
“Alla tua discendenza io darò questa terra”
Tratto da: Adista Documenti n° 20 del 27/05/2017
(Per l'articolo di presentazione di questo intervento clicca qui)
Introduzione
(…). La terra in Mozambico vive un'agonia profonda! Ci giunge, ogni giorno, la preoccupazione e la disillusione di tante comunità cristiane e non cristiane che affrontano conflitti per la terra che mettono in pericolo la loro sicurezza alimentare e la stabilità familiare e sociale.
D'altro lato, a due anni dalla pubblicazione dell'enciclica Laudato si' di papa Francesco sulla cura della casa comune, vogliamo con questa lettera pastorale richiamare alcuni suoi aspetti in relazione al contesto del nostro Paese. (…). Da essa possiamo trarre grande giovamento per l'interpretazione dell'attualità mozambicana e per definire concretamente cosa significhi la cura della casa comune. Tale rilettura ci condurrà a rivedere alcuni dei nostri atteggiamenti nei confronti degli altri, della terra e, al di sopra di tutto, di Dio, Nostro Signore.
Per questo vogliamo appellarci ai differenti attori della nostra vita sociale, politica, economica e religiosa affinché, insieme, si persegua il meglio per il Paese e per coloro che lo abitano.
Come annunciatori del Vangelo, intendiamo trasmettere un messaggio di speranza radicato nella realtà, nella fede e nell'ideale di fraternità. Come pastori della Chiesa cattolica, vogliamo essere la voce di molte migliaia di cittadini mozambicani. Come voce dei più fragili, ci faremo eco dei loro diritti e delle loro giuste aspirazioni. Come eredi della terra-madre, ci impegniamo a difenderla, a nome nostro e di quello delle generazioni che verranno.
II. La questione della terra
La Costituzione della Repubblica del Mozambico del 2004, all'art. 109, recita: «1. La terra è proprietà dello Stato. 2. La terra non può essere venduta, o alienata in qualunque altra forma, né ipotecata o pignorata. 3. Come strumento universale di creazione di ricchezza e di benessere sociale, l'uso e il godimento delle terre è diritto di tutto il popolo mozambicano».
Oggi la situazione interna e la congiuntura internazionale derivanti dalla domanda di materie prime, fonti energetiche e terre coltivabili a basso costo provocano un processo di vendita delle terre sotto gli occhi di tutti, autorità comprese. (…). Tale processo è aggravato dalla fame smisurata di terra per fini legati all'agribusiness, all'estrazione e allo sfruttamento delle risorse minerarie, alla produzione di agrocombustibili e alla realizzazione di mega-progetti le cui intenzioni, in molti casi, sono poco chiare.
Si calcola che, dal 2000 al 2013, 56 milioni di ettari di terra africana siano stati venduti o ceduti a stranieri. E questo indica come le imprese e i governi dei Paesi industrializzati cerchino in Africa la risposta alla crisi energetica e alimentare dei propri Paesi, piuttosto che contribuire alla soluzione dei problemi degli africani e dei mozambicani. Inoltre, come ha ammonito assai bene papa Francesco, i Paesi dell'emisfero Nord dovrebbero iniziare a saldare il “debito ecologico” contratto con i Paesi dell'emisfero sud.
Di tutti i Paesi africani, il nostro è uno dei più ambiti da parte delle imprese e dei Paesi stranieri in questi ultimi anni. Di fatto, l'investimento diretto estero in Mozambico è aumentato rapidamente nell'ultimo periodo. Secondo la Banca Nazionale del Mozambico, nel 2013, siamo stati il terzo Paese di destinazione dell'IDE (Investimento Diretto Estero) in Africa. Negli ultimi anni il Mozambico ha venduto o ceduto per progetti di agribusiness 535.539 ettari a imprese straniere. (…). Nel 2009 si è svolta un'iniziativa della Banca Mondiale, la Nuova Alleanza per la Sicurezza Alimentare e Nutrizionale del G8, diretta ad aprire il Mozambico a progetti di agribusiness su grande scala. (...).
La terra in Mozambico sta diventando una fonte di problemi, principalmente per le comunità locali dipendenti dalla terra per la sopravvivenza (...). Il disconoscimento dei diritti e dei doveri porta le comunità ad abbandonare le loro terre a favore degli investitori pubblico-privati. Nel quadro di queste politiche, molti dei nostri fratelli contadini sono “invitati” (e obbligati) a passare da un'agricoltura familiare all'impiego presso imprese straniere (...). Ma poiché la tecnologia dell'agribusiness non richiede molta manodopera, la promessa di lavoro funziona solo come meccanismo di persuasione affinché le famiglie contadine cedano i loro campi agli investitori senza proteste né resistenze. D'altro lato, l'agribusiness non ha come scopo quello di rifornire la popolazione locale, ma è finalizzato alle esportazioni, cosicché il contadino è destinato a rimanere senza terra, senza lavoro e senza cibo, che poi dovrà acquistare a prezzo di mercato.
(…). D'altra parte, il modello economico in vigore nel Paese ha un carattere sempre più nettamente capitalista-consumista. L'economia neoliberista e la globalizzazione ci spingono a consumare sempre più prodotti di cui finora non avevamo bisogno e che sostituiscono quelli tradizionali. Peggio ancora: il consumo di massa significa produzione di massa, e questa significa esaurimento rapido delle risorse naturali non rinnovabili. (…). Questo modelo di sviluppo non ci sta aiutando a proteggere e curare la terra, la nostra casa comune. Nelle parole lapidarie di papa Francisco, «questa economia uccide».
Non possiamo inoltre dimenticare che per i mozambicani la terra appartiene, tradizionalmente, a un antenato. La relazione con la terra e il territorio non è semplicemente funzionale: è, letteralmente, una relazione vitale, in quanto ci unisce agli antenati, ci offre una storia e ci radica nella vita. La terra, il territorio, la natura sono la garanzia della vita della famiglia e della comunità. Chiedere a una famiglia di lasciare la terra è chiederle di tagliare la sua storia e di abbandonare gli antenati. D'altro lato, occorre ricordare che il 70% del nostro popolo vive in ambito rurale, in contatto permanente con la natura e la terra, da cui dipende per le sue necessità vitali. Per questo, tutte le letture materialiste, consumiste e predatorie nei confronti della natura in generale e, concretamente, della terra offendono la cultura e la tradizione del nostro popolo. La terra fa parte del patrimonio materiale e immateriale a cui i mozambicani si sentono interiormente vincolati.
Il problema del nostro Paese, in questo momento, è l'assenza di una ecologia integrale e di un modello di sviluppo che rispetti l'integrazione di tutti, particolarmente dei più fragili. Da un lato, sono tante le grida della natura che non vogliamo ascoltare: da dove vengono la siccità prolungata e le piene distruttive? Da dove nasce l'assenza di acqua potabile nei campi e nelle città? Qual è l'origine delle nuove malattie respiratorie e cardiache? Qual è la relazione tra la distruzione delle foreste e le alterazioni climatiche? Tra la scarsità d'acqua e l'aumento del prezzo degli alimenti? Tra l'usufrutto della terra, i mega-progetti e la lotta alla povertà assoluta? (…). Dall'altro lato, la conversione ecologica che tardiamo a realizzare ci porta a ignorare o disprezzare il clamore del popolo e soprattutto il clamore dei poveri: «Tanto l'esperienza comune della vita quotidiana quanto la ricerca scientifica dimostrano che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali ricadono sulle persone più povere» (cfr. Conferenza Episcopale della Bolivia, Lettera pastorale L'universo, dono di Dio per la vita, 2012). E realmente l'anello più debole nella catena della sopravvivenza alle aggressioni sono i più poveri: perché non sono informati sui loro diritti; perché non sono in grado di farsi ascoltare; perché non dispongono del potere economico necessario per trovare soluzioni alternative; perché ignorano la propria capacità di mobilitazione (…). Sintetizza papa Francesco: «Queste situazioni provocano i gemiti di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta. Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli. (…). Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future. Si rende indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia» (LS, 53).
In sintesi, il problema della terra non è un problema isolato o limitato all'aspetto economico. È una questione sociale, culturale e religiosa. Non possiamo lavorare per la pace senza provvedere alla natura e alla giustizia sociale. Non possiamo abituarci alla distruzione del lavoro dignitoso, allo sgombero delle famiglie, all'allontamento dei contadini e agli abusi nei confronti della natura. Per questo, come ha affermato papa Francesco nell'ultimo incontro con i movimenti popolari, è necessario assumere alcuni compiti imprescindibili per un'alternativa umana alla globalizzazione dell'indifferenza: 1º) porre l'economia al servizio dei popoli; 2º) costruire la pace e la giustizia; 3º) difendere la Madre Terra.
III. La Parola di Dio illumina la terra
La Bibbia insegna che la più antica promessa di Dio al suo popolo, attraverso Abramo, si riassume in questo modo: «Alla tua discendenza io darò questa terra» (Gn, 12,7). Queste parole risuonano nel nostro cuore: la terra non è nostra, è un dono, un'eredità che abbiamo ricevuto e la migliore eredità che lasceremo alle prossime generazioni. (…). E poiché la terra non ci appartiene, ma è un dono di Dio, essa non può essere venduta; è inalienabile. «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lev 25,23). Da qui la legge dell'anno sabbatico e, più tardi, dell'anno giubilare. (…). Ogni 50 anni si realizzava una specie di Riforma Agraria con cui si distribuiva nuovamente la terra in maniera equa tra persone riscattate dalla schiavitù. (…).
I profeti biblici si distinguevano come coscienza di Dio in mezzo al popolo, denunciando, in suo nome, gli abusi di potere. Il profeta Elia denuncia re Acab quando questi accetta di uccidere il contadino Nabot per sottrargli la terra (1 Rs 21). La risposta di Nabot al re quando questi lo sollecita a vendere la sua terra – «Mi guardi il Signore dal cederti l'eredità dei miei padri» (1 Rs 21,3) – può riportarci alla memoria la sofferenza di tanti fratelli a cui viene sottratta indiscriminatamente la terra. (…).
Isaia, nel Regno del Sud (Giudea), osserva come i dirigenti del popolo rompessero l'alleanza provocando povertà e miseria nel popolo. Dopo aver cantato il canto della vigna, il profeta lancia una serie di ammonimenti in cui il peccato del latifondo appare al primo posto: «Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nel paese» (Is 5,8).
Il profeta Michea era contadino. Egli denuncia con duro realismo l'usurpazione di terre che stavano realizzando i nuovi ricchi: «Guai a coloro che meditano l'iniquità e tramano il male sui loro giacigli; alla luce dell'alba lo compiono, perché in mano loro è il potere. Sono avidi di campi e li usurpano, di case, e se le prendono. Così opprimono l'uomo e la sua casa, il proprietario e la sua eredità» (Mic 2,1). I profeti associano e identificano l'usurpazione di terre e l'accumulazione di ricchezze in poche mani con l'idolatria e la rottura dell'alleanza: hanno smesso di essere il suo popolo, il Popolo di Dio. (…).
Gesù denuncia l'avidità e il pericolo delle ricchezze. Così, quando una persona viene da lui per sollecitarne l'intervento presso il fratello affinché condivida l'eredità, Gesù non entra nel merito, ma presenta la parabola del ricco stolto: «E disse loro: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni”. Disse poi una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,13-21).
La predicazione di Gesù, centrata sul regno di Dio, è rivolta alla conversione teologica, non solo morale, invitando a smettere di adorare gli idoli della ricchezza (...), per adorare il Padre di tutti che ci rende fratelli e figli liberi, in Gesù. Di fatto, l'esperienza della prima comunità cristiana era la condivisione dei beni: vendevano proprietà e beni e distribuivano il ricavato tra tutti, secondo la necessità di ciascuno (At 2,45; 4,34). (…).
IV. La Chiesa cammina sulla terra
La terra è la nostra casa comune, e tutti siamo fratelli. Per questo, di fronte ai problemi che sorgono intorno alla terra, la Chiesa non può né deve restare ai margini della lotta per la giustizia. (…). I Padri della Chiesa parlavano chiaro (…). «Non è del tuo avere – affermava sant’Ambrogio – che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». (…). Dio ha destinato la terra con tutto ciò che essa contiene per l'uso di tutti gli esseri umani e di tutti i popoli, di modo che i beni creati devono giungere equamente nelle mani di tutti, secondo giustizia, accompagnata dalla carità.
La tradizione della Chiesa ha sempre difeso il diritto alla proprietà privata, di tutti. Ma non ha mai riconosciuto questo diritto come assoluto e intoccabile, indipendente dalle circostanze. La terra è stata data a tutti e i frutti della terra devono beneficiare tutti. Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, conseguentemente, il diritto universale al suo uso è una «regola d'oro» del comportamento sociale e il «primo principio di tutto l'ordine etico-sociale». (…).
In questo senso, è importante prendere consapevolezza che l'accesso alla terra è negato da un sistema economico (…) strutturalmente perverso che pone il lucro, il profitto delle imprese, al di sopra del bene comune e del diritto alla terra da parte delle comunità. Come ricorda papa Francesco nella sua enciclica: «Le economie di scala, specialmente nel settore agricolo, finiscono per costringere i piccoli agricoltori a vendere le loro terre o ad abbandonare le loro coltivazioni tradizionali» (LS n. 129). In molte regioni, in seguito all'introduzione dell'agribusiness, si constata una concentrazione di terre produttive nelle mani di pochi, a causa della progressiva scomparsa dei piccoli produttori, i quali, a causa della perdita delle terre coltivate, si sono visti obbligati a ritirarsi dalla produzione diretta, emigrando di conseguenza in città, dove vivono in condizioni miserabili.
In particolare, il papa richiama l'attenzione sul necessario rispetto nei confronti delle comunità e delle loro tradizioni agricole. «In questo senso, è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli o di allevamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura» (LS, n. 146).
V. La terra spera in noi
Dio si attende da noi la costruzione di un Paese in cui tutti possano vivere come figli e fratelli. (…). Dobbiamo unire tutti i settori della società nella costruzione del Paese che vogliamo.
Per questo, dobbiamo tracciare linee di azione nella nostra vita personale, sociale, economica e politica che contribuiscano a rendere la nostra terra più abitabile e la nostra convivenza più fraterna.
(…). Non dobbiamo accettare una società la cui economia sia centrata sull'idolatria del denaro. Non collaboriamo con un'economia che uccide. Cerchiamo di consumare i prodotti locali coltivati dai nostri agricoltori, dai nostri abitanti. Non dobbiamo accettare un modello di vita consumista. Non dobbiamo accettare di assistere alla distruzione massiccia di foreste, piante e animali.
Prendiamoci cura delle relazioni con i nostri fretelli e sorelle e con la tutta la creazione. Impariamo a rispettare, curare, proteggere la vita in tutte le sue fasi e in tutti i sensi. (…).
Educhiamo le nuove generazioni ai valori, non solo alle competenze. In effetti, possiamo formare tecnici, ingegneri, medici, possiamo impegnarci in politica, ma se non arriviamo ad avere compassione, empatia, solidarietà, se non cooperiamo tra di noi, se non abbiamo senso di giustizia, non riusciremo a prestare attenzione a ciò che ci circonda. Oggi dobbiamo riconoscere che un vero approccio alla terra presuppone un approccio sociale ed economico, tale da integrare la giustizia e la nozione di sviluppo (cfr. Papa Francesco, LS, n. 49).
VI. La terra esige la nostra conversione
Rivolgiamo un appello a tutti i cristiani: non restate ciechi e sordi di fronte alla realtà sociale, politica ed economica del Paese, combattete il “si salvi chi può” con un atteggiamento cosciente di solidarietà umana e cristiana. Organizzate in tutte le diocesi corsi di formazione sulla Dottrina Sociale della Chiesa per aiutare i laici a rispondere alla loro missione. (…).
Ci appelliamo ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose che vivono accanto al popolo e ne conoscono le sofferenze e le necessità: abbiate maggiormente il coraggio di identificare situazioni di ingiustizia nei confronti dei contadini e di operare in loro difesa perché è la fedeltà alla nostra consacrazione al Dio della Vita che è in gioco.
Ai mezzi di comunicazione sociale: informate con amore per la verità. Siate portavoce del popolo e amplificatori delle sue preoccupazioni e non lasciate che vi costringano a ingannarlo con mezze verità. (…).
Agli educatori e agli studenti: approfondite le conoscenze sul suolo, sull'acqua, sull'aria, sugli esseri viventi; celebrate pubblicamente le giornate dedicate alla cura della natura; lanciate l'allarme sulle cause e sulle conseguenze delle alterazioni climatiche (...); lottate contro ogni tipo di inquinamento; promuovete azioni a favore della pulizia delle strade, dei villaggi e dei quartieri; lottate per un'educazione che non sia solo istruzione, ma che sia anche rivolta ai valori e ai comportamenti.
E rivolgiamo in particolare un appello ai laici cristiani che lavorano nel mondo della politica: che le loro azioni siano rispettose dell'umanità. (…). Vi esortiamo ad adorare il Signore in questo servizio, non un partito o un'ideologia, che è una forma di idolatria. È un dovere cristiano formarvi nella Dottrina Sociale della Chiesa per lavorare con responsabilità ed etica, evitando qualunque forma di corruzione in questa missione così importante e delicata.
Non possiamo nemmeno dimenticare gli imprenditori (…): vi chiediamo di porre al centro della vostra attività il bene comune, non solamente il guadagno personale. È possibile e necessario realizzare un'economia del bene comune.
Nel 2025 celebreremo i 50 anni della nostra indipendenza. Il modo migliore di celebrarla potrebbe essere quello di dare via a una effettiva Riforma Agraria per correggere l'impatto negativo delle attuali politiche agrarie sulle comunità rurali e su tutto il Paese. Ancor più, potrebbe essere una riforma agraria e sociale che riconciliasse tutti i mozambicani come membri di uno stesso popolo e di una stessa Nazione, liberati dall'oppressione dei colonizzatori, e che permettesse la distribuzione equa delle ricchezze concesse da Dio al Mozambico a beneficio di tutti.
In effetti, «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale» (Ls, 139). Vorremmo poter celebrare i 50 anni di indipendenza del Mozambico in un ambiente di pace, fraternità e armonia sociale e ambientale. Per questo siamo tutti chiamati, già da ora, a impegnarci per costruire le condizioni necessarie. (…).
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