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MEDIO ORIENTE: FUORI GLI USA

- Le rivolte in Maghreb disegnano nuovi scenari geopolitici: gli Usa perdenti, emerge la Turchia

Tratto da: Adista Contesti n° 16 del 26/02/2011

Tratto dall’agenzia di informazione latinoamericana Alainet (4 febbraio 2011). Titolo originale: La revuelta árabe y el pensamiento estratégico

Le rivolte in Tunisia ed Egitto, così come quelle che spuntano in altri Paesi della regione, profilano un cambiamento sistemico nelle relazioni internazionali che si può riassumere nella disarticolazione del ruolo degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Medio Oriente.

Nel giugno del 2008 il bollettino mensile del Laboratorio Europeo de Anticipación Política (Leap), avvertiva che i regimi arabi pro-occidentali erano alla deriva e che c’era il «60% di rischio di esplosioni politico-sociali nell’asse Egitto-Marocco». L’analisi metteva l’accento sulle conseguenze della «crisi sistemica globale» per cui i regimi avrebbero incontrato serie difficoltà di fronte a imminenti disordini per la fame e verificava «l’incapacità di Washington e dei suoi alleati europei di portare avanti un discorso che non fosse quello della sicurezza».

Nel focalizzarsi sull’Egitto, il Laboratorio registrava un aumento di instabilità «a causa del ristagnamento politico in cui lo pone la fine del regno di Mubarak, mentre il regime è incapace di soddisfare le speranze economiche e sociali radicalizzate di una parte crescente della popolazione». La conclusione del centro europeo di analisi strategica è impressionante alla luce dei fatti di oggi: «Per i nostri ricercatori, l’Egitto sarà politicamente travolto dalle conseguenze dell’entrata nel nucleo della crisi sistemica globale. L’instabilità sociale prevarrà sulla sicurezza pubblica del regime».

 

Strategia vs divinazione

Il modo in cui si arriva a questo tipo di conclusioni anticipatorie non ha nulla di casuale. Non si tratta di divinazione o di pronostici, perché il futuro non è prevedibile. La questione è più complessa. Si tratta di capire i rapporti di forza, le relazioni di potere, i punti forti e deboli delle relazioni internazionali intese come sistema. Qualcosa di simile al rilevare che i mattoni del muro sono quelli che sostengono la struttura, in modo tale che se vengono tolti o colpiti può venire giù tutta la costruzione, per quanto solida possa sembrare.

Per questo ci vogliono analisi a lungo e corto raggio, diversi punti di vista (politici, economici, sociali e culturali), un insieme completo e complesso di letture che permettano una comprensione globale, tanto qualitativa come quantitativa. Un’analisi sistematica che è realizzata di solito in squadra con la vocazione di comprendere la totalità. I concetti di “crisi sistemica” e di “disarticolazione geopolitica”, che utilizza abitualmente il Leap, appartengono a questo tipo di analisi.

Tuttavia, quando si insiste sul fatto che stiamo attraversando una crisi sistemica non si deve intendere, come succede molte volte, che è il sistema capitalista quello allo stadio terminale. Ciò che si vuole enfatizzare è che il sistema internazionale così come ha funzionato dalla sua ultima grande ristrutturazione, che possiamo fissare al 1945 con la fine della Seconda Guerra mondiale, non continuerà ad esistere per molto. Le analisi sistemiche non precisano la data esatta di questi cambiamenti, ma indicano che si è entrati in una tappa caratterizzata da alcune tendenze di fondo. Per esempio: la crisi dell’egemonia statunitense. Questo significa che gli Stati Uniti non possono più, come hanno fatto per cinque o sei decenni, disegnare da soli la mappa del mondo a proprio piacimento. Ma non significa neanche che spariranno: continueranno a essere una potenza, sicuramente la più importante, ma senza il potere di prima in un mondo multipolare.

Allo stesso modo, quando si assicura che il 2008 fu l’anno in cui è avvenuta questa virata, in realtà sotto il mandato di George W Bush, si tratta di date approssimative, simboliche, che indicano solo punti di flessione.

 

Egitto come punto di flessione

Negli ultimi anni Brecha (settimanale uruguayano, ndt) ha registrato alcuni di questi cambiamenti sistemici. Oltre al declino del potere degli Usa, si è sottolineata la crescita del Bric (Brasile, Russia, India e Cina, cui ora si somma il Sudafrica). Si è anche studiata la virata della Turchia, Paese che sta abbandonando la sfera di influenza di Washington. In ogni caso, la rivolta araba è un svolta importante.

Nel caso dell’Egitto, come sottolinea il giornalista Hossam el-Hamalawy, ciò che stupisce è che l’esplosione non sia avvenuta prima. «Durante gli ultimi anni la rivolta era nell’aria», ha sottolineato in un’intervista diffusa da Al Jazeera il 27 gennaio. Siccome nessuna ribellione cade dal cielo, ha ricordato che nel 2008 ci furono due “mini intifada” in Tunisia e che in Egitto si registrano forti movimenti di sciopero dal dicembre 2006, con epicentro nell’industria tessile della città di Mahalla nel Delta del Nilo. Come conseguenza di questa ondata di scioperi si sono formati due sindacati indipendenti dal regime, gli esattori con 40mila affiliati e quello dei tecnici della salute con 30mila.

Il primo cambiamento di lungo periodo da tenere in considerazione è «il livello di coraggio della gente» che non ha più paura, è diventata protagonista e non sarà semplice tornare a chiuderla in casa. Se non ci sono state sollevazioni prima è perché il regime ha colpito nel segno mettendo in primo piano la lotta al terrorismo per inibire qualsiasi dissenso.

Il secondo cambiamento è che gli Stati Uniti stanno perdendo velocemente i più importanti alleati nella regione. Hanno già perso la Turchia, poi la Tunisia e ora l’Egitto, il Paese che riceve più aiuto dopo Israele. Se concordiamo con Immanuel Wallerstein che stiamo vivendo la seconda ribellione araba (la prima fu nel 1916 per l’indipendenza dall’Impero Ottomano), Washington è la grande sconfitta. Al contrario il grande vincitore è l’Iran. Per curioso che possa apparire, rovesciando Saddam Hussein gli Usa hanno offerto su un piatto d’argento un ruolo importante in Medio Oriente a Teheran, perché il leader iracheno era «il nemico più feroce e più efficace dell’Iran».

La Casa Bianca non ha potuto nascondere la sua mancanza di politica alternativa ai regimi dittatoriali, al di là del celebre discorso di Barack Obama al Cairo il 4 giugno del 2009 che, ironia della storia, si intitolava “Un nuovo inizio”. Hillary Clinton si è limitata a fare appelli generici alla democrazia e alla pace, a chiedere una transizione ordinata senza vuoto di potere, e poco più. Senza sostegno in Egitto, un vero regime cliente, creato e sostenuto con l’aiuto militare e politico, il peso degli Usa in Medio Oriente diminuirà di parecchio.

Ma non solo Washington perde in questa regione. Tutto l’Occidente, e in particolare l’Unione Europea, che riceve petrolio attraverso il canale di Suez, vedrà svanire la sua influenza nelle vie e nelle piazze arabe.

Tutti gli occhi sono puntati sulla Turchia. Lontana da Washington e Tel Aviv, senza arrivare ad allinearsi con l’Iran, si sta ergendo a perno come un esempio da seguire. I futuri governanti del Cairo avranno in Ankara una fonte di ispirazione quasi ineludibile, ogni volta che gli assi del nuovo, e precario, equilibrio nella regione diventeranno sempre più lontani da quei Paesi che sono stati fino ad oggi fedeli alleati dell’ex superpotenza.

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