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Transnazionali in guerra per il controllo del pianeta. Ma c’è chi resiste

Tratto da: Adista Documenti n° 29 del 02/08/2014

DOC-2641. ROMA-ADISTA. O si cambia o si muore. Affacciata sul baratro di un collasso di civiltà, l’umanità è chiamata, per non soccombere, ad arrestare la macchina infernale dell’attuale modello di sviluppo, quella per cui il sistema non può crescere senza devastare l’ambiente (a causa dei limiti biofisici del pianeta) e non può non crescere senza devastare la società (a causa della natura intrinsecamente espansiva del capitalismo). Di fronte a questa sfida, come scrivono, in un manifesto significativamente intitolato “Ultima chiamata”, circa 250 scienziati, intellettuali, politici e militanti spagnoli, non bastano neppure le invocate ricette del capitalismo keynesiano (non essendo più praticabile, a fronte dei limiti della biosfera, un nuovo ciclo di espansione), né la mera opzione per tecnologie ecoefficienti: per costruire «una nuova civiltà in grado di assicurare una vita degna a un’enorme popolazione umana», servono «cambiamenti radicali nei modi di vita, nelle forme di produzione, nel disegno delle città e nell’organizzazione territoriale, e soprattutto nei valori che guidano tutto questo». Tutto, però, dipenderà dalla capacità di superare due enormi ostacoli sulla strada verso questa «Grande Trasformazione»: l’accanimento con cui l’1% della popolazione mondiale si aggrappa ai propri privilegi e la rassegnazione e l’apatia di buona parte del restante 99%. E quanto enorme sia la portata di tali ostacoli lo evidenzia bene Jaume Grau sul suo blog “El azar y la necesidad” (blogs.publico.es/el-azar-y-la-necesidad, 8/7), spiegando come sia illusorio, per chi conosce la natura umana, invocare cambiamenti radicali, per quanto necessari e urgenti questi possano apparire: «Purtroppo – scrive – ci sono solo due vie per ottenere un cambiamento radicale a scala planetaria. Una è che si verifichi una catastrofe di dimensioni bibliche, l’altra è che venga imposto con la forza. Scartata per principi democratici la seconda opzione, bisognerà aspettare pazientemente che si materializzi la prima. Se la conclusione del manifesto è che solo un cambiamento radicale può salvarci e i firmatari hanno ragione, allora siamo definitivamente perduti». 

Sul dibattito interviene anche Antonio Duato (Atrio, 10/7), ponendo la questione di cosa intanto si possa fare, «mentre aspettiamo la grande catastrofe». E risponde: «Lottare perlomeno per evitare catastrofi più limitate», affrontando punti chiave del sistema, come, per esempio, quello rappresentato dal Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (Ttip) che, scrive Duato, Unione Europea e Stati Uniti stanno negoziando con riservatezza assoluta e trasparenza zero (v. Adista Documenti nn. 7 e 17/14 e Adista Segni nuovi n. 26/14) nel segno della più pesante deregolamentazione, permettendo così alle multinazionali di sfruttare e distruggere il territorio europeo. E se nel Vecchio continente in molti si stanno attivando contro il Trattato (come, in Italia, la campagna Stop Ttip), esistono, a livello mondiale, altre iniziative mirate a ridimensionare il potere delle grandi imprese, la più importante delle quali sembra quella promossa dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (v. Adista Notizie n. 34/13), che, in una storica risoluzione approvata il 26 giugno scorso - malgrado la manifesta ostilità degli Stati Uniti (e dei loro vassalli europei) e la sconcertante astensione di Brasile e Argentina -, ha stabilito la creazione di un gruppo intergovernativo incaricato di «elaborare uno strumento internazionale legalmente vincolante per regolamentare, sulla base del Diritto Internazionale relativo ai diritti umani, le attività delle imprese transnazionali». 

Un’esigenza, quella di un nuovo quadro giuridico di regolamentazione dell’operato delle imprese, espressa da un gran numero di movimenti sociali di tutto il pianeta, vincolati alla Campagna Dismantle Corporate Power (di cui fanno parte, tra molti altri, Friends of the Earth International, Vía Campesina, il Transnational Institute, il Forum Mondiale delle Alternative, la Marcia Mondiale delle Donne), le cui idee e proposte si sono tradotte nell’elaborazione di un “Trattato dei popoli per il controllo delle imprese transnazionali” (che si può leggere in spagnolo all’indirizzo alainet.org/active/75015). Ed è un’esigenza sollevata da lungo tempo anche dal Tribunale Permanente dei Popoli, nato nel 1979, sulla scia dei Tribunali Russell sul Vietnam (1966-1967) e sulle dittature latinoamericane (1974-1976), con l’obiettivo di sostenere le lotte dei popoli contro tutto lo spettro di violazioni dei diritti fondamentali. Riunito a Ginevra nella sessione del 23 giugno, proprio mentre i Paesi membri del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dibattevano sulla risoluzione presentata da Ecuador e Sudafrica, il Tribunale, dopo aver analizzato dodici casi relativi alla condotta delle transnazionali nei settori dello sfruttamento minerario, dell’estrazione petrolifera e dell’acqua, ha condannato l’operato delle imprese, il sostegno a queste prestato dai Paesi dell’Unione Europea in cui hanno la loro sede e la protezione di cui tali imprese godono negli Stati in cui sono presenti, grazie a un quadro legale e istituzionale che permette loro la violazione dei diritti umani. E ha, conseguentemente, raccomandato l’adozione di un codice di condotta vincolante per le transnazionali e la definizione di un’architettura istituzionale che ne assicuri l’applicazione (la Dichiarazione finale del Tribunale Permanente dei Popoli può essere letta all’indirizzo alainet.org/active/74939). 

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, il commento del sociologo Atilio Boron sulla storica risoluzione del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu (www.atilioboron.com.ar), seguito dall’appello degli intellettuali e dei militanti spagnoli “Ultima chiamata”. (claudia fanti)

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