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Se questo è lavoro. I devastanti effetti collaterali del “libero” mercato

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 15/06/2013

DOC-2532. DACCA-ADISTA. Lo chiamano lavoro: ore e ore in una fabbrica sporca e senza aria, senza un momento di pausa, senza un solo giorno di ferie, neppure per piangere la morte di un familiare. La chiamano vita: lavorare senza interruzioni sotto stretta vigilanza, senza neppure la libertà di andare in bagno, a volte subendo persino percosse, per salari miserabili e pagati in ritardo, appena quanto basta per affittare una stanza per una famiglia intera. Per poi, magari, lasciarci la vita, in quella fabbrica, divorati dalle fiamme o sepolti dalle macerie, per il crollo di un palazzo costruito abusivamente. Così va in Bangladesh (e non solo) il lavoro, la vita e la morte. Il lavoro, la vita e la morte al tempo del mercato globale, dove, per esempio, grandi gruppi della moda come Benetton o Mango si riforniscono da fabbriche di abbigliamento come quelle del Rana Plaza, l'edificio fatiscente di otto piani nella cittadina di Savar, vicina a Dacca, nel cui crollo, il 24 aprile scorso, hanno perso la vita 1.127 persone.

L’ennesima tragedia industriale, di poco seguita a quella del 24 novembre 2012, quando 112 persone morirono tra le fiamme per l’incendio divampato nella fabbrica Tazree. Qualche reazione, da parte dei marchi internazionali, c’è stata, come evidenzia la campagna Clean Clothes Campaign esprimendo apprezzamento per l’accordo sulla sicurezza (l'Accord on Fire and Building Safety) sottoscritto in Bangladesh dai gruppi della moda allo scopo di prevenire nuove tragedie. Ma non è sufficiente: nessuna impresa – sottolinea la campagna – può sottrarsi alla responsabilità di fornire sostegno finanziario immediato e risarcimento pieno ed equo a lungo termine alle vittime, «secondo un processo trasparente e concordato basato sugli standard internazionali, coprendo la perdita di guadagni immediati e i danni subiti, le cure mediche, la riabilitazione e le spese dell'istruzione dei figli dei lavoratori e delle lavoratrici deceduti». E se sono sette, ha informato la campagna, le imprese che si sono impegnate ad attivare qualche forma di contributo economico per i lavoratori (Primark, El Corte Ingles, Loblaw, PVT, Matalan, Benetton e Premier Clothing), «la maggior parte delle famiglie dei deceduti nel Rana Plaza non ha ancora ricevuto alcun supporto economico. Né le vittime del Rana Plaza, né quelle della Tazreen hanno alcuna garanzia che tali sostegni arriveranno, pur essendo questo un diritto previsto dagli standard dell'Organizzazione Internazionale del lavoro». Di seguito, il racconto, pubblicato da Spiegel Online International, di una sopravvissuta al crollo del Rana Plaza, la 27enne Mushamat Sokina Begum, estratta dalle macerie dopo tre ore con una gamba ferita. (claudia fanti)

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