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Non è una crisi, è una rapina. L’“Altra Economia” al centro dell’Agenda Latinoamericana 2013

Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 03/11/2012

DOC-2479. ROMA-ADISTA. Se l’argomento non è (per fortuna) nuovo, la sua importanza si rivela però sempre più drammaticamente evidente: scegliendo «l’Altra Economia» come tema per il 2013, l’Agenda Latinoamericana - opera aconfessionale, ecumenica e macroecumenica ideata da Pedro Casaldáliga e José Maria Vigil nel solco dell’educazione popolare liberatrice dell’America Latina intesa come continente spirituale (www.latinoamericana.org) - prende nettamente posizione rispetto alla crisi finanziaria globale. E lo fa con la consapevolezza che in realtà, come recita uno degli slogan del movimento internazionale degli Indignati, «questa non è una crisi, è una rapina»: una profonda «ristrutturazione economica del mondo finanziario planetario» - evidenzia Vigil nella sua presentazione - tale da porre «tutto, come mai prima d’ora, al servizio del capitale e dell’economia». Troppo «semplice, ingenuo e neutro, quanto impunemente di copertura» è infatti, secondo Vigil, il termine “crisi”: ciò che sta succedendo, piuttosto, è che qualcuno, l’1% dell’umanità, «sta riuscendo intenzionalmente a ridisegnare il mondo in funzione dei propri interessi» e lo sta facendo a fronte della rassegnazione e dell’apatia di buona parte del restante 99%. Trasformare questa passività «in presa di coscienza, in utopia e in speranza militante» è allora, secondo Vigil, «l’urgenza di quest’ora», un’urgenza che l’Agenda Latinoamericana non può fare a meno di raccogliere, portando avanti la sua missione di «promuovere cambiamenti di coscienza», di «aiutare a cambiare il nostro software, la nostra visione», affinché produca le nuove pratiche dell’«altra economia». Cioè, sottolinea la scrittrice argentina Claudia Korol, di un’economia «di uomini e donne “nella” natura e non di dominatori della natura». Un’economia, evidenzia don Pedro Casaldáliga nella sua tradizionale “Introduzione fraterna”, «veramente altra, radicalmente alternativa» -  integrale, ecologica, interculturale -, molto al di là di riforme più o meno importanti. «Dai riformismi a buon mercato - afferma - ci liberi il Dio della Vita».

Di motivi per indignarsi ce ne sono d’avanzo: l’1% della popolazione controlla circa il 40% della ricchezza mondiale; i redditi delle 500 persone più ricche del pianeta sono superiori a quelli dei 416 milioni più poveri; un miliardo di persone sopravvive con il 4% della ricchezza mondiale. Del resto,  proprio mentre la Fao comunicava che la fame colpisce un miliardo di persone e che sarebbero necessari 30 miliardi annui di dollari per sradicarla, «l’azione concertata di sei Banche centrali -  sottolinea l’economista cilenoManfred Max-Neef - iniettava 180 miliardi di dollari nei mercati finanziari per salvare le banche private», a cui poi si sono aggiunti, per decisione del Senato Usa, prima 700 miliardi, poi altri 850, e così via fino ad arrivare a 17 trilioni. 17 trilioni che, divisi per i 30 miliardi annui invocati dalla Fao, darebbero come risultato un mondo senza fame per 600 anni.

E se in questo quadro si spiegano facilmente la protesta degli indignati spagnoli, la rivolta greca, le rivoluzioni arabe, il movimento Occupy Wall Street, la scrittrice cubano-nicaraguense María López Vigil avverte comunque che, «se c’indigniamo solo per ciò che prima avevamo e ora non abbiamo più o ci hanno sottratto, o perché ciò cui aspiravamo non potrà più esistere, potremmo forse restare fermi a metà strada». Tanto più che, come ammonisce il presidente del Sal Luca Pandolfi mettendo in guardia da facili ipocrisie, «in fondo non è “la crisi” il problema. Il problema è quando la crisi avvolge anche noi», quando «l’idea del “si salvi chi può” prevale sull’evidenza dell’essere tutti “sulla stessa barca”». Al contrario, afferma ancora María López Vigil, «ci dobbiamo indignare per la nostra dignità sminuita o non riconosciuta. E per quella degli altri mai riconosciuta»; contro «i pochi che hanno molto, e per questo non possono vivere come fratelli» e a favore «dei moltissimi che non hanno niente, e per questo non possono vivere come esseri umani». 

Ma come procedere verso un’altra economia? Se, come afferma l’economista catalano Josep Manel Busqueta, il nodo centrale è quello del superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione secondo diverse modalità di proprietà collettiva (statale, comunale, comunitaria, cooperativa), fin da subito è possibile «presentare proposte pratiche che permettano di procedere verso questa società differente», facendo delle varie forme esistenti di proprietà comune - quelli che il teologo Jung Mo Sung chiama «sottosistemi economici non-capitalisti» - dei «laboratori destinati a dimostrare che è possibile un’altra forma di proprietà», rompendo così, dice ancora Mo Sung, la logica di un unico principio organizzatore dell’economia». È quanto afferma anche Claudia Korol a proposito di movimenti come quello delle fabbriche autogestite: «La somma di queste e di altre iniziative comunitarie di convivenza con la natura», sostiene, non tende tanto a costituirsi come modello alternativo quanto a servire da ispirazione per il superamento dell’attuale “ordine” mondiale».

In che direzione? Quella, necessariamente, di un nuovo paradigma di civiltà, che tuttavia si articola in differenti posizioni, ognuna con la sua specificità, ma tutte accomunate dal rifiuto dello sviluppo convenzionale e dalla difesa di un’altra relazione con la Natura. Ecco allora il buen vivir dei popoli andini, inteso come una buona qualità della vita per tutti i viventi in un rapporto di profonda armonia con la Madre Terra e secondo un modello di vita comunitaria e di lavoro collettivo. Un concetto che segna un enorme passo avanti nel cammino che settori tradizionalmente subalterni, quando non condannati all’invisibilità, hanno percorso in direzione di una vera decolonizzazione del pensiero. Ed ecco ancora, per altri, l’ecosocialismo, la cui necessità obiettiva, sottolinea lo scrittore spagnolo Jorge Riechmann, «non è mai stata tanto grande come lo è oggi», in un momento in cui «stiamo sporgendoci sul baratro di un collasso di civiltà». Di certo, afferma, la natura intrinsecamente espansiva del capitalismo - quando non c’è espansione il sistema entra in crisi - urta necessariamente contro i limiti di una biosfera finita: si tratta, in questo senso, di una «macchina infernale», non potendo il sistema crescere senza devastare l’ambiente e non potendo non crescere senza devastare la società. Di fronte all’impossibilità di rispondere al cambiamento climatico sulla base di ciò che risulta politicamente fattibile nel quadro di un’economia di mercato - i tagli alle emissioni di anidride carbonica causano una riduzione della crescita economica su cui si basa tale sistema -, non rimane allora che «sottomettere l’economia ai criteri della sostenibilità e della giustizia». Promuovere cioè, come evidenzia François Houtart, una ridefinizione del Bene Comune dell’Umanità, nella convinzione che non basti procedere ad una riforma delle istituzioni internazionali esistenti, né creare nuove istituzioni di regolamentazione, ma che sia necessario «un cambiamento degli orientamenti fondamentali del paradigma dello sviluppo umano», sulla base di quattro elementi centrali: una relazione di rispetto nei confronti della Madre Terra; la priorità del valore d’uso sul valore di scambio; la democratizzazione di tutte le istituzioni e di tutte le relazioni sociali e l’interculturalità. 

Di seguito, due degli oltre 35 contributi dell’Agenda: l’Introduzione fraterna di Pedro Casaldáliga e la riflessione di Jon Sobrino (l’Agenda, la cui edizione italiana è curata dal Gruppo America Latina della Comunità Sant’Angelo, da Adista e dal Sal, può essere richiesta ad Adista, tel. 06/68801924, e-mail: abbonamenti@adista.it, oppure acquistata online sul sito www.adista.it). (claudia fanti)

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