Per mordere al collo la storia
Tratto da: Adista Documenti n° 3 del 25/01/2014
Compagni e compagne,
quasi 20 anni fa, ci svegliammo con la notizia che gli indigeni maya dello Stato del Chiapas si erano sollevati in armi contro il malgoverno dell’ineffabile Carlos Salinas de Gortari. (…).
L’insurrezione zapatista del 1° gennaio aveva scosso la coscienza nazionale. Come disse infatti José Emilio Pacheco, «avevamo chiuso gli occhi pensando che, se non l’avessimo guardato, l’altro Messico sarebbe sparito. Il 1° gennaio del 1994 ci siamo svegliati in un altro Paese. Il giorno in cui avremmo festeggiato il nostro ingresso nel Primo Mondo siamo tornati indietro di un secolo (…). Credevamo e volevamo essere nordamericani e ci ha travolto il nostro destino centroamericano. Il sangue versato chiede di porre fine al massacro. Non si può fermare la violenza dei ribelli, se non si ferma la violenza degli oppressori» (La Jornada, 5 gennaio 1994).
La sinistra messicana e mondiale in quel momento si trovava in un apparente vicolo cieco. L’11 novembre 1989 cominciano a cadere, come birilli, le cosiddette “democrazie popolari” (Repubblica Democratica Tedesca, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Polonia, Romania, Albania). Nel 1991 si “dissolve” l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e, al di là di ciò che ognuno di noi può pensare di quel processo, il suo crollo spiana la strada a un capitalismo selvaggio guidato dalla mafia criminale.
In America Latina, il 25 febbraio del 1990, i sandinisti perdono le elezioni e non solo inizia un processo di spoliazione contro i contadini nicaraguensi (…), ma si sviluppa anche una dinamica di corruzione tra i dirigenti sandinisti. (…).
Il 16 gennaio 1992 si firmano gli accordi di Chapultepec che mettono fine alla guerra in El Salvador, ma lasciando inascoltate rivendicazioni centrali del popolo, a cominciare dal diritto alla terra. (…).
In mezzo all’euforia anticomunista e ai proclami sulla fine della storia e sull’avvento di un nuovo ordine mondiale, (…) Eduardo Galeano scrive un testo memorabile: «A Bucarest, una gru porta via la statua di Lenin. A Mosca, una folla avida fa la coda da McDonald’s. L’abominevole muro di Berlino si vende a pezzi e Berlino Est conferma di trovarsi a destra di Berlino Ovest. A Varsavia e a Budapest, i ministri economici parlano come Margaret Thatcher. A Pechino anche, mentre i carri armati schiacciano gli studenti. Il Partito Comunista Italiano, il più importante in Occidente, annuncia il suo suicidio. Si riducono gli aiuti sovietici all’Etiopia ed il colonnello Menghistu scopre improvvisamente che il capitalismo è buono. I sandinisti, protagonisti della rivoluzione più bella del mondo, perdono le elezioni: cade la rivoluzione in Nicaragua, titolano i giornali. Sembra non esserci più posto per le rivoluzioni, se non nelle vetrine del Museo Archeologico, né per la sinistra, salvo che per la sinistra pentita che accetta di sedersi alla destra dei banchieri. Siamo tutti invitati al funerale mondiale del socialismo. Il corteo funebre include, come dicono, l’umanità intera. Confesso di non crederci. Questi funerali hanno sbagliato morto» (El niño perdido a la intemperie).
L’insurrezione zapatista del 1° gennaio dà avvio a un nuovo ciclo di scontri sociali. (…). Il pensiero libertario zapatista apre un grande buco nell’edificio ideologico apparentemente solido del potere del capitale, permettendo che da lì si esprimano vecchie buone idee e nuove buone idee. (…).
Né il governo e i partiti di destra, né la sinistra e i settori democratici avevano la minima idea che sarebbe successo qualcosa di simile. Sapevamo del rancore che covava, ma non pensavamo che avrebbe potuto esprimersi in quel modo. (…).
Il 1° gennaio fu una boccata d’aria fresca. Uscimmo per le strade non solo per chiedere al governo di fermare la guerra, ma per evidenziare come tutti i proclami sulla fine della storia fossero vuoti discorsi ideologici.
L’idea che non tutto fosse perduto fu la chiave per comprendere come, alla fine, quella ribellione non fosse altro che una crepa attraverso cui si poteva vedere che c’erano ancora molte lotte da combattere. Che la storia non solo non era finita, ma c’erano, ancora, una/molte pagine in bianco.
Ora possiamo aggiungere che, per noi, l’insurrezione zapatista non (…) rischia di essere inghiottita dal carattere onnivoro del capitalismo. Che, malgrado i tentativi dei mezzi di comunicazione, lo zapatismo non fa parte della società dello spettacolo.
Lo zapatismo è un processo effettivamente ricco di momenti luminosi, ma, prima di tutto, un processo ininterrotto di lotte, azioni, esperienze che, concatenate tra loro, hanno costituito una nuova pratica della sinistra dal basso.
Dunque, malgrado commentatori e analisti (…) abbiano tante volte dato per morto lo zapatismo, questo non solo è andato avanti, ma ha continuato a generare nuovi processi sociali. All’interno, con lo sviluppo dell’autonomia (autentico processo di auto-organizzazione senza confronti nella storia, perlomeno in maniera così profonda e prolungata) e la costruzione di nuove relazioni sociali, cioè, di nuove forme di vita. E, verso l’esterno, non cercando di egemonizzare o omogeneizzare né di dirigere altri movimenti sociali. Schierandosi sempre dalla parte dei perseguitati, disprezzati e offesi, soprattutto dei più perseguitati, disprezzati e offesi. In funzione non della difesa astratta della patria o della nazione, ma degli esseri umani che, vivendo in basso e ancora più in basso, sono ritenuti prescindibili o carne da macello (…). Quegli esseri umani che sono l’essenza fondamentale della patria o della nazione.
Se qualcuno domandasse a uno zapatista “Quali sono stati i tuoi anni migliori?”, egli risponderebbe: “Quelli che verranno”. Perché alcune delle cose più importanti mostrate dallo zapatismo sono la sua permanente volontà di lotta, la sua capacità organizzativa e la sua convinzione – malgrado tutto, malgrado perfino l’incomprensione di molti/e – che vinceremo.
Se la ribellione zapatista – di cui vogliamo essere complici – non è una data, né un compleanno, né un avvenimento, né qualcosa di pietrificato, dogmatico o compiuto, è allora qualcosa che si prepara, si costruisce, si consolida ogni giorno. (…).
Molta acqua è passata sotto i ponti dal 1° gennaio 1994. E molti gli attacchi dei signori del denaro, della classe politica e dei suoi palafrenieri, “intellettuali” da strapazzo arruolati fin dal primo giorno per una missione impossibile: denigrare con una certa credibilità i popoli zapatisti e il loro esercito. (…).
L’impulso vitale che veniva dal basso è stato ascoltato e compreso solo da una parte della sinistra messicana. Quella che non soffre di torcicollo a forza di tenere la testa sempre rivolta verso l’alto, anelando a un potere che (…) non esiste più, è un ologramma.
Quanto a noi, fedeli al progetto ribelle dell’Altra Sinistra, abbiamo deciso, seguendo l’esempio dei popoli zapatisti, di restare in basso e a sinistra. Ostinati nel costruire un’altra realtà, in cui i meccanismi comunitari di auto-organizzazione siano il motore delle trasformazioni pratiche e teoriche. Accanto a chi vive nei sotterranei e ai piani bassi del palazzo capitalista. (…).
CONTRO LA TENTAZIONE DELL’EGEMONIA E DELL’OMOGENEITÀ
In questo processo in cui “l’educatore deve essere educato”, riapprendere è stato fondamentale.
Naturalmente, la strada non è stata facile. Molti paradigmi del pensiero di sinistra sono stati messi in discussione: l’idea di un’avanguardia che guida dall’esterno il movimento sociale; l’idea che la teoria sia un’esclusiva dei pensatori universitari; l’idea che la classe operaia sia l’unica classe rivoluzionaria; l’idea che l’importante, nel concetto di lotta di classe, sia il secondo elemento e non il primo; l’idea che la diversità e le differenze siano un ostacolo per la lotta comune; l’idea che lo Stato sia l’unico strumento utile per cambiare in maniera duratura le condizioni di vita e l’organizzazione sociale del popolo; l’idea che si lotti per una rivoluzione socialista a cui firmare un assegno in bianco, lasciando da parte le cosiddette lotte minoritarie (di indigeni, donne, omosessuali, lesbiche, punk, ecc.); l’idea della sinistra – anch’essa con il suo pensiero unico – che chi non sposa la sua visione è un nemico.
Di fronte a questa crisi di paradigmi abbiamo cominciato a costruire un pensiero molto altro, superando, per prima cosa, la convinzione che la politica sia un compito che possano svolgere solo gli specialisti. (…).
Un po’ alla volta abbiamo scoperto che esiste un’altra teoria: quella che nasce all’interno dei veri movimenti (…). Che è lì nelle comunità, nelle periferie, negli ejidos, nei villaggi, laddove le persone iniziano a riflettere su cosa significhi prendere in mano il proprio destino e, da qui, elaborare una teoria prodotta da loro stesse. (…). Sono i clandestini e le clandestine della politica, senza ruoli né titoli universitari, a costruire, già da molti anni, la vera teoria politica. (…).
Si impara ad ascoltare solo quando si tace. Sarà possibile che, dopo tanti anni passati a parlare, la sinistra sia in grado di tacere e ascoltare? Le voci che vengono dal basso, anche se di pochi decibel, sono chiare e nitide. È solo questione di chinarsi un po’ e di prestare attenzione.
Ci accorgeremo allora che, dal profondo della società messicana, come un fiume, stanno sgorgando idee e pensieri come quelli che oggi emergono dalla Escuelita Zapatista. Se aguzziamo l’udito, dovremo riconoscere che sì, è vero, le nuove generazioni di zapatisti sono molto più lucide e capaci di quelle che si sollevarono in armi. Le molteplici voci delle basi di appoggio dell’esercito zapatista ci confermano che il suo capo militare e portavoce, malgrado i suoi sforzi, è riuscito a trasmetterci solo un pallido riflesso di quanto stava accadendo in territorio zapatista.
La ricchezza di questa esperienza ci ha fornito nuovi strumenti pratici e teorici. È nostra responsabilità usarli perché diano frutto. Sappiamo che non è stato facile, e che il successo è lontano, ma ci stiamo provando, ci stiamo provando davvero. E oggi possiamo dire che siamo qua. Che non ci arrendiamo, che non ci vendiamo, che non rinneghiamo. (…).
Facciamo nostre le parole da voi pronunciate al festival della Digna Rabia: «Permettetemi di raccontarvi questo: L’Ezln ebbe la tentazione dell’egemonia e dell’omogeneità. Non solo dopo l’insurrezione, ma anche prima. La tentazione di imporre modi e identità. Di pensare che lo zapatismo fosse l’unica verità. Furono le comunità a impedirlo, insegnandoci poi che non è così, che non si fa così. Che non potevamo sostituire un dominio con un altro e che dovevamo convincere e non vincere chi era ed è come noi ma non è noi. Ci insegnarono che ci sono molti mondi e che è possibile e necessario il mutuo rispetto… (…)». (Stralci del discorso del Subcomandante Insurgente Marcos: “Sette venti nei calendari e geografie del basso”). (…).
E POI FARÀ GIORNO
(…). Ogni volta che un uomo, una donna, un bambino o un anziano delle basi di appoggio zapatiste parla della sua lotta, della sua autonomia, della sua resistenza, c’è una parola che si ripete con insistenza: organizzazione. Ma come arrivarci? Il problema non si risolve utilizzando la parola come una specie di “apriti sesamo” buona per tutto.
Neppure si può semplicemente adottare come modello quello che loro stessi ci dicono non essere un modello. (…). Se respingiamo il pensiero unico della destra, è impossibile pensare ora di introdurre una specie di pensiero unico della sinistra dal basso.
Si tratta invece di imparare dalle esperienze quotidiane che viviamo. Esperienze che, per quanto simili, non saranno mai uguali. Ma c’è qualcosa che ci permette di orientarci in questo tortuoso cammino?
Sì, molte cose, secondo noi.
Schierarci sempre dalla parte dei condannati della terra.
Non guardare in alto, ma nemmeno in basso. Cercare sempre di lanciare sguardi di complicità ai lati, lì dove siamo, in basso.
Privilegiare l’ascolto al discorso. Dare l’opportunità a chi sta in basso di parlare e dirci quello che sa.
Considerare inevitabili, da parte del potere e dei suoi media, i linciaggi contro (…) i ribelli.
Sfuggire alla tentazione di guidare i movimenti. (…).
Rispettare le forme organizzative di ognuno, benché ci sembrino tortuose e disperatamente lente. Ognuno a modo suo.
Non inseguire le congiunture imposte dall’alto, bensì lavorare per creare le nostre proprie congiunture. (…).
Lavorare e costruire nella diversità. Generando spazi abitabili in cui le donne non siano vessate per il semplice fatto di essere donne. In cui si accettino i diversi orientamenti sessuali. In cui non si imponga né una religione né l’ateismo. In cui si promuova l’incontro dei diversi. (…).
Il punto è che, come dice qualcuno, se la storia ci morde il collo, dobbiamo voltarci e mordere il collo alla storia. Il tutto con grande serenità e pazienza. (…).
Nelle parole pronunciate dai compagni e dalle compagne dell’Ezln durante il festival della Digna Rabia, troviamo il punto fondamentale di quella che sarebbe la nuova buona notizia: sì, è vero che il popolo unito non sarà mai vinto, ma solo nella misura in cui sarà nella diversità che si costruirà il grande Noi di cui hanno bisogno questo Paese e il mondo intero.
Da parte nostra, infine, vogliamo affermare che dal 1° gennaio del 1994 abbiamo deciso che il nostro futuro è a fianco delle nostre sorelle e dei nostri fratelli zapatisti. (…).
Per costruire non un cammino unico e senza ostacoli, ma una strada in cui si possano incontrare molti altri e altre senza dire loro: “Venite qua, è questa è la via giusta”. Perché, dopo venti anni, stiamo imparando che il cammino si fa camminando, nell’azione e non in dibattiti teorici senza radici pratiche. (…).
Per questo, noi, ribelli e insubordinati, esprimiamo la volontà di camminare insieme agli zapatisti e il desiderio di essere vostri compagni e compagne. Vi assicuriamo che ce la metteremo tutta e che, effettivamente, nella lunga notte che è stato quello che qualcuno chiama giorno, prima o poi «la notte sarà il giorno che sarà il giorno».
Fuori non è più notte… già si vede l’orizzonte.
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