuare l'area e le loro case vennero demolite, ndt).

Se un nuovo confine verrà fissato ad est, succederà questo: ogni israeliano saprà dove vive e dove no, e qualsiasi tentativo di strappare un altro dunam (1000 mq, ndt), un’altra collina o un altro vicolo sarà interrotto.

Netanyahu parla oggi di “nuove idee” che sostituiranno la totale separazione e l’evacuazione di ogni colono dall’area consegnata alla Palestina. Queste sono illusioni. Qualsiasi accordo che non sia ermeticamente sigillato e lasci aperture a conflitti per il controllo e la terra non farà che portare ad un altro conflitto. È quanto è accaduto con le aree demilitarizzate nel nord prima della Guerra dei Sei giorni, ed è ciò che sta accadendo oggi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Netanyahu deve portare a compimento il miglior accordo possibile e poi fermarsi lì. Sarà doloroso, ma porterà ordine nelle nostre vite.

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