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Il ritorno al passato della Chiesa di Ratzinger

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 29 del 28/07/2012

L’atteggiamento della Chiesa cattolica sulla questione dei diritti umani mostra in maniera evidente il percorso dell’istituzione ecclesiastica nel confronto con la società in età moderna e contemporanea: opposizione frontale nella fase iniziale – dal 1789 a Pio IX –, anche per contrastare quella modernità che, con la Rivoluzione francese, aveva decretato la fine di quella società cristiana di origine e impronta medievale; forte diffidenza, ma anche cauta apertura di sottili spiragli – per esempio con l’attenzione ai problemi scaturiti dalla questione sociale di fine ‘800 – da Leone XIII a Pio XII, a condizione che alla Chiesa e al papato fosse assicurato il ruolo di “guida morale” del consorzio civile; dialogo con la società e aggiornamento del magistero, al tempo di Giovanni XXIII e della stagione conciliare, sebbene non fino a mettere in atto una svolta decisa e decisiva, ma capace solo di gettare semi di innovazione e di cambiamento mai diventati rivoluzione; infine “ritorno al passato”, con i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che non arrivano a formulare un nuovo Sillabo di condanna assoluta della modernità, ma rivendicano con decisione il primato dell’istituzione ecclesiastica nella direzione della società e ai diritti umani frutto del relativismo sostituiscono i diritti naturali fondati sulla Verità eterna ed immutabile di cui la Chiesa si proclama erede e il papato custode. Nessun tema del resto, più di quello dei diritti umani costituisce una sorta di cartina di tornasole per osservare e valutare la posizione della Chiesa nei confronti della società: i diritti umani sono stati, e sono, il supremo tentativo di costruire un’etica laica, non soggetta ad autorità o verità provenienti dall’esterno, o dall’alto, ma capace di trarre da se stessa i propri presupposti e i propri fondamenti. Per cui aprirsi e collaborare a questa costruzione vuole dire accogliere la società e accettare la laicità; al contrario, manifestare diffidenza e contrapposizione o rivendicare superiorità e primazia significa non accettare fino in fondo la modernità.

È questo lo sviluppo di Chiesa e diritti umani (Il Mulino, Bologna, 2012), saggio di Daniele Menozzi, docente di storia contemporanea alla Normale di Pisa, studioso attento del papato in età moderna e contemporanea, che fissa l’inizio del percorso proprio con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, primo tentativo di attribuire diritti e libertà agli esseri umani in quanto tali e non sulla base di «una norma superiore di origine trascendente» e in ossequio ad una autorità, l’istituzione ecclesiastica, ritenuta «unica detentrice delle eterne leggi iscritte da Dio nella natura». Un testo, quello dell’89 che, falliti i tentativi da parte ecclesiastica di far inserire il nome di Dio nel primo articolo, venne condannato fin da subito: nella bolla Quod Aliquantum del 1791, papa «Pio VI osservava che “ritenere tutti gli uomini uguali e liberi” costituiva non solo un atto contrario alla ragione, ma anche alla dottrina cattolica», mettendo di fatto in contrapposizione cattolicesimo e diritti umani, «così come erano stati enunciati dall’Assemblea nazionale».

Con Leone XIII, un secolo dopo, i primi aggiustamenti, dettati dalla necessità di riportare dentro la storia – in cui avevano fatto irruzione le masse e i partiti socialisti – una Chiesa che frattanto Pio IX aveva separato e trasformato in “cittadella assediata” dalla modernità e dai suoi errori, solennemente condannati nel Sillabo: diritti e libertà – scrive nell’enciclica Libertas (1888) – si possono tollerare «dentro certi limiti». Ma tali limiti, spiega Menozzi, «non potevano essere fissati dagli uomini», perché risiedevano «in quella eterna, universale e immutabile legge naturale che preesisteva a ogni umana elaborazione giuridica in quanto era stata stabilita da Dio e di cui la Chiesa era l’unica guardiana». Tuttavia la Chiesa di Leone XIII non si limitava a fissare dei paletti, ma anche, con la Rerum novarum, la prima enciclica sociale (1891), a stabilire dei diritti «che dovevano essere posti a base di un assetto della società in grado di affrontare e risolvere i mali provocati dalle tumultuose trasformazioni indotte dalla rivoluzione industriale»: «Diritti naturali di tipo economico», a cominciare da quello alla proprietà privata messo in discussione dai socialisti massimalisti, individuati con la convinzione che «obbedendo alla legge evangelica si sarebbe risolto definitivamente il problema della convivenza sociale». C’era, al fondo, sebbene optando per una strategia diversa dalla contrapposizione frontale, la volontà di ribadire comunque «il controllo ecclesiastico sulla vita collettiva».

Una linea, fedele alla tradizione dell’intransigentismo, perseguita anche dai papi delle guerre mondiali, Pio XI e Pio XII, e applicata alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Falliti i tentativi – come già nel 1789 – di inserire un riferimento a Dio o alla «natura» nel primo articolo, il testo delle Nazioni Unite non venne scomunicato, ma guardato con diffidenza: condannata la scelta di “espellere Dio” dalla Carta («L’ostracismo a Dio», scriverà l’Osservatore Romano), p. Antonio Messineo sulla La Civiltà Cattolica «ribadiva che il fondamentale criterio della vita collettiva era costituito dalla legge naturale», incisa da Dio «nel cuore dell’uomo e discernibile al lume della retta ragione», illuminata e guidata dal magistero ecclesiastico.

Con Giovanni XXIII e la Pacem in Terris la «svolta», in parte animata dalla convinzione che il sostegno alla difesa dei diritti umani poteva essere usato in chiave anticomunista: Roncalli, scrive Menozzi, sosteneva «che la Dichiarazione universale delle Nazioni Unite costituiva un punto di riferimento essenziale per tutelare la dignità della persona umana nel mondo contemporaneo». Si trattava di un «effettivo elemento di novità», tuttavia viziato da un’ambiguità di fondo: secondo il pontefice, la Dichiarazione del ‘48, sebbene senza formalizzarlo, non faceva altro che riconoscere e tradurre quei diritti della persona iscritti da Dio nella legge naturale, correttamente interpretata dalla Chiesa. Ambiguità che caratterizzerà sia il Concilio Vaticano II (lo Stato moderno «non si presentava più come un nemico contro cui lottare», anche «perché si poteva riconoscere che alcuni dei suoi valori e dei suoi principi erano in fondo principi e valori cristiani», sintetizza l’autore l’intervento di Giovanni XXIII nell’allocuzione di apertura del Concilio); sia il pontificato di Paolo VI e che, secondo Menozzi, non solo non ha consentito di archiviare definitivamente il passato, ma anzi di riportarlo in auge, soprattutto nell’ultimo trentennio: per Giovanni Paolo II, la Dichiarazione del ‘48 è solo una «approssimazione al corretto assetto della organizzazione collettiva», se orientata dalla direzione ecclesiastica, e gli stessi Stati democratici occidentali sono qualificati come «totalitari» se ignorano le indicazioni ecclesiastiche e recepiscono negli ordinamenti «diritti contrari alla natura», come eutanasia e aborto; per Benedetto XVI, che individua nel «relativismo» il principale nemico, «la Chiesa, custode e interprete della legge naturale, impressa da Dio nel cuore degli uomini, svolge una funzione non solo utile, ma indispensabile, all’organizzazione di una società ordinata, felice, prospera». È il rilancio del progetto di Leone XIII: «La rivendicazione del possesso della legge naturale diventa la via con cui la Chiesa, facendo appello a un criterio regolatore di carattere universale, apparentemente non confessionale», tende però «ad assumere una funzione direttiva sull’umanità intera». Un “ritorno al passato” che, secondo Menozzi, ha le sue radici nella «debolezza, l’insufficienza e l’inadeguatezza» della «svolta» di Roncalli e del Concilio. Oggi «abbondano le voci di chi celebra apologeticamente quella svolta e di chi ne nega pregiudizialmente la portata», ma il punto è che «la pur reale volontà di apertura della Chiesa al mondo contemporaneo non si è compiutamente tradotta in un appoggio agli strumenti che un lungo e tormentato percorso storico aveva prodotto per regolare la convivenza civile. La spiegazione dell’invasivo ritorno della Chiesa alla legge naturale a danno dei diritti umani sta, in fondo, anche nelle carenze di un ambiguo aggiornamento ecclesiale, in cui la rivendicazione del possesso della verità sul bene comune del consorzio civile si è intrecciata con la tendenza a immergersi pienamente nella storia degli uomini, senza però riuscire a superare l’eredità della tradizione intransigente».

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