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Attuare la Costituzione per debellare la corruzione

Attuare la Costituzione per debellare la corruzione

Milano, Umbria, Roma, Catanzaro, Palermo e via dicendo: gli scandali per corruzione e connessi illeciti si susseguono nelle articolazioni istituzionali a tutti i livelli provocando rabbia e sfiducia. Verrebbe da dire “s’ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde uno squillo” nonostante l’imbarazzo di mettere insieme il dolorante verso manzoniano dettato da autentico amor patrio e l’amara constatazione di ruberie e abusi che sporcano la politica e calpestano la nostra Costituzione. Uno Statuto che impone l’osservanza da parte di tutti i cittadini delle sue prescrizioni e delle leggi e fa carico a quanti svolgono funzioni pubbliche “di adempierle con disciplina ed onore”.

La Magistratura, prescindendo dalle polemiche che malinconicamente accompagnano le inchieste concernenti fenomeni corruttivi, fa ovviamente il possibile per individuare torti e ragioni e per giungere a “verità processuali”. Ma ci sono “verità politiche” e, prima ancora, “verità morali” che non richiedono verifiche dal momento che scaturiscono direttamente dai fatti o sono ammesse disinvoltamente dagli stessi protagonisti delle vicende in questione. Quando agli addebiti si risponde con più o meno velate minacce, quando alle accuse si reagisce con la “carta bollata”, quando alle critiche si contrappongono divagazioni o rivalse, quando per giustificare certi comportamenti si chiamano in causa similari condotte attribuibili a forze politiche avversarie o concorrenti, quando si fa ricorso alla logica per la quale se “lo fan tutti” tutti dovrebbero essere giustificati, quando ciò avviene le “verità politiche” devono imporsi su un piano diverso da quello delle “verità giudiziarie”. E lo devono fare dando il dovuto peso alle ragioni di opportunità perché questo vuole la Costituzione quando fa carico ai funzionari pubblici di comportarsi con “disciplina ed onore” e questo prescrive il principio di precauzione inteso come uno dei principi generali del nostro Ordinamento che, ben oltre l’ambito delle problematiche ambientali, obbliga i decisori politici ad adottare, in via preventiva, tutte le tutele necessarie per evitare il ripetersi di eventi o comportamenti socialmente perniciosi.

La “questione morale” è una malattia cronica della nostra politica che aveva dato segni incoraggianti di remissione durante la stagione di “tangentopoli” ma che purtroppo continua a manifestarsi in maniera grave e diffusa. Oramai da tempo assistiamo al proliferare di forme illecite o scorrette di gestione della cosa pubblica e alla inadeguatezza delle scelte finora operate per fermare i tanti comportamenti caratterizzati da “familismo amorale”: il parente, il collaboratore di fiducia, il servizievole factotum, il “compare” di partito o di congrega che vengono favoriti in violazione delle più elementari regole di giustizia danneggiando la credibilità delle Istituzioni. Familiari e amici che sono beneficiati con risorse dell’intera comunità in danno degli altri cittadini. Una cultura figlia di un individualismo e di un egoismo pervasivi e senza confini.

La corruzione c’è sempre stata ma negli ultimi decenni, con l’affermarsi in Occidente del “pensiero unico” neoliberista, si è dovuto registrare il suo progressivo dilagamento con il ritorno nei rapporti economico-sociali alla legge della giungla e a quella pessimistica concezione della vita sociale sintetizzata dal motto hobbesiano “homo homini lupus”. L’esaltazione del tornaconto personale, la frantumazione dei rapporti sociali, il culto della competizione e la mortificazione della solidarietà con la crescente egemonia di un sistema che pretende di trasformare la cupidigia in energia produttiva, che riduce a merce beni e servizi di vitale importanza, che precarizza il lavoro e produce disoccupazione: uno spettacolo desolante al quale, impotente o connivente assiste frastornata larga parte della nostra politica. Un quadro che favorisce il clientelismo e la corruzione per le ragioni indicate da Enrico Berlinguer nella ormai famosa intervista pubblicata da “la Repubblica” del 28 luglio 1981 durante la quale il leader della sinistra così rispondeva alla domanda di Eugenio Scalfari sui motivi per i quali viene tollerata la corruzione: “molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più.”.  Un messaggio di scottante attualità che dovrebbe essere tenuto in debito conto.

Occorre quindi una rivoluzione etica che riproponga i grandi valori di giustizia, di libertà e di solidarietà proclamati dalla nostra Costituzione. Una rivoluzione per rilanciare quella morale condivisa, quel “denominatore comune”, quel patto costituzionale che esprime la sua passione liberante e trasformatrice quando fonda la Repubblica sul lavoro, sancisce il diritto al lavoro facendo carico allo Stato di renderlo effettivo, riconosce la proprietà e l’iniziativa economica privata e pubblica ma esige che esse siano indirizzate e coordinate a fini sociali prescrivendo che il sistema tributario sia informato a criteri di progressività.

*Foto tratta da Wikipedia Commons, immagine originale e licenza

 

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