
“Stop al commercio con gli insediamenti illegali”. Campagna internazionale di 84 organizzazioni umanitarie, confessionali, per lo sviluppo e per i diritti umani
Con il titolo “Stop al commercio con gli insediamenti illegali” è stata lanciata una campagna per chiedere all’Ue, all’Italia e al Regno Unito di vietare il commercio con gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. La campagna si basa su un rapporto che fotografa il drammatico impatto umanitario dell’occupazione israeliana alimentato dal commercio e dagli investimenti esteri nei Territori Occupati, e che è stato elaborato da 84 organizzazioni umanitarie, confessionali, per lo sviluppo e per i diritti umani, molte delle quali presenti nei Territori Palestinesi Occupati e in Israele. L’elenco completo chiude il rapporto. Fra queste, quelle italiane sono: ACLI, ACS -NGO, Amnesty International Italia, AOI, ARCI, CISS, CNCA, COSPE, CRIC, Emmaus, First Social Life, Fondazione Finanza Etica, Fondazione Gruppo Abele, Libera, Movimento Giustizia e Pace in Medio Oriente, Pax Christi, Rete HUMUS, Rete Italiana Pace e Disarmo, Un Ponte Per, Vento di Terra.
Dal rapporto emerge che, come annuncia un comunicato stampa - «l’occupazione israeliana della Cisgiordania costa ogni anno miliardi di dollari all’economia palestinese, mentre la povertà è aumentata dal 12% al 28% negli ultimi 2 anni, con un tasso di disoccupazione raddoppiato da ottobre 2023 e arrivato al 35%. Gli espropri di aree sempre più vaste, le demolizioni, gli sfollamenti forzati e l’ampliamento degli insediamenti dei coloni israeliani (illegali secondo il diritto internazionale) hanno un impatto sempre più drammatico sulla capacità di sussistenza delle comunità palestinesi, ma i governi e le imprese dell’Ue e del Regno unito continuano ad alimentare questa situazione».
Dall'occupazione della Cisgiordania del 1967, «Israele si è appropriato di circa 2.000 chilometri quadrati per la costruzione e l'espansione di insediamenti, in un’accelerazione esponenziale negli ultimi quattro anni, che culmina oggi con l’approvazione di un piano di costruzione di 3.400 nuove unità abitative, in un blocco che collega Gerusalemme Est e l'insediamento di Ma'ale Adumim, interrompendo di fatto la circolazione dei palestinesi tra la Cisgiordania settentrionale e meridionale».
In particolare, riassume il significato, «nel 2023, il governo israeliano ha approvato la costruzione di 30.682 abitazioni in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Un’espansione record, con un aumento del 180% dei nuovi insediamenti, in soli 5 anni. Nel giugno 2024 ha designato 12,7 chilometri quadrati nella Valle del Giordano come "terra demaniale". A maggio 2025 ha istituito 22 nuovi insediamenti. Gran parte dei nulla osta rilasciati da Israele hanno riguardato aree sempre più interne della Cisgiordania, frammentando il territorio palestinese e riducendo la libertà di movimento».
E inoltre, «con 900 checkpoint posizionati in tutta la Cisgiordania, gli spostamenti sono sempre più difficili, pericolosi e lunghi. In questo momento infatti il 30% del territorio è inaccessibile ai palestinesi. Le lunghe attese ai checkpoint hanno poi gravi ripercussioni sui lavoratori, le aziende e l’economia palestinese. Si stima che il costo di tutto questo sia di 764.600 dollari al giorno, pari a una perdita salariale di 16,8 milioni al mese, per le ore di lavoro perse. Con oltre un terzo della popolazione della Cisgiordania senza lavoro a causa delle politiche di Israele, sono le donne palestinesi le prime vittime di una situazione di totale sfruttamento. Non avendo alternative circa 6.500 di loro sono costrette a lavorare negli insediamenti illegali israeliani, spesso senza un contratto, un'assicurazione sanitaria e condizioni minime di sicurezza, con orari lunghissimi e per paghe da fame, di molto inferiori al salario medio israeliano: circa il 65% guadagna meno di 20 dollari al giorno».
«Gli incentivi israeliani per lo sviluppo degli insediamenti continuano ad attrarre enormi investimenti esteri di imprese e istituzioni finanziarie», sicché il report pubblicato oggi, 15 settembre, prende in esame alcune tra le principali aziende e istituzioni finanziarie internazionali che hanno solide relazioni commerciali con gli insediamenti israeliani. Si tratta di: la società tedesca TUI, l’azienda edile JC Bamford Excavators (JCB), la multinazionale tedesca Siemens, la francese Carrefour, l’istituto bancario britannico Barclays, la compagnia di navigazione danese Maersk, la multinazionale spagnola del turismo eDreams Odigeo e la sua controllata Opodo.
L’appello è rivolto all’Unione Europea e all’Italia: la prima oggi è il maggiore partner commerciale di Israele, con una quota di circa il 32% del movimento totale di merci. Nel 2024 il volume totale dell’import-export di beni tra Israele e l’Ue è stato di 42,6 miliardi di euro; l’Italia da sola l’anno scorso ha importato beni e servizi per oltre 1 miliardo di euro con un volume totale di scambi pari ad oltre 4 miliardi, il Regno Unito nel complesso per poco meno di 6 miliardi di sterline.
Spiegano le organizzazioni promotrici della campagna che «a oggi le politiche europee e nazionali, che rendono riconoscibili i prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani illegali, vengono attuate in modo incoerente e sabotate sistematicamente, con il risultato che in tutta Europa sono presenti prodotti provenienti da qui, ma etichettati “Made in Israel”. Per compiere un primo passo concreto in difesa dei diritti del popolo palestinese è quindi fondamentale che l’Ue e tutti gli stati membri mettano al bando il commercio con gli insediamenti, compresa la fornitura di servizi e gli investimenti. Per questo chiediamo a tutti di firmare il nostro appello, che chiede al Governo italiano di interrompere ogni relazione commerciale con gli insediamenti illegali israeliani».
«Inoltre – segue – il comunicato le organizzazioni chiedono:
• che siano direttamente gli esportatori israeliani a dimostrare che i loro beni non sono prodotti nei Territori Palestinesi Occupati, contrariamente a quanto avviene ora, ritenendoli responsabili di false dichiarazioni;
• che sia vietato l’ingresso nel mercato europeo e nel Regno Unito di merci di cui non sia dimostrata l’esatta provenienza;
• che venga impedito alle banche e alle istituzioni finanziarie di concedere prestiti e crediti a società basate negli insediamenti che ne finanziano lo sviluppo.
• che si sospenda l’Accordo di Associazione UE-Israele fino al pieno rispetto da parte di Israele delle disposizioni sui diritti umani».
Il rapporto è lungo 64 pagine; 9 di queste sono di riferimenti bibliografici.
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