"Di nuovo me stessa": dall'abuso nella Famiglia di Maria alla libertà
FRIBURGO-ADISTA. «La grazia presuppone la natura. Non la distrugge, ma la perfeziona». Parte da una citazione di San Tommaso d’Aquino il libro di Birgit Abele, uscito a giugno in Germania per i tipi di Herder, Wieder ich selbst. Mein Weg aus dem Gefängnis spirituellen Missbrauchs (“Di nuovo me stessa. Il mio percorso fuori dalla prigione dell’abuso spirituale”). Un titolo che sembra un controcanto a un altro libro sull’abuso uscito qualche anno fa in Germania, Nicht mehr ich, “Non più io”, della teologa Doris Wagner, che racconta l'abisso dell'abuso sessuale da parte di un prete.
Birgit Abele, tedesca, nata in una famiglia cattolica, oggi counselor psicologica che accompagna vittime di abusi spirituali, ripercorre la sua storia: venticinque anni alla ricerca di Dio, trascorsi all’interno di una comunità religiosa nella quale conosce - all'epoca senza riconoscerle come tali - pesanti derive settarie, violenze psicologiche e spirituali e un sistema di governo tirannico basato su un concetto di obbedienza (e di ricerca della santità) distorto. Lo fa senza svelare l’identità della comunità né quella delle persone coinvolte, cambiando tutti i nomi, con eccezionale pacatezza, ma quanto racconta suona ai lettori di Adista estremamente familiare, dal momento che la comunità di cui si parla, facilmente riconoscibile per i molti elementi singolari (come sottolineato dal quotidiano cattolico tedesco Tagespost, 1/8), è la Famiglia di Maria, associazione di fedeli dal passato e dal presente molto controverso, attualmente commissariata dal Vaticano insieme al suo braccio sacerdotale (opera di Gesù Sommo sacerdote), su cui stiamo conducendo una inchiesta ormai da due anni dando voce a ex membri e testimoni.
Dunque, colui che l'autrice nel libro chiama “padre Bonifatius”, suo direttore spirituale e superiore, non è in realtà che il cofondatore della comunità, direttore spirituale e superiore p. Gebhard Paul Maria Sigl, attualmente sotto inchiesta del Vaticano; e madre Agnès, anch'essa oggi destituita dalle sue funzioni, diventa nel racconto “suor Angelika”. L'artificio letterario, però, “spersonalizzando” la comunità, consente (e questo è uno dei grandi valori del libro) di segnare una road map per tutte le persone che, dentro e fuori da analoghe situazioni di comunità caratterizzate da derive settarie e abusi, fanno fatica a vedere, riconoscere e dare un nome a quanto vivono o hanno vissuto.
Riconoscere un abuso
Perché è tanto difficile riconoscere un abuso? Birgit Abele lo spiega in modo estremamente efficace, raccontando situazioni ed episodi piccoli e grandi della sua vita comunitaria, iniziata ai vent'anni all'inizio degli anni '90 e vissuta in un sistema chiuso, di obbedienza cieca a superiori che spacciavano la propria volontà come volontà di Dio, e che in nome di tale volontà richiedevano l’annullamento della personalità dei membri; un'asticella sempre più alta da superare ogni giorno, pena l’emarginazione, l’umiliazione, il disinvestimento affettivo. La formazione impartita da “p. Bonifatius” Gebhard Sigl mirava a cancellare desideri ed esigenze, anche elementari, con una strategia subdola e meticolosa, e a esigere da se stessi, in modo sempre più perfezionista e ossessivo, una totale corrispondenza alle attese dei superiori, cioè di Dio; questo porta Birgit spiritualizzare ogni dimensione della propria vita, a provare perenni sensi di colpa, a una graduale cancellazione dell’autostima e a trascurare i segnali di sofferenza del proprio corpo (considerati nella comunità segni di debolezza o, peggio ancora, di mai sufficiente adesione e dedizione di se stessi a Dio).
È così che Birgit si ammala, di un malessere paralizzante e debilitante che la schiaccia per anni e che per lungo tempo nella comunità viene liquidato come segno di cattiva volontà, di debolezza nella fede. Colpisce, nel racconto di Birgit, il contrasto stridente tra l’iniziale slancio, l’entusiasmo spirituale con cui decide di compiere una scelta di vita comunitaria (e come lei tanti giovani generosi), pronta anche a sacrifici e privazioni in nome del sogno di consacrare a Dio la propria vita, e lo spegnersi graduale della sua individualità, dei suoi sogni, dei suoi talenti, che lascia campo libero a un'obbedienza “senza volontà”, passiva; e poi all’angoscia, alla paura, alla solitudine. La presunta grazia che, contraddicendo san Tommaso, schiaccia la natura, è una grazia distorta, non autentica, perché frutto di una concezione elitaria della comunità, intesa come unico baluardo spirituale di salvezza in un mondo terreno del quale si vede solo il male e che verrà presto cancellato dall’apocalisse, che risparmierà soltanto “il piccolo resto” fedele.
A Birgit ormai non importa più nulla della sua vita perché, nella violazione della propria sfera individuale, psicologica e spirituale inflitta in particolare dal superiore p. Sigl che è anche il suo direttore spirituale (in una sovrapposizione di ruoli che la Chiesa ormai condanna da tempo), la sua vita, la vita di Birgit, ha perso qualsiasi significato. È lui a prendere qualsiasi decisione per lei, dalla più piccola alla più importante; è a lui che va chiesto il permesso per qualsiasi cosa.
Sono anni di profonda sofferenza, di annichilimento interiore, di deprivazione emotiva, spirituale e affettiva in nome di un amore divino, pura formalità ed esteriorità, che si è fatto contraddizione, negazione dell'umanità, disumanità.
Ma il cammino di Birgit arriva a una curva che svela, in fondo, una luce, nel momento in cui la malattia le impone un distanziamento fisico dalla comunità. È lì, nel confronto con il mondo fuori, nell'ascolto di sé, che lei comincia a vedere e a comprendere, e a guarire. È nel rapporto con i terapeuti, con persone esterne, con libri diversi rispetto alle vite dei santi - unica lettura concessa -, con la Storia, che in quegli anni le è passata accanto senza che lei, rinchiusa in un mondo parallelo, se ne accorgesse, che Birgit intravvede per sé un futuro. Una formazione, una professionalità, uno sbocciare dei suoi talenti, dimensioni fino a quel momento umiliate nel semplice e monotono lavoro di “domestica” per la nobile causa della santificazione dei preti della comunità. Chiede e ottiene, a duro prezzo, di studiare; si laurea, prosegue e acquisisce una competenza di accompagnamento psicologico che potrebbe mettere in campo nella comunità, a fronte di tante situazioni di sofferenza più o meno velata simili alla sua, causate dalla tossicità del contesto; decide di andarsene quando tutto questo le viene negato e si trova davanti a un aut aut. Per “p. Bonifatius”, Birgit, con la sua ormai sviluppata autonomia di pensiero e l’acquisita responsabilità spirituale individuale, è ormai pericolosa per la comunità, dove l’unica legge è il suo pensiero unico del superiore, unico interprete della volontà di Dio, e dove il mantra è “là fuori non sei nessuno”.
Birgit si ritrova in un mondo nuovo, a dover imparare per la prima volta a vivere. Lotta con la solitudine, con i tempi della vita “normale”, con le bollette da pagare, ma trova la risposta ai suoi sforzi nel mettere a disposizione delle persone come lei sofferenti il suo bagaglio di vita. Chi meglio di lei può comprenderle e aiutarle?
Di seguito riportiamo, in una nostra traduzione dal tedesco, per gentile concessione della casa editrice Herder e dell'autrice, alcuni stralci del libro, che contiene una prefazione di Peter Hundertmark, dottore in filosofia, assistente pastorale, guida spirituale, attivo nel dipartimento di formazione spirituale/esercizi spirituali presso l'Ordinariato Vescovile di Speyer e anche noto per il blog che anima; e una postfazione della teologa Barbara Halsbeck dell’Università di Regensburg, che mette in risalto le quattro risorse che hanno aiutato Birgit a trovare la direzione per la propria vita e a liberarsi da una vita comunitaria malsana: ascoltare il corpo e l’anima, avere contatti con l’esterno, studiare e formarsi, fare scelte in autonomia.
La grazia presuppone la natura. Non la distrugge, ma la perfeziona.
"Di nuovo me stessa"
Il mio libro rappresenta le numerose persone che soffrono e che non hanno il coraggio o la forza di raccontare le proprie esperienze. Spero che possa contribuire a smascherare più rapidamente l'abuso spirituale e a proteggere le vittime. I responsabili nella Chiesa non devono più voltarsi dall'altra parte o minimizzare il fenomeno, perché ormai è noto che l'abuso spirituale può penetrare profondamente nella personalità e avere effetti devastanti sull'autostima e sulla capacità di sopravvivenza delle vittime, proprio come l'abuso sessuale. (…) (p. 13)
“Senza Dio non sono nulla”
P. Bonifatius ci esortava a diventare "grandi oranti e adoratori". Ciò che siamo senza la preghiera, lo ha espresso più volte con la frase: “Io non sono niente, non so nulla, senza Dio”. “Senza Dio non sono nulla", questo è ciò che avremmo dovuto tenere a mente in tutto ciò che facevamo, senza contare sulla nostra capacità o sulle nostre conoscenze. La preghiera aveva quindi un'importanza molto elevata ed era al di sopra di tutto. Erano obbligatori tre rosari al giorno, ma i tempi di preghiera si sono poi allungati sempre di più, cosicché è cresciuta la sproporzione nel rapporto tra preghiera, lavoro e riposo. Cinque o sei ore di preghiera al giorno sono diventate perfettamente normali.
Il Padre ci insegnava che, affinché Dio potesse occupare tutto lo spazio in noi, il nostro io doveva essere completamente cancellato. Perciò i nostri desideri e i nostri bisogni dovevano essere abbandonati: ci incoraggiava non a pensare, ma solo ad amare. Ci suggeriva di non ascoltare i nostri sentimenti, perché avrebbero potuto ingannarci.
Oggi so che una concezione di questo genere è in contraddizione con una mistica autenticamente cristiana, che integra sempre tutti gli aspetti dell'essere umano, cioè corpo, anima e spirito. Soprattutto nel discernimento dello spirito secondo sant'Ignazio di Loyola, la percezione dei propri sentimenti gioca un ruolo centrale. Dio opera attraverso il nostro Sé e la nostra personalità: «La grazia presuppone la natura», diceva già san Tommaso d'Aquino, «non la distrugge, ma la perfeziona».
Ho invece sperimentato che in molti nella comunità non sono stati in grado di sviluppare una personalità sana, o addirittura che singole parti della personalità sono state represse. Alcuni si sono spezzati sotto il peso del sistema. Quando invece l'essere umano viene considerato nella sua totalità e gli è permesso di sbocciare, riceve tutto ciò di cui ha bisogno per vivere. Dalla mia prospettiva attuale, mi chiedo: i leader, svalutando la dimensione umana, non finiscono per sopraffare il Creatore, che ha dotato l'uomo non solo di spirito, ma anche di corpo, sentimenti e bisogni? (...) (pp. 129-130)
Attendere tutto da Dio
All'interno della comunità, non solo l'aspetto umano, ma anche quello terreno era fortemente svalutato. Il mondo materiale veniva presentato dai superiori come un polo opposto al divino. Dobbiamo cercare il meno possibile aiuto terreno e attendere tutto da Dio. P. Bonifatius disprezzava le scienze umane, in particolare la psicologia, le considerava addirittura un ostacolo all'opera di Dio.
Trovo questo dualismo pericoloso. Dio non può forse servirsi anche della conoscenza e delle capacità umane per mostrare il suo amore verso gli uomini? Non viene forse limitato nelle sue possibilità da una visione del mondo di questo genere?
Solo dopo aver lasciato la comunità mi sono resa conto che il mondo non era affatto così cattivo come veniva rappresentato all'interno della comunità. C'erano anche molte cose buone e persone incredibilmente amorevoli. In realtà, ho ricevuto molta più comprensione e molto più sostegno fuori che all'interno della comunità. Oggi mi sembra che questo pensiero negativo sul mondo, drasticamente rappresentato in bianco e nero, costituisse anche uno strumento di pressione, di intimidazione sui membri orientati a lasciare la comunità.
Anche la Chiesa veniva divisa in buona e cattiva. C'era scetticismo nei confronti della Chiesa istituzionale, spesso descritta - non solo dai superiori, ma anche dai membri - come chiusa all'opera dello Spirito Santo. Agli occhi del “Padre”, perfino il Santo Padre non era mai pienamente adeguato alla sua missione, indipendentemente da chi fosse. La nostra vocazione appariva quindi ancora più importante per il rinnovamento della Chiesa e del mondo. La nostra spiritualità era considerata la migliore e doveva pertanto essere trasmessa a tutti gli esseri umani.
Ora so che si tratta di un fenomeno tipico delle comunità spiritualmente abusanti e rappresenta un tratto distintivo delle strutture settarie. L'esaltazione della propria spiritualità spesso si accompagna a una sorta di megalomania cristiana e a un pensiero elitario. Non di rado vi sono implicati elementi narcisistici, che coinvolgono tutta la comunità senza che questa se ne renda conto. Chi non desidera essere "speciale"? Ciò che trovo pericoloso è da un lato lo sviluppo di un orgoglio spirituale, la convinzione di “corrispondere maggiormente alla grazia” rispetto al resto del mondo. Dall'altro, l'idealizzazione porta sempre a una svalutazione, a considerare l'altro meno prezioso, non rendendogli giustizia. (…) (pp. 130-131).
Non amare in modo umano, ma in modo divino
Questa polarità tra il Divino e l'Umano si manifestava anche nell'esigenza di un amore assoluto per il prossimo. I nostri superiori ci esortavano ad amare gli altri non in modo umano, ma divino. Questo amore ultraterreno dovevamo riceverlo nella preghiera e nella santa comunione. Non mi è mai stato chiaro esattamente dove si trovasse la linea di demarcazione tra l'amore umano e quello divino. "È troppo umano osare chiedere a una sorella che ha l'aspetto stanco come ha dormito?", mi domandavo a volte. Possiamo davvero amare gli esseri umani "in modo divino" senza provare amore umano? Non è forse vero che l'amore divino arricchisce e ispira il nostro amore umano?
Purtroppo, spesso l'ideale elevato di un amore totalizzante non riusciva a tenere il passo con la realtà. Molte volte quello che restava era solo lo sforzo disperato di apparire amorevoli esteriormente, mentre la realtà interiore era ben diversa, più simile a un "Devo amarti per forza, anche se non ti sopporto". Anche qui mi sembra che mettendo troppa enfasi sul divino, l'umano rimane in secondo piano e il rapporto diventa "disumano". Nonostante le normali debolezze umane, mi sentivo intimamente legata a tutte le consorelle e ai confratelli della comunità: mai prima e mai dopo ho provato un senso così forte di appartenenza. Pensavo fosse amore. Oggi direi che era un legame.
Anche se all'interno della comunità c'era un'atmosfera amorevole, si veniva esclusi da questo affetto incondizionato non appena si dimostrava di non essere all'altezza delle aspettative o si esprimeva un'opinione diversa da quella desiderata. Anche se si parlava molto di amore e tutti si sforzavano di "amare", non ritengo che questo termine sia appropriato, perché: "Dove c'è lo Spirito del Signore, là c'è libertà" (2 Corinzi 3,17). Solo quando l'amore lascia l'altra persona libera e ha a cuore il suo benessere, merita questo nome.
Se avevamo angosce interiori, dovevamo confidarle solo al “Padre” e alla “Madre” o eventualmente al prete nella nostra stazione missionaria, ma mai con le altre consorelle o con i confratelli. Ciò che accadeva agli altri, ciò che li preoccupava o li affliggeva, ci era quindi in gran parte sconosciuto. All'esterno si vedeva solo la gioia e il sorriso luminoso. Spesso avevo la sensazione che vivessimo fianco a fianco senza mai incontrarci davvero. Oggi capisco che la vita comune e i rapporti affettuosi si arricchiscono enormemente se si rivolge uno sguardo all'interno del mondo interiore dell'altro. (…) (pp. 133-134).
Cancellazione dell’individualità
Una volta p. Bonifatius affermò di guidare la comunità e gli individui esclusivamente grazie alla rivelazione che riceveva da Dio, non attraverso considerazioni umane o teorie. Per noi era quindi ancora più importante essere in stretto contatto con lui per ricevere le sue ispirazioni. Poteva arrivare a dichiarare alle postulanti che avevano una vocazione per la vita consacrata, senza che queste si fossero mai decise interiormente in questo senso. Analogamente, scoraggiava le sorelle che, dopo una riflessione attenta, avevano deciso di uscire, dicendo loro che si trattava di una tentazione del nemico. Poiché tutti credevano che lui sentisse la voce di Dio, gli affidavano fiduciosamente le loro vite e si attenevano ai suoi insegnamenti.
Eravamo sempre tenuti a diffidare dei nostri pensieri e sentimenti. Anche le decisioni più irrilevanti dovevano essere prese in consultazione con i superiori generali. P. Bonifatius sottolineava quanto fosse importante fidarsi ciecamente di questa guida, tanto che un giorno espresse questa richiesta: se avessimo visto un muro bianco, ma lui ci avesse detto che era nero, avremmo dovuto credere che era nero. Soprattutto quando arrivavano tempi difficili, era fondamentale affidarsi completamente ai suoi comandi. Così il suo particolare carisma diventava l'unica guida.
Ed è qui che vedo il punto critico: invece di sostenere i membri nella loro ricerca personale di Dio, p. Bonifatius si sostituiva a Dio. Entrava nella sfera spirituale più intima dell'individuo e prendeva il controllo. Di conseguenza, occupava un ambito che in realtà spetta solo a Dio. Rendeva i membri dipendenti da lui e li dissociava da loro stessi. Qui avviene esattamente ciò che il gesuita Klaus Mertes descrive come confusione tra le persone spirituali e la voce di Dio (cfr. Klaus Mertes, “Geistlicher Missbrauch: Theologische Anmerkungen” (“Abuso spirituale. Osservazioni teologiche”), in Stimmen der Zeit 2/2019, 93-102). Non solo il leader stesso si prende per la voce di Dio, ma lo prendono per Dio anche coloro che gli sono affidati.
Nel corso del tempo ho osservato come alcuni membri della comunità adottassero tratti della personalità dei superiori, come l'imitazione della calligrafia, delle espressioni facciali e dei gesti, delle parole e del modo di parlare. Tali comportamenti venivano valutati positivamente dagli altri confratelli e consorelle e considerati come "unità vissuta con il Padre e la Madre". Oggi questo mi spaventa. P. Bonifatius e suor Angelika erano diventati dei miti a cui ciascuno aspirava, senza rendersi conto del fatto che la propria personalità finiva sempre più in secondo piano. Questo non corrisponde all'unicità che Dio ha donato a ciascuno!
Suor Angelika ci consigliava spesso, quando non sapevamo come decidere o agire al meglio, di unirci spiritualmente a lei o a p. Bonifatius, così da ottenere chiarezza interiore. Sempre più i superiori, e non Dio, diventavano il metro di giudizio. Si veniva giudicati sulla base di quanto si fosse spiritualmente uniti a loro e si vivesse secondo il loro volere. Se si osava criticare una loro decisione, ci si trovava sotto un sospetto generalizzato. (...)
Il “Padre” una volta disse che l'amore di Dio per noi è così grande da rendere quasi ridicolo affermare di non aver ricevuto abbastanza amore dai genitori: non dovremmo guardare al passato, ma al futuro. Citò ad esempio la moglie di Lot, che si trasformò in una colonna di sale quando guardò indietro verso Sodoma. L'elaborazione del proprio passato era considerata egoistica e superflua. Se soffrivamo di tristezza e ansia, dovevamo unire la nostra sofferenza alla paura della morte di Gesù nel giardino di Getsemani e offrirla a Dio. Questo è stato per lungo tempo il nostro credo.
Non aveva molta stima degli psicologi, li derideva persino, dicendo che ricevevano un sacco di soldi per ascoltare i pazienti per un'ora. Sosteneva persino che se le persone fossero tornate a confessarsi di più, le sale d'attesa dei terapeuti si sarebbero svuotate. In questo modo, sminuiva le sofferenze emotive. Solo quando sempre più membri hanno cominciato a soffrire di depressione la “Madre” ci ha consigliato di parlare con lei o con il “Padre”, se avevamo un malessere interiore. Ai membri colpiti da depressione è stato poi permesso di andare solo da determinati psicoterapeuti, che corrispondevano alle idee della leadership.
Oggi considero una parte fondamentale della vita umana affrontare le proprie ferite interiori. Chi è ferito, ferisce. Solo accettando e integrando le proprie esperienze dolorose può avvenire una guarigione profonda nei rapporti con se stessi, con gli altri e con Dio. (pp. 134-135).
Manipolazione spirituale
Ciò che p. Bonifatius ci insegnava era per lo più basato sulle sue esperienze personali e sui vissuti dei mistici. Non si faceva alcun riferimento alla tradizione spirituale ed ecclesiastica. Le deviazioni teologiche e spirituali ne erano una conseguenza. Il «siate miei imitatori» (Fil 3,17) non sarà mai adatto a tutti i membri. Piuttosto, si tratta di seguire Cristo ognuno secondo la propria individualità.
L'influenza dei superiori era immensa: erano l'unica guida in tutte le questioni della vita spirituale e profana. P. Bonifatius non solo prendeva decisioni sull'allestimento delle cappelle e degli spazi esterni delle case, ma anche sull'aspetto dell'abbigliamento delle suore, sui film, sui libri e sulla musica consentiti, sul consumo di alcol, sull'esercizio dello sport e su molti altri aspetti della vita comunitaria. Ad esempio, stabilì che le suore potessero leggere solo libri sui santi. A molte di loro persino questo era impedito. Suor Angelika si consultava per la maggior parte delle decisioni con p. Bonifatius e le prendeva solo nell’interesse di lui, diventando così il suo organo esecutivo unico.
P. Bonifatius aveva la funzione di guida spirituale per quasi tutti i membri della comunità. Tuttavia, a causa dei suoi numerosi impegni al di fuori della comunità e dei suoi viaggi, era difficile da raggiungere. Una volta disse che la sua guida spirituale si esprimeva anche attraverso le sue omelie, che venivano regolarmente registrate e inviate a tutte le case. Da ciò derivava un certo obbligo di ascoltarle tutte; nei momenti più intensi, questo poteva significare ascoltarle anche ogni giorno. I membri trascrivevano molte delle sue prediche e le inviavano, così come le meditazioni della via Crucis di “suor Angelika”. In quasi tutti i momenti di preghiera, le sorelle e i fratelli usavano queste meditazioni per riflettere tra le decine del rosario o le stazioni della Via Crucis. Così, eravamo immersi nell'insegnamento della comunità dal mattino alla sera e completamente pervasi da esso.
Se un sacerdote non predicava esattamente secondo questa dottrina, veniva considerato sospetto. Avere un'opinione propria che si discostasse da quella dei superiori era impensabile. La maggior parte dei membri adottava acriticamente le idee della comunità, che diventavano gradualmente una seconda natura. Il proprio pensiero veniva così annullato. La manipolazione era totale e pervasiva, rafforzata dal fatto che avevamo pochissimi contatti con persone al di fuori della comunità. E se ce n'erano, erano principalmente amici e benefattori, entusiasti del nostro lavoro. In tutto questo, ero convinta che l'insegnamento della comunità fosse assolutamente cattolico. Ora so che in alcuni aspetti contraddice la dottrina cattolica e soprattutto manca dell'“et... et” cattolico.
Quello che ci è successo può essere descritto con il termine di rimodellamento del pensiero. È simile a un lavaggio del cervello, ma avviene in modo più sottile e dura molto più a lungo. Via via siamo diventati marionette, eseguendo senza volontà gli ordini dei superiori. Mi sentivo come se fossi stata pressata in uno stampo, dove non c'era spazio per la mia persona. I bisogni individuali venivano trascurati, poiché il gruppo era più importante dell'individuo, in analogia con la dottrina nazista: “Tu non sei nulla, la tua nazione è tutto!”. (…) (pp. 140-141)
Finalmente, lo studio
(…) Gli studi mi hanno messo in contatto con persone le cui situazioni esistenziali erano completamente diverse: senzatetto, malati di mente, giovani autori di reati, morenti e molti altri. Ho imparato a conoscere la realtà e sono uscita dal mondo parallelo spirituale della comunità. Questo mi ha fatto bene e mi ha aiutato a ampliare i miei orizzonti. Solo con il linguaggio giuridico e le innumerevoli leggi non sono mai riuscita ad andare d'accordo. Il nostro docente di politica insisteva sul fatto che dovessimo essere informati sugli eventi politici dell’attualità, e lo dava per scontato durante le lezioni. Noi sorelle non dovevamo occuparcene. Mi sono trovata in conflitto interiore: ascoltare o leggere le notizie oppure no? Alla fine ho concluso che leggere le notizie faceva parte degli studi, quindi mi sono quasi data il permesso di seguire quotidianamente gli sviluppi politici. All'inizio mi sentivo in colpa. Poi una volta ho letto di un santo che pregava particolarmente bene dopo aver ascoltato le notizie, focalizzandosi proprio su quelle questioni. Questo mi ha tranquillizzato. Informarsi, quindi, sembrava non confliggere con il cammino verso la santità.
Per 18 anni non avevo avuto accesso alle notizie. Nella comunità non avevamo accesso né a televisori né a radio o giornali. Non ci era permesso navigare in internet, o dovevamo chiedere il permesso alla Madre superiora ogni volta che volevamo cercare qualcosa. Di conseguenza, oggi mi manca la conoscenza di quasi 20 anni di eventi politici e sociali mondiali. L'unica "fonte di notizie" erano le prediche di p. Bonifatius, che spesso affrontava eventi specifici e li interpretava secondo il suo punto di vista, spesso attraverso teorie del complotto. Non avevamo la possibilità di formarci un'opinione indipendente. (…) (pp. 188-189).
“Non uscire dalle righe”
Una volta che suor Angelika venne a visitarci nella nostra stazione missionaria, durante la preghiera mattutina parlò di due consorelle che, nella casa madre, si erano sedute a un certo tavolo, mentre tutte le altre erano sedute a un altro. Ci ammonì a sottometterci sempre alla comunità e a non uscire dalle righe. Ero scioccata: dov’era lo spazio per l'individualità e la libertà personale, se persino sedersi a un altro tavolo era considerato scorretto?
Inoltre, l'elezione di papa Francesco venne vista molto criticamente nella comunità. P. Bonifatius lo definì addirittura «lupo travestito da pecora». Ero molto scettica verso questi sviluppi, con molti dei quali non riuscivo più a identificarmi.
Mi sentivo sempre meno a casa in questa spiritualità ed ero felice di avere ottenuto un mio appartamento, dove potevo crearmi un po' di spazio personale. Notai anche che sempre più membri della comunità soffrivano di depressione, sviluppavano disturbi psicosomatici o si ammalavano fisicamente. Ho visto suore completamente oberate di lavoro che alla fine crollavano. Una volta ho persino sentito parlare di un tentato suicidio di una consorella, che però è stato tenuto segreto. Spesso vedevo le suore piangere di nascosto. Un'amica mi ha persino raccontato di una persona che, dopo una giornata di preghiera con p. Bonifatius, ha dovuto chiedere un aiuto psichiatrico. Dietro la lucente facciata c'era molto dolore personale. Questa parte negativa della comunità all’esterno non era visibile. (…) (p. 193).
Un sistema chiuso
Durante il corso di formazione in Terapia sistemica, presi consapevolezza del fatto che la “Comunità dell'Amore” era un sistema chiuso. Si era fortemente isolata rispetto alla società. Molte cose che venivano dette al suo interno non dovevano essere divulgate all'esterno. Il mondo esterno veniva giudicato negativamente, e si riteneva necessario proteggersene. All'interno, però, i responsabili superavano gravemente i confini delle persone loro affidate. Non rispettavano né la spiritualità personale, né la relazione personale con Dio, né la responsabilità individuale nelle decisioni importanti della vita. Al contrario, ci imponevano una certa spiritualità dell'unità, a prescindere dal fatto che fosse adatta o meno alla persona.
Ho imparato che questi sono tratti caratteristici di sistemi dannosi. Ogni giorno comprendevo sempre di più il motivo per cui non mi sentivo a mio agio in quel contesto. Questa consapevolezza mi ha dato sempre più la libertà interiore di distanziarmi dai rigidi criteri della comunità. Complessivamente, il percorso di formazione in Terapia sistemica mi ha notevolmente rafforzato nel mio cammino verso la responsabilità spirituale individuale. Nel frattempo, sotto una stretta supervisione, ho iniziato ad accompagnare i miei primi clienti. Dall'ambiente della comunità sono arrivate in breve tempo diverse persone interessate, e ho allestito nella mia abitazione un piccolo spazio per le sedute di terapia. Il lavoro mi dava molta gioia e significato. Anche i clienti erano grati. Finalmente sembrava che ciò per cui avevo studiato per anni si stesse realizzando. Avevo l'impressione di essere vicina al traguardo. (…) (p. 203)
L’abuso spirituale
Alcuni mesi dopo, ascoltando Radio Horeb, ho sentito una trasmissione che trattava, tra le altre cose, dell'abuso spirituale. Questo termine mi era completamente nuovo. Tra i libri consigliati per ulteriori letture ce n'era uno di Inge Tempelmann: l'ho ordinato subito e ho iniziato a leggerlo. Ciò che ho scoperto mi ha lasciato senza parole. Le mie esperienze vissute nella comunità venivano descritte con precisione: pensiero elitario, disprezzo per la dimensione umana, richieste irraggiungibili... tutto questo rappresentava chiari segni di abuso spirituale. Sono rimasta particolarmente sconvolta quando ho preso coscienza del fatto di avere subìto processi di rimodellamento del pensiero e di controllo della coscienza, simili a un lavaggio del cervello. Ne avevo sperimentato anche le tristi conseguenze.
Solo in quel momento ho capito di essere stata vittima di abuso spirituale e di non essere un caso isolato, come pensavo fino a quel momento. Ho letto il libro solo in modo frammentario, non riuscivo a sostenerlo, poi l'ho messo del tutto da parte. Le nuove conoscenze acquisite mi avevano scossa nel profondo, ed ero troppo impegnata a costruire la mia nuova vita concreta per avere la forza interiore di approfondire e affrontare questa problematica. Per questo l'ho nuovamente rimossa. (…) (pp. 214-215)
Una ferita che farà sempre male
Ci sono voluti circa due anni prima che la mia nuova vita si consolidasse in qualche modo e che trovassi la mia strada sia a livello professionale che personale. Un periodo difficile, caratterizzato da tentativi ed errori e da alcune sconfitte personali. In ogni difficoltà ho sempre sperimentato l'aiuto e la vicinanza di Dio. Passo dopo passo, mi ha guidato attraverso le onde di un riorientamento totale e mi ha sempre portato al momento opportuno le persone giuste che mi hanno aiutato ad andare avanti.
A posteriori, sono molto grata per queste esperienze. Mi hanno aiutato a comprendere meglio chi si trovava in situazioni simili, il che mi è utile nel mio attuale lavoro di consulenza e terapia. La convinzione incrollabile che, confidando in Dio, tutto possa andare bene ha profondamente segnato la mia vita.
Considero un grande dono non aver perso la mia fede personale nonostante le esperienze di abuso vissute nella comunità. Allo stesso tempo, capisco le persone coinvolte che si allontanano da Dio e dalla Chiesa. Il trauma subìto e le sue conseguenze possono essere troppo dolorosi per intraprendere di nuovo questo cammino. Con il gesuita Klaus Mertes posso dire oggi: «L'abuso spirituale ha effetti devastanti per coloro che ne sono coinvolti e lascia una ferita che fa male per tutta la vita» (Klaus Mertes, ibidem, 94). (p. 215)
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