Una tragedia americana
Tratto da: Adista Notizie n° 3 del 21/01/2017
“Una tragedia americana”: così, parafrasando Dreiser, titolava un autorevole quotidiano il giorno dopo la vittoria di Donald Trump, quando gli Stati Uniti e il mondo si sono ritrovati attoniti a guardar accadere l’inimmaginabile. E questa è l’angolatura da cui aspettare l’avvicinarsi inesorabile del nuovo corso. La figura di Obama, che pure si era più volte offuscata nell’incapacità o impossibilità di rispondere ai sogni del grande Victory Speech, grandeggia nell’addio, accanto a quella ormai carismatica di Michelle. Lascia al Paese e al mondo la convinzione che un tentativo è stato fatto (“Yes, we did”) ma anche l’amara consapevolezza che tutto quello che si è riusciti a costruire – anche se parziale (Guantanamo ancora lì col suo orrore) – subirà un attacco radicale. Fino a che punto? Fino a che punto si spingerà il nuovo presidente, che tutto potrebbe con la sua maggioranza blindata? È questa la domanda. La sua rozzezza, la violenza contro tutto ciò che è definibile “altro”, la sua volgarità potranno davvero tradursi senza mediazioni in atti di governo? È a rischio la democrazia, è il messaggio di Obama. Non sarà fascismo, dicono i commentatori più noti, ma potrebbe delinearsi l’inizio di un percorso verso qualcosa di molto simile. Spaventano infatti di Trump anche l’ignoranza e l’inesperienza politica, che potrebbero diventare inconsapevolezza della gravità delle decisioni. E la disinvoltura ad affermare quanto un minuto dopo ribalta. Oltre alla tendenza quasi ossessiva a insultare, a umiliare chiunque capiti, fino ai servizi di sicurezza.
Come ha potuto vincere un personaggio di levatura così bassa e così pericoloso? “Magnate prestato alla politica”, con l’immediatezza grossolana, familistica, falso-amicale del suo approccio pubblico si pone come “uno di noi”, si collega agli istinti più pesanti, parla alla working class, lui che ha un patrimonio stimato oltre 4 miliardi di dollari. Le sue palesi, ripetute, disinvolte bugie diventano verità per l’opinione pubblica non incline a ragionamenti complessi. E promette posti di lavoro quasi fosse Dio stesso, da ottenere con ricatti protezionistici. Interno al mondo delle energie tradizionali, ha denigrato la coscienza ecologica, privilegiando le ragioni dello sviluppo selvaggio. La sua campagna si è giovata della paura, dell’ansia dei ceti socio-economicamente più esposti intercettandone subdolamente le frustrazioni e la rabbia. Basta rispetto dei diritti degli “altri”, basta rispetto dell’ambiente. Massimo sfruttamento economico delle risorse per (illudersi di) uscire dalla crisi. Il “maschio bianco” culturalmente non evoluto può rifarsi, specchiandosi nell’aggressività di Trump, della mai digerita presidenza di un nero, e si esalta sentendosi promettere – ma lo farà davvero? – un muro al confine col Messico, e a spese di quest’ultimo, per “fermare” gli immigrati. E questo razzismo francamente dichiarato ha attratto nonostante tutto anche voti femminili.
Ma molto deve riflettere anche il Partito democratico. Il voto a Trump è un voto anti-establishment: il “palazzo” è lontano dalla gente, e non è sentito dalla parte di chi soffre la crisi. Si poteva osare Sanders? Aveva infiammato le università, e gli studenti erano lanciati verso una grande campagna dal basso. Si sarebbe perso comunque, ma con dignità, dicono molti.
Che resta da fare? Non lasciarsi abbattere, non lasciar andare gli eventi, perché dietro l’angolo può esserci il baratro. Reagire, ricostruendo con pazienza la politica.
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