AFRICA: A ROMA UN CONVEGNO CELEBRA “LA FINE DELLA LUNGA NOTTE COLONIALE”
Tratto da: Adista Notizie n° 86 del 13/11/2010
35854. ROMA-ADISTA. È tempo di bilanci: 50 anni fa, 17 Paesi africani inauguravano la lunga stagione dell’indipendenza dalla colonizzazione europea. A distanza di mezzo secolo, il Continente nero è ancora impantanato dentro gravi paradossi e contraddizioni a livello politico, economico ed ecclesiale. Per ripercorrere, con spirito di verità ma anche di speranza, questi 50 anni, i missionari comboniani, l’agenzia Misna, la Fondazione Nigrizia onlus, il coordinamento di Ong cattoliche Focsiv, la Conferenza degli Istituti missionari in Italia (Cimi) e il mensile dei comboniani Nigrizia, con il patrocinio della Provincia di Roma, hanno promosso – lo scorso 30 ottobre a Roma – il convegno “Africa: l’alba dell’indipendenza”.
Sospirata, amara, indipendenza
In questa giornata di commemorazione, “non ho voluto utilizzare la parola ‘festeggiare’ perché quest’anno in Africa non si sono affatto festeggiate le indipendenze. Anzi, è stata l’ennesima occasione, per i governi e le élite al potere, per fare l’ennesimo banchetto chiuso nei palazzi”, ha ricordato nel suo intervento Jean-Léonard Touadi (docente, saggista, primo parlamentare africano d’Italia, in forza Pd). Eppure, il valore di questa ricorrenza è decisivo e tuttavia incomprensibile “se non si capisce cosa ha significato per quei popoli la fine della lunga notte coloniale”, anche se è vero che “le cose non sono andate come gli africani sognavano”. E si può certo affermare che “il grande sogno dell’indipendenza, in alcuni casi, è diventato per i popoli africani un incubo”, sfociato in nuove e più subdole forme di sudditanza politica, economica e persino culturale.
Usurpazione dello spazio simbolico
“L’alba dell’indipendenza” doveva fare i conti con un pesante fardello: “Tre secoli di schiavitù, in cui l’impianto culturale antropologico europeo ha teorizzato come giusto il fatto che l’uomo potesse essere venduto e comprato”, ha proseguito il parlamentare. “Una storia di sangue, di sudore, di persone strappate dalla loro terra”.
Lo schiavismo è stato “un momento determinante del rapporto tra l’Europa e l’Africa” che non è tramontato, ma è anzi degenerato nella fase storica successiva: “Nella transizione dal capitalismo mercantile alla rivoluzione industriale si segna il passaggio dal regime dello schiavismo al regime della colonizzazione”.
Le due fasi, ha aggiunto Touadi, “hanno un tratto comune che è l’occupazione dello spazio e del tempo africano. C’è un’interruzione di un’esperienza storica millenaria, che affonda le sue radici negli albori della nostra specie umana”. È stata interrotta l’esperienza politica dei Regni africani, che hanno sbalordito gli stessi coloni per abilità amministrative e buon governo. È stata poi interrotta l’esperienza economica “dei modi di produrre e riprodurre la ricchezza, dei modi di rapportarsi alla natura, ai beni materiali che pongono al centro la relazione e la reciprocità”.
In definitiva, secondo Touadi, l’interruzione non riguarda solo “uno spazio materiale (la conquista della terra) ma anche uno spazio mentale, la confisca dell’immaginario simbolico africano, che è la più grande delle depredazioni che l’Europa ha fatto in Africa”.
L’arte del vincere senza avere ragione
La conquista europea si è realizzata, secondo la felice definizione di Cheick Hamidou Kane citata da Touadi, con “l’arte di vincere senza avere ragione”. “La forza dei nuovi venuti non era tanto nella potenza della polvere da sparo”, ha riflettuto Touadi: “Il loro potere era nella scuola, che ‘perennizzava’ la conquista materiale con la conquista delle menti. Con la scuola noi africani abbiamo interiorizzato l’inferiorità e abbiamo accettato le ragioni dell’altro, dell’occupante. Da quel momento è iniziato il processo di allontanamento e forse anche di disprezzo dei nostri popoli, lingue e culture”. Le élite africane che si sono formate alla scuola del conquistatore, ha poi ricordato, sono “come un lievito fuori dalla pasta”, si affermano in totale alienazione rispetto alla propria storia, cosa che “rende impossibile ad un’intera generazione di africani cambiare le cose. Eppure i padri dell’indipendenza ci avevano avvisato. Penso a Aimé Césaire e Senghor, che negli anni ’20 e ’30, dalla diaspora di Parigi, hanno compreso che, se volevamo riprenderci l’autonomia politica, dovevamo passare per un recupero simbolico culturale”. La rigenerazione politica, economica e culturale, ha concluso Touadi, “non poteva non fare i conti con i frammenti sparsi della nostra storia e della nostra identità lacerata”. In definitiva, un processo di “catarsi purificatrice” ancora tutto da compiersi.
La Chiesa dalla conquista alla liberazione
“La Chiesa per e di fronte all’indipendenza” è invece il titolo del contributo di mons. Janvier Yameogo del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali. Nel bene e nel male, ha detto, l’intervento della Chiesa in Africa è stato storicamente determinante. E se è vero che la Chiesa dovrebbe distinguersi sempre e comunque come “un popolo che segue Gesù Cristo accanto ai deboli e agli oppressi e che non rinuncia a promuovere il suo messaggio di libertà, giustizia e pace, di dialogo e confronto”, è vero anche che la nota locuzione “triade delle 3 M” (missionari, militari, mercanti) ci ricorda come “l’impianto della Chiesa in Africa sia andato di pari passo con il processo di colonizzazione” che fu estremamente violento, tanto a livello fisico quanto a livello culturale. A partire dal riconoscimento di questa verità storica, occorre poi ribadire, ha ricordato mons. Yameogo, il ruolo protagonista della Chiesa nel tentativo di restituire speranza al futuro dell’Africa post coloniale.
Ed è con la prima riunione del Secam – il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar, nato grazie all’afflato riformatore del Vaticano II nel 1969, in seguito alla visita di Paolo VI in Uganda – che la Chiesa d’Africa definisce formalmente la propria missione accanto al popolo.
Chiesa in Africa o Chiesa africana?
“La Chiesa d’Africa appartiene agli africani”, ha poi aggiunto mons. Yameogo, inserendosi così nell’annoso dibattito teologico sull’inculturazione della Parola di Dio nel contesto storico e culturale africano: “La Chiesa africana deve crescere senza attendere l’intervento di nessuno”. E così, l’indipendenza è diventata, negli anni, una sfida politica – il tentativo di affrancarsi dal dominio europeo – e una sfida ecclesiale, per l’affermazione di una fede proclamata, celebrata e vissuta nel contesto africano. Una sfida, quella dell’indipendenza teologica ed economica della Chiesa africana, che è lontana da venire, ha concluso: “Purtroppo, oggi più che mai, i cristiani e le Chiese d’Africa dipendono ancora molto dall’Occidente”.
Numeri identici, visioni opposte
“Sono convinto che ancora oggi non ci sia indipendenza per l’Africa, che ancora subisce una forma di colonialismo subdolo e nascosto”, ha denunciato Sergio Marelli, segretario generale della Focsiv, nel suo intervento sul: “Ruolo politico-economico dell’Europa e della Cooperazione”.
Due sono le letture – “strabiche e contrapposte” – che si possono offrire del cammino del Continente, ha detto. La prima concepisce “l’Africa come continente che cresce del 5,9% annuo” ma ‘dimentica’ che partecipa solo per il 2% agli scambi internazionali e che la grande crescita dipende quasi totalmente dall’estrazione dei minerali (l’Africa possiede infatti il 60% dei giacimenti mondiali di platino, il 20% dei giacimenti di tungsteno, il 30% dei giacimenti di cobalto, ecc.), con il corollario delle ingerenze straniere (la Cina in testa), della destabilizzazione delle aree minerarie e dell’economia di guerra che ne consegue e che contribuisce anch’essa ad accrescere il Pil. La seconda lettura, invece, vede “un’Africa che cresce al 5,9%, sempre meno però di quanto l’Onu aveva stimato dovesse crescere per poter affrontare i suoi problemi storici e i suoi drammi sociali (circa il 7%)”. Ecco perché, del miliardo di persone che muoiono di fame, 400 milioni sono in Africa e non vedono alcun miglioramento, cosa che accade invece nei Paesi in forte espansione come Cina e India.
Gli aiuti italiani rispondono ai bisogni. Italiani
Quale destino per la cooperazione internazionale?, si è chiesto Marelli. Ad oggi, c’è molto da riflettere sul fatto che dei 100 miliardi di dollari che dal Nord del mondo arrivano al Sud sotto forma di aiuti, circa 800 miliardi ritornano al Nord come benefici.
Ed è emblematico il caso del Bel Paese. L’Italia infatti ha oggi azzerato i suoi contributi per la cooperazione internazionale però, fino all’anno scorso, “ha sostituito il sostegno solidale con gli affari e il business”. Negli aiuti all’Africa, l’Italia contabilizza anche le spese militari per le cosiddette missioni “di pace”, le borse di studio per gli studenti all’estero e la riduzione del debito. Larga parte dell’aiuto italiano, ha poi commentato, è “vincolato” – concesso cioè a condizione che i Paesi africani lo utilizzino per acquistare beni e servizi presso fornitori italiani – e il capitale è triangolato presso i paradisi fiscali europei (Lussemburgo, Svizzera) dove sono presenti almeno 400 filiali di banche italiane. Ha denunciato Marelli: “La logica dei tagli netti alla cooperazione allo sviluppo italiana e delle operazioni contabili che la camuffano, insieme con la tendenza internazionale alla riduzione di questi aiuti, rientra nel clima politico generale di affidare lo sviluppo alle logiche di sfruttamento del mercato e del grande business, che nascondono spesso solo una nuova forma di colonialismo”. (giampaolo petrucci)
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