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"Non si fa del bene alla Chiesa tacendo e coprendo": teologa torinese scrive al settimanale diocesano, reticente sul caso dei tre preti denunciati

TORINO-ADISTA. «Non ci meritiamo questo silenzio, questa indifferenza. La sensazione è che si voglia tenere sotto traccia, non divulgare, non portare allo scoperto problemi che – si pensa – devono essere affrontati e risolti in luoghi «competenti» e cioè tra «addetti ai lavori», al riparo dall’opinione pubblica. Questo però purtroppo è lo stesso stile che per anni è stato scelto per affrontare (o non affrontare?) i drammatici e criminali casi di pedofilia». È questo il punto di partenza della lettera che una teologa torinese, Laura Verrani, ha inviato al direttore del settimanale diocesano della città, La voce e il tempo, Alberto Riccadonna, indignata e addolorata per la totale mancanza di informazione sul caso dei tre preti diocesani denunciati per abusi psicologici: «Nessun cenno, nessuna inchiesta, neanche un trafiletto, una piccola comunicazione». Un silenzio che continua, dal momento che, fino a oggi, nemmeno la lettera della teologa è stata pubblicata. Ci ha pensato don Fredo Olivero, noto prete torinese, a condividere la lettera sulla propria pagina Facebook, «per una Chiesa sinodale, cioè trasparente». 

«Quale Chiesa si pensa di costruire in questo modo? Senza il coraggio di guardare in faccia la verità, come si può pensare di camminare in quella libertà che, come ha affermato Gesù, è figlia proprio della verità? Della verità non bisogna avere paura, neanche quando è scomoda e spiacevole», afferma Laura Verrani.

Di seguito, pubblichiamo integralmente la sua lettera. 


Gent.mo Direttore,

sono una lettrice, abbonata ormai da molti anni. Le scrivo in merito alla vicenda dei tre preti appartenenti alla Chiesa torinese, coinvolti nella tristissima vicenda delle ragazze avviate alla vita consacrata attraverso metodi che poco hanno a che vedere con la direzione spirituale. I fatti sono stati portati alla luce grazie all’inchiesta di Repubblica e alla denuncia di una famiglia e molti di noi credenti ne sono venuti a conoscenza in questo modo. Altri, più direttamente a contatto con il modus vivendi ecclesiale di questi presbiteri, portano alla luce da tempo anche altre criticità, legate ad un modo di concepire la liturgia, la fede e la vita sacramentale in generale che non solo è ultraconservatore, ma probabilmente in netta contrapposizione con la riforma liturgica postconciliare. Le questioni sono dunque molteplici, anche se per prima dovrebbe essere considerata quella che ha portato una ventina di persone – prevalentemente donne, a quanto pare – ad essere indotte ad una sudditanza psicologica e spirituale assoluta nei confronti dei tre sedicenti direttori spirituali. Conoscendo lo stile della «Voce» - giornale diocesano, come sappiamo – sapevo bene che non avrei trovato sul vostro ultimo numero alcun accenno ai gravissimi fatti emersi, ciononostante, quando ho ricevuto il giornale, ho subito cercato il contrario, sperando di essere smentita nelle mie previsioni. Che invece erano esatte: nessun cenno, nessuna inchiesta, neanche un trafiletto, una piccola comunicazione.

Sappiamo che il Vescovo ha scritto una lettera al presbiterio in data 24 aprile. Ma Repubblica non è letta solo dai preti, ammesso che effettivamente la leggano, e comunque la notizia è circolata a tal punto che chiunque poteva esserne a conoscenza, anche senza essere lettore di Repubblica. Molti credenti, con cui mi sono confrontata, hanno letto e, che dire? C’è una sofferenza, una pena profonda in chi appartiene a questa Chiesa e la ama, cerca faticosamente di costruirla, ognuno per la sua parte, secondo i propri carismi. Ecco, quello che vorrei dirle è che non ci meritiamo questo silenzio, questa indifferenza. La sensazione è che si voglia tenere sotto traccia, non divulgare, non portare allo scoperto problemi che – si pensa – devono essere affrontati e risolti in luoghi «competenti» e cioè tra «addetti ai lavori», al riparo dall’opinione pubblica. Questo però purtroppo è lo stesso stile che per anni è stato scelto per affrontare (o non affrontare?) i drammatici e criminali casi di pedofilia. Il ritornello, tacito ma ugualmente eloquente, era: sono «affari nostri», ce ne occupiamo noi, voi che siete sì la Chiesa, ma non quella che deve decidere, dovete fidarvi e basta, non parlatene, non fate domande, non è nemmeno il caso che sappiate.

Ma quale Chiesa si pensa di costruire in questo modo? Senza il coraggio di guardare in faccia la verità, come si può pensare di camminare in quella libertà che, come ha affermato Gesù, è figlia proprio della verità? Della verità non bisogna avere paura, neanche quando è scomoda e spiacevole. Soprattutto: davvero si pensa che tutto questo non ci riguardi? Che dobbiamo essere tenuti sempre al riparo da notizie che disorientano? A parte il fatto che – come già detto – al riparo non siamo affatto, perché poi le cose si vengono a sapere comunque. Ma il punto è che tutto ciò che è accaduto in questi anni in relazione a questi presbiteri ci riguarda eccome! Perché sono pastori di comunità di cui fanno parte uomini e donne che poi con queste mentalità devono convivere, cercare di interagire, provare a collaborare, a volte faticosamente, a volte del tutto inutilmente. Le ricadute pastorali delle azioni di questi preti – e non mi riferisco solo a questi tre, ma anche ai loro accoliti, riconoscibili per esempio dall’uso della talare – sono innanzi tutto sulla gente, prima ancora che sul presbiterio! Sui loro parrocchiani, sulle persone che sono state indotte ad una soggezione pericolosissima sul piano psicologico (e speriamo solo psicologico), sulle famiglie coinvolte. Siamo noi, la gente comune, quelli che vengono purtroppo considerati i «non addetti ai lavori» a pagare il prezzo di queste ordinazioni, di questa formazione, di questa pseudo teologia e di questa spiritualità disincarnata, settaria e profondamente antiecclesiale.

Perché allora non ci considerate? Perché non ci coinvolgete? Perché non ci ritenete in grado di recepire un’informazione, di seguire un’inchiesta, di comprendere la realtà, oltre l’inevitabile scoop giornalistico? Lo chiedo a Lei, ma anche e soprattutto alla Chiesa torinese, di cui mi sento figlia e parte, di cui voglio essere «pietra viva per la costruzione di un edificio spirituale» (1Pt 2,5), non destinataria passiva di decisioni altrui. Non rispondete col silenzio alla gravità delle azioni di alcuni. Non si fa del bene alla Chiesa tacendo e coprendo. È stato già fatto con i pedofili ed è stato un disastro. Non sarebbe ora di cambiare passo? Di avere il coraggio di combattere a viso aperto ciò che fa male alla Chiesa perché non rispetta le persone? Per favore, abbiate questo coraggio! Sappiate coinvolgerci, prenderci in considerazione, ognuno secondo la propria funzione: voi siete un giornale diocesano, non raccontateci solo di sagre paesane, feste in oratorio, ingressi di parroci ed eventi vari. Se ci sono dei problemi, bisogna presentare anche quelli, non sotto traccia, non tra le righe, ma apertamente, accompagnando così, con la vostra esperienza e passione ecclesiale, un processo di riforma, un cammino più vero, una crescita più evangelica della nostra Chiesa. L’alternativa è essere «accompagnati» da chi questa notizia la dà, ma senz’altro scopo che l’informazione. Voi siete di più, o, almeno, siete diversi: fatelo vedere, ma non tacendo. Informateci e aiutateci a capire, ma non come si fa con i bambini, a cui le cose si dicono e non si dicono: siamo cristiani adulti, consapevoli, che sinceramente vogliamo bene alla Chiesa. Non ci spaventerà certo il venire alla luce di comportamenti discutibili. Non siamo così deboli, così piccoli, così ingenui. Sappiamo che la Chiesa poggia su Cristo e sulla sua Pasqua, non saranno tre o più preti a compromettere la nostra fede in questo.

Inutile dire che, se questo non accadrà, se si continuerà con lo stesso stile, se proseguirete col silenzio, NON disdirò il mio abbonamento. Non appartengo al gruppo secondo cui «o fate come dico o me ne vado!». Continuerò ad abbonarmi, a leggervi, a stare in comunione con la mia Chiesa, la mia diocesi, anche attraverso il suo giornale e continuerò a «fare il tifo» per una Chiesa più consapevole, più coraggiosa, più evangelica, meno autoreferenziale, più condivisa e conciliare.

Ringrazio per avermi letta e auguro di cuore «buon lavoro!».

Laura Verrani

* foto di Guilhem Vellut tratta da Flickr, immagine originale e licenza

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