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Ambiguità e capovolgimenti

Ambiguità e capovolgimenti

Tratto da: Adista Documenti n° 9 del 12/03/2022

Qui l'introduzione a questo testo.

Nel discorso di Michelina Tenace al Simposio internazionale “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, si possono cogliere quali siano le “competenze scientifiche” che le donne dovrebbero dimostrare di possedere per essere introdotte ( anche se in ruoli comunque non primari, non potendo accedere al sacerdozio ordinato) nelle sublimi stanze del Vaticano; affinché non si dica che la Chiesa cattolica rifiuti di aprirsi alle donne, deturpando la sua immagine. La questione non riguarda tutte certamente. Ma, in questi frangenti, non poche volte accade di vedere in azione il dispositivo magico dell’“autoinganno”, e con questo termine intendo «La tentazione per le studiose donne di identificarsi con il punto di vista maschile è forte e gli svantaggi per non farlo spesso intimidiscono le donne in un autoinganno». (Mary Daly, Gyn-ecology).

Il testo non brilla di limpidezza. L’indecidibilità semantica di alcuni passaggi sospinge a una lettura che dischiude contenuti divergenti. Ma tant’è, non ho spazio per la disamina di tali ambivalenze.

La teologa usa spesso le sue argomentazioni per operare un capovolgimento di determinazioni o evidenze storiche che hanno punteggiato l’universo della Chiesa cattolica; tecnica cara negli ambienti clericali, come ci ha dimostrato la teologia femminista. Per esempio: Tenace inneggia al “non fallimento” della Commissione istituita nel 2016 da papa Francesco sul diaconato femminile. «È stato un evento che si voleva all’interno – scrive – della riflessione teologica della Chiesa cattolica e perciò, ribadisco, non ha fallito il suo compito, ha avuto ripercussioni di cui abbiamo cominciato a vedere i primi segni: il motu proprio Spiritus Domini del 2021… Fuori di questa ottica di ricerca interna, il compito della commissione è stato inteso in un modo riduttivo e improprio, come se si trattasse di trovare gli argomenti storici per ripristinare un ministero femminile attestato con la parola diaconessa nei primi secoli…». Contrordine sorelle e fratelli! Avevamo letto e ascoltato che gli argomenti storici fossero il fondamento da cui partire. L’Osservatore romano del 9 maggio 2020, nell’articolo di Giorgia Salatiello sul diaconato femminile, scrive: «Il primo livello [della commissione] è quello di un’accurata ricostruzione storica capace di documentare quella che, riguardo al diaconato delle donne, era la reale situazione delle prime comunità cristiane, situazione che, come ormai è risaputo, non era omogenea e presentava prassi distinte a seconda dei contesti».

Aggiungo poi un dato non di poco conto: perché attribuire il merito delle «ripercussioni» (positive , sottintende il testo) unicamente all’operato della commissione? Perché vedere «l’apertura» come esito tutto interno all’ istituzione e ignorare completamente la spinta dal basso delle donne battezzate, consapevoli dei loro carismi, che da qualche anno premono con determinazione per annunciare la loro insostituibile soggettività nella casa del popolo di Dio? Nulla! Per non parlare poi dei fortissimi limiti costitutivi del motu proprio Spiritus Domini, che la Tenace valuta tout court come segno di indubbio avanzamento. Sulle ombre nel documento, che perseverano nel depotenziamento delle donne battezzate, mi sono già espressa in un articolo su questa rivista, a cui rimando (Adista Notizie, n. 3/21).

Ribaltamento, dicevo. Un altro esempio: Michelina Tenace afferma: «Uomo e donna sono due realtà che esprimono una diversità complementare rispetto al generare: secondo il proprio genere gli uomini generano, le donne mettono al mondo; così, simbolicamente, uomini e donne partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo che la Chiesa ha affidato a coloro che generano, in virtù del sacerdozio ministeriale, e a coloro che mettono al mondo, in virtù del sacerdozio comune, in una reciproca dipendenza e sostegno».

Un florilegio! Che uomini e donne partecipino – equamente- dell’unico sacerdozio di Cristo è una espressione che rimane flatus vocis demagogico se non viene sostanziato da gesti, azioni, atteggiamenti complessivi che la rendano “vera”, sperimentabile, siano parole da cui mente cuore si sentono “toccati”; e non rappresentino piuttosto un “sepolcro imbiancato”. Gesù è il primo a insegnarci che non sono «coloro che dicono e non fanno» a realizzare la volontà del Padre. Eppure la storia si ripete proprio nelle stesse modalità con cui il maestro ha denunciato l’ipocrisia dei dottori della Legge.

La frase maschera quella differenza ontologica – che la dottrina non si stanca di ribadire – che intercorre tra sacerdozio ordinato e sacerdozio battesimale, differenza che si traduce in ordine gerarchico; il primo godendo dell’esercizio di funzioni sacramentali esclusive a cui si affianca l’attributo dell’alter Christus. Privilegio escludente: una ministerialità riservata all’uomo (maschio) celibe.

Altro punto chiave: la complementarietà tra uomo e donna, citata dalla teologa, un topos archetipico della ecclesiologia cattolica, utilizzato come grimaldello “sentimentalistico” nel quadro della pastorale di coppia, cifra di un accordo dove ogni parte contribuirebbe alla funzionalità e al benessere dell’unione sponsale. Ma le cose non stanno così: parlare di complementarietà è mistificante e ipocrita, perché la parte riservata alla donna si colloca nella dimensione oblativa verso il partner maschio e verso i figli, una dedizione che quasi sempre diviene un ruolo ancillare, da cui ella non sfugge nemmeno se svolge anche una professione o un impiego all’esterno della famiglia. «La funzione del nutrire e la tenerezza non esauriscono le capacità delle donne e non sono neppure la naturalità e l’istinto a definire la natura delle donne… E neppure si può equiparare esclusivamente il femminino alla maternità, all’affettività… alla verginità, alla Vergine Maria o all’archetipo femminile» (E. Johnson, Colei che è) perché tale rappresentazione sarebbe una amputazione delle potenzialità delle donne, un dispositivo a favore del privilegio maschile e soprattutto una perdita per tutta la comunità.

I tentativi per evadere da tale confinamento sovente sono “controllati” da un guardiano della suddetta “complementarietà”: le intimidazioni, gli asservimenti psicologici oltre che materiali (esperte parlano di tecniche di tortura), e infine il femminicidio non sono fenomeni del passato. Più spesso non c’è bisogno di nessun guardiano, perché la costruzione dominante dell’identità femminile ha già provveduto istillando l’autocensura. Allo squilibrio materiale e simbolico e all’onere sulle spalle della donna che sconfessa la retorica dell’armoniosa complementarietà, la Chiesa risponde con il mito sacrificale femminile.

All’assetto clericale e sessista la Chiesa non sa, nonostante l’Evangelo, rinunciare. Non scardina la visione del mondo profondamente dualistica, dove il maschio sta alla femmina come l’autonomia alla dipendenza, la pienezza al vuoto, il dinamismo attivo alla passività. In tale disciplinamento di corpi e menti, le donne non possono essere compensate con enunciati idolatrici, nella riproposizione del modello «dell’esaltazione immaginaria della donna ma della sua insignificanza storica» (V. Woolf).

La secolare strategia di indurre le donne ad affidarsi al clero (pena la loro reputazione), la proclamazione di parole “alte” che le riguardano, creando rappresentazioni ideali che mistificano la realtà, si rivela uno storpiamento della fede a bei discorsi, smentiti poi nella pratica: quindi non solo fasulli, ma paternalistici e strumentali a logiche di dominio e oppressione. Ciò contro cui Gesù ha agito.

Ultimo punto: si dice «Uomo e donna... esprimono una diversità complementare rispetto al generare: secondo il proprio genere gli uomini generano, le donne mettono al mondo» (ripetuto due volte nella relazione). Perché l’autrice non esplicita chiaramente le due categorie usate: il generare e il mettere al mondo? L’enunciato è ambiguo; inquietante per le risonanze che suscita. Cosa si intende per generare vs. mettere al mondo? Quali sono le valenze differenziali tra l’uno e l’altro? Siamo usciti dalla logica della donna contenitore e del seme maschile vero generante, immortalata da Aristotele, da lui trasmessasi poi alla patristica e giù giù per secoli alla dottrina ufficiale della Chiesa?

Che il generare sia attributo dell’uomo, come osserva Tenace, evoca – ma spero di sbagliare – un allineamento con le posizioni di Tommaso d’Aquino: «Rispetto alla natura particolare, la femmina è un essere difettoso e manchevole. Infatti la verità attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto, simile a sé, di sesso maschile. Il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da una indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, per esempio dai venti australi che sono umidi, come dice il filosofo» (Sth q. 92, a. 1 ad 1). Sono archetipi assai radicati, caparbi, resistenti; la disumana pratica dell’utero in affitto (che la Chiesa contrasta) ne è testimone.

Lo sforzo per la decostruzione delle logiche androcentriche racchiuse nelle dottrine e nelle prassi delle Chiese, compiuto da donne credenti consapevoli, disseminate in tutte le Chiese cristiane, è stato enorme e ha dato frutti immensi. Alla base si annida il dono di un “talento” che è fiorito e continua a germinare: il talento dell’intelligenza del cuore; esso audacemente smonta ogni impalcatura teologica immiserente, che si traveste dell’autorità di Parola “vera”, ma che invece rinnega il “fare la verità”.

C’è chi queste cose le ha dette meglio di me: «Io credo in Dio... negli insegnamenti dell'Evangelo... aderisco con l'amore alla verità perfetta... Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell'intelligenza o le illuminazioni d'amore nell'ambito del pensiero. Le riconosco la missione... ma soltanto a titolo di indicazione. Non le riconosco il diritto di imporre i commenti di cui circonda i misteri della fede come se fossero la verità;... e tutto ciò senza preoccupazione alcuna di un possibile accordo o disaccordo con l'insegnamento dogmatico della Chiesa”. Simone Weil, Lettera a un religioso.

*Foto tratta dalla pagina Facebook dell'autrice, immagine originale

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