
"Carta dell'impegno per un mondo disarmato". Dal confronto tra donne impegnate per la pace in molte città italiane
La "Carta delll'impegno per un mondo disarmato" (qui e qui)ha un sottotitolo: "tessere la pace, custodire il futuro". Parole di donne. Questa carta, infatti, «nasce dal confronto tra donne impegnate per la pace in molte città italiane», si legge nella breve parte introduttiva, «una presa di posizione collettiva che raccoglie pratiche e pensieri femministi, strumenti per pensare il presente a partire da una politica del disarmo, della cura e della giustizia».
Il documento sarà presentato sabato 11 Ottobre 2025 alle ore 16.30 nella Sala della Fondazione Sant’Anna, viale Roma 15, Perugia, in occasione della partecipazione di "10 - 100 - 1000 piazze di donne per la pace alla marcia Perugia-Assisi".
Di seguito il testo integrale della "Carta".
1. La guerra: forma estrema del patriarcato
Le guerre che devastano il mondo non sono un'anomalia, ma la conseguenza ultima di un sistema patriarcale che
legittima la violenza come linguaggio e il dominio come unica forma di potere.
Ogni guerra devasta corpi, popoli, territori, animali e ambienti; non distrugge solo vite, ma la possibilità stessa della vita
sulla Terra. In questi anni anche i soli conflitti a Gaza e in Ucraina hanno generato impatti ambientali devastanti: milioni
di tonnellate di CO₂ emesse in pochi mesi, inquinamento persistente da esplosivi e macerie, distruzione di infrastrutture
civili con conseguenze ecologiche a lungo termine. In entrambi i casi, il danno ambientale si somma al disastro
umanitario, aggravando la crisi climatica globale.
Oggi il sistema patriarcale che per millenni ha realizzato il “progresso”, utilizzando anche i mezzi più brutali, sembra
giunto al collasso e i dispositivi che gli uomini si sono dati per regolare, temperare la logica della forza, non reggono più.
La guerra non è inevitabile: sono i governi, gli eserciti, le industrie belliche a volerla. «Non è il destino o una legge
naturale a condannarci alla guerra», scriveva Rosa Luxemburg dal carcere nel 1917, «sono i padroni della terra, i potenti
che, per difendere i loro profitti e il loro dominio, mandano milioni al macello. Ma noi abbiamo la forza di opporci, se
solo ci uniamo.»
2. La differenza femminista nella critica della guerra
La nostra critica non si limita alla condanna dei conflitti armati: * sottolineiamo la continuità tra patriarcato e guerra,
visibile nella volontà di controllo e annientamento dell’altro e - in forma radicale - dell’altra, come testimoniano lo
stupro praticato come arma e i regimi che fondano il proprio potere sul dominio dei corpi femminili, in Iran come in
Afghanistan; * denunciamo la volontà di sopraffazione in tutte le sue forme e l’alleanza tra poteri armati ed economie
predatrici; * smascheriamo la mascolinità militarizzata e l’uso della forza travestita da difesa.
Già Virginia Woolf, nel secolo scorso, aveva svelato il legame tra potere, privilegio maschile e violenza armata
riconoscendo alle donne la capacità di immaginare civiltà fondate su altri valori.
Nel 2003, Leymah Gbowee (premio Nobel per la pace nel 2011) ha dato vita in Liberia a un movimento per la pace
capace di unire donne cristiane e musulmane in una lotta nonviolenta: preghiera, sciopero del sesso, occupazione degli
spazi pubblici. Un esempio potente di dissenso incarnato, attivo, collettivo, radicato nei corpi e nelle relazioni.
A partire dagli anni ’90 del XX secolo, gli studi di Heide Göttner-Abendroth sulle società matriarcali hanno mostrato che
la guerra non è un destino inevitabile: comunità senza gerarchie né dominazioni di genere, basate su valori come il
prendersi cura, il nutrimento, la mediazione, la nonviolenza - valori universali, per chi è madre e per chi non lo è, cioè
per tutti gli esseri umani - costituiscono oggi un esempio concreto di convivenza pacifica e dimostrano come l’estraneità
storica delle donne alla guerra possa diventare strumento di trasformazione e giustizia.
È a queste parole, pratiche e visioni che ci ispiriamo: forme di pensiero e immaginazione politica di donne che hanno
saputo sottrarsi alle logiche della violenza, e che continuano a offrire orientamento e pensiero per percorsi di pace,
giustizia e trasformazione.
3. Disarmare il sistema
L’industria bellica, l’export di armi e la militarizzazione dei territori costituiscono il cuore stesso di un’economia della
distruzione. In questo sistema i corpi delle persone vengono ridotti a strumenti da sfruttare o sacrificare a fini economici
e militari, i territori diventano scenari di occupazione, le vite semplici numeri calcolabili. A sostenerne la legittimità
intervengono narrazioni distorte della sicurezza che normalizzano la violenza e occultano le responsabilità politiche.
Oggi la guerra a distanza e le armi guidate dall’intelligenza artificiale interpretano in pieno questa logica. Appaiono
pulite, precise, chirurgiche, ma invece riducono il controllo umano, il coinvolgimento critico e la responsabilità
individuale, attenuano la percezione delle sofferenze inflitte e rendono ancora più difficile immaginare soluzioni di pace.
Disarmare il sistema certamente significa fermare la produzione e il commercio di armi, interrompere la corsa al riarmo,
sottrarre risorse alla guerra per restituirle alla vita; si tratta però di condizioni necessarie ma non sufficienti. Disarmare il
sistema infatti è disarmare anche le menti; * è disinnescare le logiche di potere, i linguaggi, le immagini, le economie e
i gesti che legittimano il conflitto; * è decostruire i discorsi dominanti, che chiamano “pace” l’occupazione, “sicurezza”
il controllo, “giustizia” la punizione; * è restituire alla giustizia un corpo vivo, capace di cura, di riparazione, di
trasformazione; * è mettere al centro la vita, la nascita, non la morte, la relazione non la competizione, la libertà non il
dominio, la pace come giustizia attiva.
4. Pace: un modo diverso di stare al mondo
La pace non è assenza temporanea di guerra, né ritorno a un ordine imposto. Non è accordo tra poteri né semplice
tregua tra forze.
È un modo diverso di stare al mondo: parola, riconoscimento, possibilità. È relazione, responsabilità, costruzione di
convivenze. È pratica quotidiana.
Come femministe non ci limitiamo a desiderare la pace né a proclamarla in forma astratta: la coltiviamo ogni giorno nei
nostri percorsi politici e umani, intrecciandola alle nostre lotte e alla nostra visione del mondo.
Il nostro pacifismo non è neutro né disincarnato, ma una pratica politica che nasce dal rifiuto attivo della violenza, della
sopraffazione, dell’annientamento dell’altra/o.
Conosciamo il dolore, la paura, l’angoscia della guerra dai racconti delle nostre madri e dalle storie che attraversano i
nostri corpi. Li affrontiamo con la capacità della cura e della resilienza: vivere il dolore e la forza di continuare è una
competenza politica che ci appartiene.
Scegliamo di stare con tutte le vittime, senza distinzioni. Non ci schieriamo davanti alla morte, al terrore, al lutto, alla
distruzione dei luoghi della vita.
La costruzione della pace è una sfida storica, che richiede impegno collettivo e responsabilità verso l’altra/o.
Si realizza nel riconoscimento della pluralità e nella trasformazione delle differenze in occasioni di relazione (Hannah
Arendt); si nutre di rapporti giusti e compassionevoli (María Zambrano); si fonda su un’etica del radicamento, della
giustizia sociale e del riconoscimento della dignità (Simone Weil).
Siamo consapevoli che non tutte le vite vengono trattate allo stesso modo: alcune sono riconosciute come “vite che
contano”, altre invece “non meritano il lutto” - sono quelle che non si conformano alla «norma occidentale dell’umano»
(Judith Butler), e le vite palestinesi ne rappresentano oggi l’esempio più evidente. Smascherare la gerarchia delle vite è
parte del nostro impegno politico per la pace che richiede coscienza critica, capacità di nominare la violenza, di
attraversare il conflitto senza riprodurre logiche di dominio e di interrompere la spirale di aggressione, vendetta e
sopraffazione.
5. Costruire una grammatica della pace
Il linguaggio bellico permea notizie, leggi, discorsi. Alimenta l’idea che la guerra sia inevitabile, necessaria, legittima.
Rivendichiamo una grammatica della pace, una grammatica della relazione, non della sopraffazione: parole che
costruiscono senso, raccontano la vita, nominano l’ingiustizia, aprono immaginari.
La parola è politica, a partire da quella delle nostre madri simboliche che hanno “scolpito” il termine PACE con il
pensiero, l’arte, la vita. Custodire e tramandare queste parole è già un gesto di trasformazione, perché è proprio da loro
che abbiamo imparato a immaginare un'altra posizione: non neutra, non armata, non competitiva.
Per questo, riteniamo centrale il ruolo dell’educazione. Non si tratta di addestrare alla convivenza, ma di educare alla
libertà intesa non come assenza di limiti, ma quale possibilità di scegliere e agire responsabilmente: una pratica e una
postura che implica non l’assenza del conflitto, ma la capacità di attraversarlo senza cancellare l’altra/o. Maria
Montessori ricordava che la pace comincia proprio da un ambiente che favorisce libertà, autonomia e cooperazione.
Solo così, a partire dall’infanzia, la pace diventa pratica concreta e le bambine e i bambini cresciuti in questo modo
potranno essere veri «missionari della pace nel mondo».
6. Per una diplomazia incarnata
Crediamo nella mediazione, nel dialogo, nella possibilità di percorsi alternativi al dominio e alla violenza.
Rivendichiamo la forza politica dell’ascolto e la necessità di relazioni internazionali fondate sulla coesistenza, non sulla
sopraffazione e l’annientamento dell’altro.
Rifiutiamo una diplomazia basata sul ricatto geopolitico, sull’asimmetria, sull’uso della forza come leva negoziale.
Sosteniamo una diplomazia capace di riconoscere le soggettività, di ascoltare, di elaborare soluzioni condivise.
Le Donne in Nero lo dimostrano da decenni: donne israeliane in solidarietà con le palestinesi, poi donne serbe con
croate, bosniache e kosovare. La loro protesta silenziosa ma radicale ha trasformato la memoria in presenza viva e si è
estesa a molti altri luoghi del mondo, dimostrando che resistenza e solidarietà non hanno confini.
Ancora oggi in Medio Oriente, le donne israeliane di Women Wage Peace e le palestinesi di Women of the Sun rifiutano
la logica della vendetta e dell’odio e provano a tracciare insieme una via concreta per uscire dalla spirale della
contrapposizione mortale.
Non basta tuttavia invocare una maggiore presenza femminile ai tavoli delle trattative: è necessario che le donne che vi
siedono sappiano rompere con l’orizzonte simbolico maschile e con il linguaggio della forza, sappiano «approfittare
dell’assenza» (Carla Lonzi) delle donne da millenni di storia per attingere all’esperienza storica femminile di cura e
responsabilità verso la vita, condizione necessaria per aprire nuovi spazi e nuove modalità di pensiero e di
trasformazione del conflitto. Essere state fuori dalla storia è oggi un vantaggio per le donne che vogliono entrarci non
per essere incluse, ma per trasformarla.
7. Disertare l’odio: per una politica femminista e nonviolenta della relazione
Nel cuore di ogni guerra si annida una pedagogia dell’odio: un addestramento alla disumanizzazione, che insegna a
cancellare l’altro/a.
Da quasi due anni a Gaza il popolo palestinese affronta un'escalation di violenza genocida che ha raggiunto livelli di
disumanità inauditi, plasmando le fondamenta simboliche e affettive del mondo che verrà. L’odio si espande come unica
grammatica relazionale possibile, imposta e interiorizzata. In questo senso, Gaza è specchio e laboratorio di un ordine
globale in cui la violenza di Stato diventa infrastruttura emotiva e politica del presente.
Ma Gaza non è un’eccezione: i conflitti armati africani - dal Sudan al Sahel, dalla Repubblica Democratica del Congo alla
Somalia - continuano nell’indifferenza mediatica, mentre l’Occidente vi è complice e attore diretto, con basi militari,
forniture di armi, sfruttamento minerario e accordi che alimentano instabilità e massacri. Questi conflitti, pur lontani
dalle prime pagine, sono parte integrante dello stesso meccanismo globale di violenza e profitto.
Per questo disertare l’odio è un atto radicale di responsabilità politica. Significa rompere l’automatismo tra offesa e
risposta armata, tra paura e annientamento, tra vulnerabilità e dominio. Non è disimpegno: è scelta attiva, relazionale,
che si oppone alla coazione a ripetere della violenza e apre ad altre possibilità.
Dalla nostra esperienza femminista abbiamo imparato a decostruire le retoriche della forza e della sicurezza, a
riconoscere la vulnerabilità come fondamento dell’umano, a trasformare la cura in gesto politico.
Rifiutare la guerra - che si svolga a Gaza, in Ucraina, in Africa o lungo i confini blindati dell’Occidente - significa per noi
rifiutare anche le violenze sistemiche contro gli immigrati, le stragi in mare, l’espulsione dei poveri dal campo del
vivente. Sono facce diverse dello stesso sistema patriarcale, coloniale e capitalista che si nutre di esclusione, paura e
morte. Per questo, è urgente rilanciare un’etica della vita, dell’amore e della giustizia, da far vivere ogni giorno come
pratica attiva di opposizione.
La diserzione non è rinuncia, ma atto di renitenza verso l’obbligo di addestrarsi alla logica del togliere la vita, un rifiuto
che si colloca nel solco delle più alte tradizioni di resistenza civile. È rottura consapevole dell’incantesimo della
violenza, dettata non da sola paura, ma dall’imperativo interiore di non voler uccidere un altro essere umano.
8. Trame vive di relazioni tra donne per la pace
Da nord a sud, da est ad ovest le nostre pratiche sono diverse, ma condividiamo: * la denuncia delle complicità tra
guerra, potere e profitto; * la condanna della cancellazione di popoli, corpi, storie; * il desiderio di dare valore alla
parola, al dialogo, alla responsabilità; * l’impegno per una politica basata sull’ascolto, la cura e il legame con la Terra.
Nelle fratture del presente, siamo consapevoli che costruire la pace richiede una postura capace di sottrarsi alla logica
binaria delle contrapposizioni, di non rispondere al conflitto con nuove esclusioni. Proprio per questo riteniamo che
ogni sforzo debba essere fatto per tenere viva l’umanità anche quando le fratture sembrano irriducibili. È un lavoro
difficile, che comporta rischio e responsabilità. Ma è lì, nel tenere aperta la possibilità del riconoscimento, che si gioca
la pratica politica della pace.
Con questa Carta vogliamo unire voci e corpi, tessere relazioni, coordinare azioni per cercare nuovi linguaggi e nuove
visioni del vivere insieme per una convivenza disarmata, fondata sulla cura, sulla giustizia e sulla responsabilità. Per
una società che non giustifichi la morte in nome della sicurezza e capace di scegliere la pace non come rifugio, ma come
orizzonte trasformativo.
È tempo di andare oltre le sigle e riconoscerci in una presenza collettiva: 10, 100, 1000 piazze di donne per la pace,
unite nel rifiuto della violenza, custodi della possibilità di un futuro condiviso e impegnate ogni giorno a riscrivere il
senso del vivere comune.
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