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Chiesa una, santa, cattolica e… sacramentale”?

Chiesa una, santa, cattolica e… sacramentale”?

Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 17/07/2021

 Nei lontani anni ‘80 ebbi la possibilità di ascoltare la relazione di un mio stimato e zelante confratello su “Chiesa come sacramentum Christi”. Non mi colpì ovviamente il fatto che si parlasse della necessità dei “sacramenti”, ma che si insistesse tanto sulla centralità del rito liturgico, come se tutta la missione di Gesù fosse stata quella di inventare quei riti e che l’unico scopo della Chiesa fosse quello di amministrarli. Non aveva la Chiesa ondeggiato per secoli sul loro numero? E se era comprensibile che l’ekklesìa (essendo assemblea di “molti riuniti”, di credenti in relazione tra loro sotto gli occhi del Padre) creasse riti comuni per il progresso di tutti verso l’amore, la fede piena e la speranza, non era così evidente che si adoperasse per questi gesti la categoria del “sacramento”. Non si può dimenticare che la parola è di origine pagana; designava l’abiura del soldato alla sua libertà e dignità, per “consacrarsi” ai comandi del suo Imperatore. Essa appare tardi nella Chiesa, con Tertulliano, lo scrittore romano in odore di montanismo. Solo nel secolo XI la Chiesa riunisce in un unico concetto di “sacramento” quei riti fondamentali, dicendo che essi significano, indicano, contengono, conferiscono la Grazia donata dallo stesso Gesù. 

Ne segue che non esiste una automatica traduzione di un avvenimento evangelico, o di un gesto operato da Gesù di Nazareth, in un concetto teologico che solo col tempo abbiamo potuto elaborare, e di cui solo gradatamente abbiamo conosciuto la ricchezza.

Oggi tanti teologi e pastoralisti si pongono la domanda se l’avere ridotto il messaggio cristiano a offerta e ricezione di sacramenti, non abbia influito a creare l’emorragia di cui soffre soprattutto il cattolicesimo nella vecchia, sazia e secolarizzata Europa. Personalmente me ne pongo anche altre di domande plausibili: non è possibile che l’esperienza sacramentale sia diventata ostacolo per una esperienza viva, profonda di Cristo? È un caso che quando i fedeli hanno sentito il bisogno di pregare, sazi di “dire automaticamente preghiere”, si siano rivolti all’Oriente? E come spiegare che anche il “resto di Israele”, praticante, assiduo all’Eucaristia, dimentichi di essere voce profetica contro la fame e l’emarginazione di moltitudini, e da testimone di Colui che volle essere “Carne e Sangue” condivisi col mondo, scada poi in passivo fruitore di riti amministrati, non da pretiseguaci- del-Cristo, ma da funzionari di Dio?

Ecco una seconda premessa. Gesù – è noto – non ha lasciato nessun libretto di istruzioni, nessuna dichiarazione di intenti sulla vita della “Chiesa”, sua presenza storica nel mondo. Ci ha affidati allo Spirito di Verità che avrebbe chiarito ogni cosa (Gv 16,13).

I primi discepoli, le prime comunità cristiane, ci hanno tramandato tracce del suo insegnamento e del senso della sua vita in quel Nuovo Testamento che è tutt’altro di una biografia di Gesù in senso storiografico moderno, e tutt’altro di una elaborazione omogenea e piena del suo messaggio salvifico. Noi facciamo fatica a capire che non siamo – come cristiani – seguaci di una “dottrina” ma “seguaci di una Persona”, meglio “testimoni” di un messaggio di salvezza che cambia la vita. Facciamo molta, troppa fatica a vivere la quotidianità nello Spirito del Signore Gesù, inclini come siamo a lasciarci andare intruppandoci nel ”pensiero unico” della massa che vive secondo lo spirito del mondo. Siamo purtroppo eredi di quel passaggio dal kerigma alla dottrina, cioè dalla proposta di una ortoprassi di vita degna di “rinati”, “risorti”, “salvati”, a seguaci battaglieri di una ortodossia sull’Incomprensibile Dio-Amore. Passaggio iniziato molto presto, già al tempo degli apostoli. Prendiamone atto: i discepoli hanno visto, sentito, toccato con mano “l’Autore della vita”, ma hanno accolto le parole e i gesti del Maestro interpretando tutto secondo la loro cultura di persone semplici, condizionati dal significato che certe parole avevano nel loro tempo, dalle attese che custodivano in cuore e dallo stesso orientamento politico-religioso che divideva la Palestina. Non solo, ma poi gli stessi discepoli avevano una storia personale, limiti e caratteri personali, ed hanno trasmesso, ciascuno ciò che riteneva più importante e decisivo, tralasciando tanto (Gv 21,25). Inoltre ci hanno tramandato la loro esperienza con parole di 2000 anni fa, spesso per noi traducibili con molta approssimazione, data la mutazione di linguaggi, contesti storici e concezioni scientifiche del mondo. Rimaniamo ancora basiti nel sapere che in Marco non è Pietro che vede in Gesù il “Figlio di Dio”, ma l’ufficiale romano preposto all’esecuzione capitale (cfr 8,29 e 15,39). Non meno stupiti rimaniamo nell’apprendere da Luca (At 1,6) che neppure alla fine dell’esistenza fisica di Gesù nel mondo, i suoi discepoli abbandonano l’idea che il Messia fosse il restauratore della gloria del Regno di Israele e non l’annunziatore del “Regno di Dio”. Fino a questi estremi i testimoni oculari erano condizionati dalla loro cultura e dal pensiero dell’uomo della strada.

La conseguenza di tutto ciò fu espressa egregiamente da Giovanni XXIII quando disse «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo capiamo meglio ». Per fare un solo esempio: per il contemporaneo di Gesù “spirito immondo” era ogni “forza”, ogni “potere” che in modo irresistibile portava l’uomo lontano dalla vita (demonio – da dunamis, forza – o malattia che fosse); per noi designa la personificazione del male, del negativo, e parliamo di “possessione del demonio”, di “satana”, il tutto ben distinto da una eventuale patologia psichiatrica, nonostante la somiglianza dei sintomi esterni. Era posseduto da satana l’indemoniato di Gerasa (Mc 5,1- 20) o era uno sventurato psicotico affetto da necrofilia?

“Sacramenta semper reformanda”

La necessità di una rivisitazione dei sette sacramenti codificati dal Concilio Tridentino, fu sentita dai Padri del Vaticano II. Tale rivisitazione andò oltre la raccomandazione della riforma del rito, e molto oltre la preoccupazione di garantire ai gesti sacramentali la loro “validità”, cioè la trasmissione certa, ex opere operato, della Grazia. In poche parole si occupò molto della loro “autenticità”. Ogni sacramento è veramente cristiano se celebra nel rito sacramentale una vita vissuta “altrimenti” (santamente, secondo lo Spirito di Cristo e non più secondo lo spirito del mondo), o almeno se indica la decisione di percorrere in futuro – con l’aiuto della Grazia – questa strada.

Questa prospettiva non so a quanti dei cristiani (preti e laici) cresciuti nei 50 anni di anticoncilio, sembra ovvia. Al Concilio si affermano due tesi fondamentali. Spuntano cioè dalla stessa Santa Radice (la “Nuova Pentecoste”) come due alberi i cui rami si diversificano e si intrecciano. La prima tesi: la necessità di uscire da un modello statico nella storia della salvezza, dal voluto “fare a meno” del progresso antropologico e culturale, dalla contrapposizione fedescienza, Chiesa-mondo, vita terrena-vita eterna.

La seconda tesi: il dogma di fede proclamato da Pio IX sulla “infallibilità” del papa, non autorizza a mettere il Magistero come norma per interpretare il Vangelo, e tanto meno esime la Chiesa dal verificare continuamente se il suo operato realizza o contraddice il messaggio di Gesù di Nazareth. È il Vangelo che deve tornare a essere norma del Magistero e della stessa vita della Chiesa, non viceversa.

Per quanto riguarda la prima tesi, andando oltre l’enciclica Humani generis di Pio XII che voleva bloccare nel discredito la Nouvelle Theologie, il Concilio sdogana senza mai nominarlo, un teologo della levatura di Teilhard de Chardin (Cfr Enchiridion Vaticanum, EDB, 1112, 1331, 1337, 1341, 1350, 1402, 1451) e con questo anche la tesi di quei biblisti che rifiutavano una lettura del testo sacro quasi vi si trovassero, dettate dall’Alto, ipsissima verba Dei et Christi, per una visione dove la comunicazione di Dio all’uomo è sempre mediata dal contesto storico, culturale, personale dell’autore umano, e dalle vicende che intercorrono tra la primitiva trasmissione orale e la composizione scritta. La Sacra Scrittura, in altri termini, va “interpretata”, per coglierne la valenza salvifica per l’uomo che nel corso dei secoli la accoglie.

Mai come in questo nostro orizzonte di riflessione, le cose più teoriche sono state le più pratiche e rivoluzionarie. Si pensi ad alcune affermazioni che oggi si insinuano sempre più nella mentalità comune.

Dio non ha creato il mondo perfetto, ma perfettibile. Dio non è il manovratore provvidente della storia umana e del creato. Adamo non è un uomo già immagine e somiglianza di Dio, ma una creatura chiamata a diventare ciò che è. L’essere umano più che una essenza definita è una “essenza di possibilità”, un fascio di chiamate che urgono dal di dentro del cuore umano. Il meglio dell’uomo non è il suo passato ma il futuro nella novità che lo Spirito suscita. Non è mai esistito un “Eden” dove camminava una riuscita coppia umana che era “uno” ma poi fu rovinata dalla venuta del diavolo, tanto da costringere Dio a “lavorare” (cfr Gv 5,17) oltre il “settimo giorno” per impedire che tutto andasse in malora. Nei sacramenti non si ha l’attuazione della salvezza, ma solo la sua celebrazione comunitaria, cioè l’esultanza dei credenti in Cristo per quella vita umana che è “miracolo” di creatività dello Spirito.

Mi rendo conto che tutto questo può apparire “terremoto apocalittico” per tanti credenti abituati a una obbedienza cieca alla legittima gerarchia ecclesiastica. Si chiedono se non siamo all’eresia, alla distruzione della fede. Di chi fidarsi da ora in poi? Il principio conciliare “torniamo al Vangelo” non si è dimostrato devastante e pericoloso? Se la Chiesa è stata retta per qualche millennio da una gerarchia accentratrice di ogni potestas, non è più saggio continuare sulla scia dell’obbedienza dei laici al coetus sacerdotalis? Comprensibile tutto questo. In effetti esce dal Concilio una Chiesa semper reformanda, chiamata a smettere di pensarsi soggetto inappellabile di verità dogmatiche e disciplinari, anzi essa stessa centro di potere, detentrice di una Potestas sacra che sovrasta perfino re e imperatori (cfr il Dictatus papae di Gregorio VII). Il culto che i laudatores temporis acti rendono al passato fa nascere quel lefebvrismo che attira ancora le curie clericali, di basso e alto rango, più di quanto non si creda. Da tutto ciò nasce l’opposizione serrata a papa Francesco che di quel principio conciliare del Vangelo- norma-della-Chiesa fa il programma del suo servizio, come dichiara in Evangelii gaudium.

E i Sacramenti?

Il termine “sacramento” oggi è usato da tutte le confessioni cristiane, anche se in modalità e comprensioni differenti. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, a volte ho l’impressione che l’anticoncilio, anche in edizione anti-Francesco, oggi faccia correre il rischio al termine “sacramento” di ridiventare parola pagana. Consegna indiscriminata all’essere umano e non più a Dio. Cioè di farlo passare dalla fede alla “superstizione”. Se non si àncorano in modo comprensibile e nuovo tutti e sette i sacramenti nello stile di vita di Gesù, sia nella loro formulazione teologica che nel rito della loro somministrazione, a cosa si riducono? Come il sacramentum del soldato romano era la consegna radicale di sé all’imperatore, non c’è il rischio che il sacramento cristiano sia la consegna di sé all’autorità dei preti? Temo di sì, se devo dare ascolto a certe contestazioni che circolano tra gli “esclusi”: mio figlio rimane col “peccato originale” se non vado in parrocchia; io non posso essere come tutti i miei compagni se il prete non mi ammette alla Prima Comunione; divento “peccatore pubblico”, “concubino”, se non mi sposo in Chiesa; vado all’inferno se non capisco cosa sia la “transustanziazione” e dunque non “mangio il Corpo di Cristo”; mio papà non lascia il Purgatorio se non faccio “dire messe” per la sua anima...

Il sacramento cristiano diventa termine “pagano” se qualcuno mi spinge, anche non intenzionalmente, a concepirlo come gesto superstizioso, magico in cui l’uomo usa Dio e lo assoggetta al suo volere: il prete è colui al quale “perfino Dio obbedisce” – si sente dire in tante “prime messe”.

Se si vuole uscire da questi equivoci la riformulazione teologica e pastorale dei sacramenti come il ripensamento degli stessi singoli riti, si impongono. Non dice nulla il fatto che tutti e sette i sacramenti siano in crisi profonda? È vero che nascono meno bambini nel nostro Occidente, ma è anche vero che sono sempre meno, in percentuale, i battezzati. «Non credo che mio figlio abbia bisogno di questo», mi diceva convinto un amico. La cresima è così disertata che la offriamo con gli scampoli di fine stagione. Li acchiappiamo a otto, nove anni questi ragazzi, e li mettiamo al sicuro, perché poi scappano. Se oggi, come nel ‘500 e ‘600 faceva l’Inquisizione, valutassimo l’ortodossia della gente dalla frequenza in Chiesa e soprattutto dalla Comunione e pasquale, dovremmo concludere che non abbiamo soltanto una «prima generazione incredula» (cfr il libro omonimo di Armando Matteo), ma una Chiesa all’80, 90% tale. Quei pochi che frequentano la Mensa eucaristica si accostano all’Eucaristia, ma non sappiamo con quali disposizioni interiori. Certo restano disoccupati tanti “confessori”. Comunque, l’estrema faciloneria di alcuni equilibra la problematicità di altri che non sapendo che pensare della transustanziazione del pane e del vino, finiscono per dimenticare che l’Eucaristia è una chiamata a vivere la vita come Gesù l’ha vissuta, e di diventare capaci di farsi “Pane di vita, e Vino di gioia”, come il Cristo appunto, nella quotidianità dell’esistenza.

Per quanto riguarda Matrimonio e Ordine sacro, la cosa strana è che pochi sono spinti a riflettere sulle radici profonde del loro rarefarsi. Si attribuisce tutto al materialismo superficiale dei giovani che, pur essendo stati educati nella cosiddetta fede, preferiscono la convivenza a qualsiasi impegno matrimoniale, e l’adesione volontaria, ma ad tempus, a qualche “Organismo non governativo” efficiente.

Chi di noi, preti o diaconi o catechisti, si dà la briga di preparare ai sacramenti, sa bene quanta difficoltà si incontri nel tradurre in termini comprensibili le formule dei riti come oggi sono previste. Accenno a due soli sacramenti. Nel rito del battesimo dei bambini, accanto a belle prospettive aperte – sublime, per esempio, la monizione iniziale ai genitori e ai padrini, come la benedizione finale alla mamma – dobbiamo dire che in esso si parla troppo del male, di satana, del peccato originale, di esorcismo, il tutto con una coloritura di stampo manicheo o, comunque dimenticando che la condizione del bambino non richiede conversione dal “nero al bianco”, ma iniziazione alla vita “altra”. “santa”, offerta da Gesù. Per l’Eucaristia dico solo che, pur avendo Gesù rigettato l’idea che Dio voglia “sacrifici”, pur non avendo Gesù mai usato questa parola (se non due volte, e per ripudiarla!), anche nel nuovo messale, si parla tanto di “sacrificio” che si volesse espungere la parola bisognerebbe bruciarlo tutto. Abbiamo noi italiani, soli nel mondo, il fosco privilegio di concludere la consacrazione del Pane a Messa, con parole che Gesù non ha mai detto: «offerto in sacrificio per voi». C’è una bella differenza tra “donato per voi” e “offerto in sacrificio”. Nella prima espressione Dio si dona a noi chiamandoci a diventare “uno” con Lui, Amore come Lui; nella seconda, Dio esige qualcosa per sé, impone che paghiamo il riscatto per essere perdonati, che soddisfacciamo il suo bisogno di riparazione per le offese ricevute.

Non ci resta che concludere con un desiderio implorante: Noli timere, piccolo gregge, Santa Chiesa di Gesù di Nazareth. Il Signore è con te fino alla fine del tempo, sempre, ogni giorno, sulla molta strada da fare ancora, perché anche tu divenga ciò che sei! 

Gesuita dal 1947 e saggista, Felice Scalia vive a Messina. Laureato in Filosofia, Teologia e Scienze dell’Educazione, già docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e all’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose di Messina. 

* Antonio Tempesta (1555-1630), "Adamo ed Eva nel Giardino dell'Eden" (acquaforte, serie La creazione del mondo, XVI secolo), fonte: collezione Los Angeles County Museum of Art; foto [ritagliata] tratta da wikimedia commons, immagine originale e licenza

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