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La drammatica situazione dei cristiani di Gaza raccontata dal vescovo ausiliare di Gerusalemme

La drammatica situazione dei cristiani di Gaza raccontata dal vescovo ausiliare di Gerusalemme

L’ ACS Italia, Sezione italiana della Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, ha raccolto la testimonianza sulla situazione dei cristiani di Terra Santa vittime del conflitto armato in un colloquio con il vescovo ausiliare di Gerusalemme, mons. William Shomali (Shomali è anche vicario patriarcale per la Giordania e Amministratore Apostolico del Patriarcato latino).

Ecco cosa riferisce l’ACS.

Quanto ai fedeli presenti nella Striscia di Gaza, il prelato ha ricordato che «a Gaza prima della guerra vivevano 1.017 cristiani». Dopo lo scoppio del conflitto «la maggior parte di loro si è rifugiato nel complesso parrocchiale latino e una minoranza in quello greco-ortodosso». Questi sfollati «soffrono per la mancanza di elettricità, acqua potabile e cibo. Nei giorni scorsi, per fortuna, hanno potuto acquistare sacchi di farina. Una volta hanno ricevuto polli congelati, che dovevano essere cucinati e consumati in giornata perché non avevano frigoriferi». Quanto alle abitazioni, prosegue Mons. Shomali, «la maggior parte dei cristiani ha visto le proprie case distrutte. Vivono nelle aule delle nostre scuole. Una stanza di classe per una o due famiglie. Perciò, non potremo riprendere l’attività scolastica finché le famiglie non avranno ricostruito i loro appartamenti. Chi ricostruirà? Nessuno conosce quale sarà la situazione a Gaza all'indomani della guerra. Va da sé che continuiamo a pagare l’intero stipendio agli insegnanti delle nostre due scuole, altrimenti perderebbero l’unico reddito di cui dispongono».

Ovviamente non ci sono solo i danni materiali. «Trenta persone sono rimaste uccise nelle varie esplosioni avvenute. Sono inoltre già partite più di 250 persone, tra le quali cittadini con doppia cittadinanza, alcuni malati e studenti che intendono proseguire gli studi. Un'associazione, di appartenenza sconosciuta, chiede tra 7.000 e 8.000 dollari a persona per il permesso di uscire da Rafah in Egitto. Alcune famiglie sono riuscite a pagare, altre stanno cercando di raccogliere fondi per questo scopo. Adesso il passaggio di Rafah è chiuso. Gli abitanti di Gaza si trovano in una grande prigione».

Nonostante sia incentrato sulla Striscia di Gaza, il conflitto ha avuto un forte impatto anche sui cristiani palestinesi della Cisgiordania e su quelli di Gerusalemme Est. Circa i cristiani di queste comunità, il Vescovo ricorda che «circa il 40% di loro lavorava, direttamente o indirettamente, nel turismo. Sono guide, autisti di autobus turistici, dipendenti di alberghi, ecc. Il Covid aveva dato un duro colpo a questo settore. Si era appena ripreso quando è arrivato il 7 ottobre. Da allora non ci sono più stati pellegrini e questi cristiani hanno sofferto per la perdita del lavoro o per un drammatico calo del loro reddito. Il Patriarcato latino, sulla base di studi e statistiche, stima che solo nel settore del turismo siano più di 3.000 le famiglie che hanno perso il lavoro, senza contare le centinaia di persone impiegate come operai in Israele nel settore dell'edilizia o in altri settori».

A livello internazionale lo scontro ideologico fra i sostenitori di Israele e quelli della Palestina si sta infiammando, di conseguenza la voce delle comunità cristiane rischia di essere soffocata oppure distorta per finalità politiche. A fronte di ciò, Mons. William Shomali sottolinea quale sia il reale intendimento della comunità cristiana locale. «I due popoli in conflitto desiderano vivere in pace». Tuttavia, si chiede, «come risolvere un conflitto che ha un forte sfondo ideologico riguardante il possesso della terra? La stessa terra viene rivendicata da ambedue i popoli, gli ebrei per ragioni bibliche, i palestinesi per ragioni storiche. La soluzione sarebbe quella dei due Stati, con Gerusalemme città aperta e condivisa. La comunità cristiana non crede si possa risolvere il conflitto con la forza, che non fa che accrescere l’odio e preparare un altro ciclo di violenza. Solo una soluzione giusta può portare la pace e la riconciliazione».

Il Patriarcato Latino di Gerusalemme sta aiutando le comunità cristiane con diversi progetti, diversi dei quali finanziati anche da Aiuto alla Chiesa che Soffre. «L’appello umanitario, lanciato dal Patriarca dopo il 7 ottobre, ha prodotto una risposta favorevole grazie alla quale abbiamo potuto stabilire un programma di aiuto umanitario per Gaza e la Palestina. Con questo programma, aiutiamo le persone malate a ottenere i loro farmaci, sovvenzioniamo operazioni mediche, borse di studio, affitti delle case e aiutiamo le famiglie in difficoltà finanziarie. Con la società Saint-Yves, un ramo legale del Patriarcato latino, stiamo lavorando per migliorare la situazione ai check-point. La maggior parte di questi posti di blocco è stata chiusa dopo il 7 ottobre. Saint Yves è riuscita ad aprirne più di uno. Le chiese sono riuscite ad aumentare un po' le quote di permessi concessi da Israele per l’ingresso di un certo numero di lavoratori palestinesi, anche se non sono soddisfatte tutte le richieste. Abbiamo creato anche borse di lavoro per consentire alle persone di avere un reddito. In base al programma sono stati assunti 400 lavoratori, i quali ricevono uno stipendio di 650 dollari al mese. Sappiamo che questo aiuto è insufficiente per compensare la perdita delle entrate, ma almeno manteniamo le famiglie fuori dalla miseria, in attesa dei giorni migliori». 

Il Vescovo ausiliare di Gerusalemme conclude rivolgendosi ai benefattori di ACS. «Siamo grati ai benefattori di Aiuto alla Chiesa che Soffre per la loro vicinanza alla Terra Santa. Continuiamo a ricevere da loro un grande sostegno per i nostri progetti pastorali, nonché per i nostri bisogni umanitari. L’unico modo per ringraziarli è pregare per loro nei Luoghi Santi. Il Signore, che sa tutto, saprà come donare loro il centuplo».

*Foto di Dominio Pubblico

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