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Piove, si salvi chi può

Piove, si salvi chi può

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 19 del 03/06/2023

Piove sulle terre di Romagna ed è subito devastazione: oltre 23 tra fiumi e corsi d’acqua sono esondati allagando città, paesi, aziende e campi nella pianura, mentre sono oltre mille le frane attive prodottesi a monte. Ci sono ancora una volta dei morti e decine di migliaia di sfollati.

Naturalmente tutte le istituzioni gridano all’emergenza, ma c’è qualcosa che non torna. Perché, dizionario alla mano, emergenza significa circostanza non prevista. Ma come si fa a definire “circostanza non prevista” un fenomeno che, come dimostrano gli annuali rapporti dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), è strutturale?

Scorrendo l’ultimo di questi (2021) si legge che il 93,9% dei Comuni italiani (7.423) è a rischio frane, alluvioni e/o erosione costiera. Più precisamente, abbiamo 1,3 milioni di abitanti a rischio frane e 6,8 milioni a rischio alluvioni. Sempre secondo il rapporto, le regioni più a rischio sono Emilia Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria. Di conseguenza, pur se è caduta una quantità di pioggia non ordinaria in brevissimo tempo, è difficile considerare tutto questo non prevedibile. Sia perché siamo in pieno cambiamento climatico e gli eventi metereologici estremi non possono più essere considerati eventi straordinari, sia perché la fragilità del territorio è non solo nota, ma studiata da tempo.

E allora è un’altra la riflessione da aprire: cosa hanno fatto e/o stanno facendo le istituzioni per intervenire su una situazione ad alta vulnerabilità? È qui che letteralmente frana la narrazione dominante e che esce a pezzi anche il cosiddetto “buongoverno” dell’istituzione regionale.

L’Emilia-Romagna è terra di grandi bonifiche; quindi, oltre ai tanti fiumi e torrenti che scendono dalle Alpi e dall’Appennino, ha migliaia e migliaia di chilometri di canali di scolo e di irrigazione. Ha uno degli assetti idrogeologici più artificiali e ingegnerizzati del mondo, quindi oltremodo fragile. Un territorio che dovrebbe essere particolarmente preservato e che invece è stato pesantemente cementificato: l’Emilia Romagna è la terza regione italiana per impermeabilizzazione del suolo, che raggiunge il 9%, ben oltre la già altissima percentuale nazionale del 7,1%. Ed è anche la terza regione italiana per incremento del consumo di suolo nel 2021, con oltre 658 ettari in più ricoperti, equivalenti al 10,4% del consumo di suolo nazionale di quell’anno.

Il tutto è ancora più paradossale, perché la regione Emilia Romagna ha approvato una legge nel 2017, definita e propagandata come una norma contro il consumo di suolo. Peccato che, grazie a quella legge, si è continuato a costruire e asfaltare, non solo nel territorio in generale, ma addirittura nelle aree protette (più 2,1 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità frana (più 11,8 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità idraulica, dove l’Emilia Romagna vanta un vero e proprio record, essendo la regione con la maggiore cementificazione di aree alluvionali (più 78,6 ettari nelle aree ad elevata pericolosità idraulica e più 501,9 ettari in quelle a media pericolosità).

Ma non è certo l’Emilia Romagna l’unica regione in queste condizioni. Secondo gli studi della IPBS (Intergovernment Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Service) l’Italia è tra i Paesi peggiori d’Europa per il grado di modificazione degli ecosistemi terrestri e marini. Perfino nell’anno del lockdown e, nonostante la progressiva diminuzione degli abitanti, nel nostro Paese sono stati consumati cinquantotto chilometri quadrati di terreno naturale, agricolo o semiagricolo, con il primato, fra le regioni, di Veneto e Lombardia, e di Roma, Cagliari e Catania fra le città. Un’aggressione costante al suolo, al territorio, alla biodiversità che è la vera causa del fatto che eventi metereologici estremi producano nel nostro Paese danni esponenzialmente maggiori rispetto alla loro fisiologica virulenza.

Serve una radicale inversione di rotta, anche perché non vanno dimenticati i solenni impegni sottoscritti con l’Agenda 2030 dell’Onu sullo sviluppo sostenibile, che prevedono l’azzeramento del consumo netto di suolo, tramite demolizioni e rinaturalizzazioni dello stesso. Secondo i calcoli dell’Ispra, questo vorrebbe dire per il nostro Paese «un aumento netto delle aree naturali di una quota variabile fra i 316 km2 e i 971 km2».

Una radicale inversione di rotta consiste in alcuni passaggi determinanti. Il primo è l’uscita dalla cultura dell’emergenza e l’ingresso in quella della crisi climatica. Significa avere chiaro che se piove in maniera molto intensa dopo mesi di siccità, non si tratta di pioggia, ma di crisi climatica. La prima è un evento, la seconda una dimensione. La prima passa, la seconda va affrontata. La pioggia può diventare un’emergenza, la crisi climatica è l’ordinario scorrere delle nostre vite in un’epoca che ha squassato la relazione con la natura, basandola sull’estrazione, devastazione e predazione a scopo di profitto.

Il secondo passaggio è relativo alle scelte da mettere in campo. Il riassetto idrogeologico del territorio richiede un investimento, qui e ora, di 26 miliardi. Soldi considerati introvabili per il governo, il quale tuttavia, mentre si aggiusta l’elmetto davanti allo specchio, ne spende altrettanti per le armi e per la guerra. Ed è singolare il fatto che i fondi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) possano essere utilizzati per la fabbricazione di munizioni da destinare all’Ucraina e non possano essere destinati alla cura e alla manutenzione dei territori e delle persone che li abitano.

Sono scelte che dicono in quale direzione la società intenda muoversi: verso la rivoluzione della cura o ancora dentro l’economia del profitto, verso la democrazia economica o ancora sotto la dittatura del mercato, verso l’interdipendenza relazionale o di nuovo dentro l’onnipotenza patriarcale.

Marco Bersani, socio fondatore di Attac Italia (movimento per una nuova idea di economia pubblica e partecipativa), è stato tra i promotori del Forum italiano dei Movimenti per l'Acqua e della campagna “Stop Ttip Italia”

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