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Il degrado del linguaggio, problema di democrazia. Una riflessione di don Aldo Antonelli

Il degrado del linguaggio, problema di democrazia. Una riflessione di don Aldo Antonelli

«La manomissione delle parole e la loro “corruzione”, sono il segno della manomissione e della corruzione della democrazia!». Così presenta Aldo Antonelli, prete ad Antrosano (Aq) e da decenni tra i più significativi esponenti della Chiesa conciliare e progressista, la sua riflessione sulle "Parole distorsive"  pubblicata sull'ultimo numero della rivista Rocca (18/20). Eccola di seguito.

 

PAROLE DISTORSIVE

Chi più a disagio di noi, figli della “Rivelazione”, ascoltatori della Parola che rivela, che toglie cioè il velo della menzogna e dell’occultamento, di fronte ad un linguaggio sempre più ricorrente, le cui parole, invece, stendono veli mendaci e istillano sottili veleni di malevola diffidenza?

E chi di noi, educati alla parresia del «sì, sì / no, no», del parlar franco e della schiettezza, non si sente bruciare dentro di sdegno per l’uso, sempre più ricorrente, di vezzeggiativi ad indicare comportamenti delinquenziali che richiederebbero ben altri aggettivi?

Cosa dire, per restare a questo secondo interrogativo, dell’uso della parola “Furbetti” per indicare i politici che hanno chiesto ed ottenuto il bonus di mille euro, a fronte di uno stipendio da tredicimila euro? Per l’occasione ho postato sulla mia pagina di Fb questo messaggio: SONO ALTAMENTE INCAZZATO! PERCHÈ UN MORTO DI FAME CHE RUBA LO SI CHIAMA LADRO E UN PARLAMENTARE CHE RUBA LO SI CHIAMA FURBETTO?

Mi si perdoni la parolaccia, ma non trovo un’altra parola che possa esprimere lo sdegno che mi brucia dentro.

Quanto al primo interrogativo, non so se ci si rende conto del veleno che veicola la parola “inciucio” ogni qual volta che, in politica, partiti diversi o politici di estrazione diversa si incontrano per trovare una soluzione comune ad un problema comune.

Il “Parlamento” (non a caso si chiama così) è il luogo deputato alla “Parola”, al “Parlarsi”, alla “comunicazione”, allo scambio di pareri e di opinioni in vista di un possibile incontro e al fine della risoluzione di un comune problema. In Parlamento è questo che si deve fare!

E se si fa così, perché denigrare il tutto con il termine di “inciucio”?

“Inciucio” viene usato per denigrare e mettere in cattiva luce il dialogo con gli “altri”, con i “diversi” come a porre il bollo dell’infamia sulla facoltà più alta dell’essere umano che è quella di sapersi rapportare con l’”altro”!

La conferma di questo uso delinquenziale del termine ci viene dal patto “anti-inciucio” firmato recentemente da Forza Italia, Lega di Salvini e Fratelli d’Italia. Patto, e qui il termine è più che altro appropriato, prettamente mafioso; essendo proprio della mafia il giurare fedeltà al gruppo senza aperture di nessun genere all’esterno, là dove il diverso è sempre nemico e l’apertura è sempre cedimento  e il dialogo diventa tradimento.

A noi corre obbligo di resistenza a questa cooptazione subliminale orchestrata e pianificata da assoldati professionisti dell’inganno mediatico.

Don Tonino Bello amava ricordare spesso l’aneddoto di un saggio orientale che, se avesse avuto per un attimo l'onnipotenza di Dio, l'unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario. «Sì - aggiungeva Tonino Bello - perché oggi le parole sono diventate così "multiuso", che non puoi giurare a occhi bendati sull'idea che esse sottendono. Questa "sindrome dei significati stravolti" affligge soprattutto le parole più nobili, quelle di serie A; quelle cioè che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà».

Mark Thompson, per otto anni amministratore delegato del New York Times, conferma in un’intervista a Riccardo Staglianò, questo degrado del linguaggio che mette in pericolo la democrazia stessa.

È da poco uscito, edito dalla Feltrinelli, l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica ed altre cose, in occasione della cui presentazione l’autore confessa: «Quel che cerco di fare è smascherare i trucchi dei nuovi bari della lingua. In questo modo l’incantesimo s’infrange e l’artifizio della predicazione distorsiva viene mostrato a tutti nella sua volgare grossolanità». La neolingua denunciata nel breviario evoca espressivamente il bagaglio retorico del populismo contemporaneo, che dalla semplificazione aggressiva trae la sua ideologia e la sua forza. Di certo molti dei nostri lettori ricorderanno un suo saggio del 2010 dal titolo La manomissione delle parole, in cui si dimostra che «la cura delle parole è un pilastro dell’etica democratica». Da Goethe a Gramsci, da don Milani a Bob Dylan, da Wittgenstein a De Mauro, sono molti i poeti, i filosofi, gli intellettuali militanti che hanno cercato di restituire senso alle parole. Negli anni Ottanta del secolo scorso, fu Italo Calvino a denunziare una nuova pestilenza della lingua, un’epidemia di grigiore e opacità che nel decennio successivo si sarebbe degradata in una patologia.

*Foto tratta da Pixnio.com, immagine originale e licenza

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