Violenza in Mozambico: l'ambiguo accordo tra esercito e multinazionali
ROMA-ADISTA. Sul sito di Pagine Esteri – testata diretta dal giornalista Michele Giorgio, che si occupa in particolare di Medio Oriente, Mediterraneo e Africa – il 3 ottobre scorso è stato pubblicato un inquietante approfondimento (urly.it/311hw9) di Marco Santopadre (giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, analista esperto di Mediterraneo, Medio Oriente e Africa), nel quale si raccontano le atrocità commesse nell’estate 2021 ai danni delle comunità locali da reparti dell’esercito mozambicano incaricati – in un contesto di forte instabilità, segnato da anni di conflitto contro le milizie jihadiste dilagate nella provincia settentrionale di Cabo Delgado – «di proteggere un impianto per la produzione di gas naturale liquefatto, di proprietà di un consorzio guidato dalla compagnia petrolifera francese TotalEnergies nel nord del Paese africano».
La fonte cui attinge il giornalista è una dirompente inchiesta (urly.it/311hw8) di fine settembre del quotidiano statunitense Politico, secondo il quale, spiega il giornalista di Pagine Esteri, «nell’estate del 2021, molte decine di persone sono state massacrate dai militari mozambicani incaricati di proteggere lo stabilimento della penisola di Afungi», i cui lavori sono fermi da anni per via della guerra ma che la multinazionale francese non sembra intenzionata a mollare.
L’inchiesta di Politico ha potuto ricostruire i fatti dell’estate 2021 grazie alle interviste rilasciate alla testata da alcuni abitanti della zona e da 13 (su un totale di soli 26) sopravvissuti al massacro: nel pieno dei combattimenti – con l’avanzata senza sosta dei miliziani jihadisti che avevano messo a ferro e fuoco la vicina città di Palma (v. Adista online, 01/04/2021) provocando centinaia di migliaia di sfollati – i militari avrebbero spinto centinaia di abitanti dei villaggi a rifugiarsi in un presidio fortificato dell’esercito, vicino allo stabilimento della Mozambique Lng, una sussidiaria di Total nel Paese africano. Lì si sarebbero consumati, con l’accusa ai civili di fiancheggiare i terroristi, tre mesi di esecuzioni sommarie, torture, stupri e reiterate violenze di ogni genere. La stragrande maggioranza degli sfollati sarebbero morti di stenti e di violenze durante la prigionia, mentre ai pochi sopravvissuti – salvati dal provvidenziale arrivo dell’esercito ruandese nell’ambito di una missione militare multinazionale anti-jiahdista al fianco dell’esercito mozambicano – è stato intimato, sotto la minaccia di pesanti ritorsioni, il silenzio, che loro hanno diligentemente osservato negli anni seguenti.
I contorni di quella strage, delineati dal servizio di Pagine Estere, fanno venire i brividi. Così come le ipotesi di un indiretto coinvolgimento, come in casi analoghi, delle multinazionali estrattive che assoldano milizie o stringono accordi con eserciti regolari e paramilitari per la salvaguardia di infrastrutture strategiche in contesti caldi, magari chiudendo un occhio su repressione e violenza ai danni delle popolazioni civili.
La Provincia di Cabo Delgado è sotto l’attenta lente di ingrandimento della comunità internazionale per le efferate violenze esercitate dalle milizie jihadiste affiliate allo Stati Islamico sin dal 2017; ma anche della società civile, italiana in testa, proprio per la drammatica congiunzione tra instabilità, violenza e ruolo delle multinazionali estrattive.
Su questo tema lanciavano l’allarme, a fine 2020, 18 organizzazioni ambientaliste non governative diffondendo, in occasione del quinto anniversario dell’Accordo di Parigi sul Clima (12 dicembre 2015), il rapporto Five Years Lost. How Finance is Blowing the Paris Carbon Budget, che esaminava 12 mega-progetti fossili nel mondo, dalle prevedibili conseguenze sul piano climatico, ma anche sulla tutela dei diritti umani e sulla vita delle comunità locali (v. Adista online, 16/12/2020). Tra i casi presi in esame dal rapporto, anche quello di Cabo Delgado, dove 10 anni prima venivano scoperti enormi giacimenti di gas: da allora iniziava l’attività industriale di estrazione e, parallelamente, la devastazione delle foreste e le violenze contro la popolazione civile. Scriveva perentorio Alessandro Runci di Re:Common, tra gli autori del rapporto: «In Mozambico la scoperta di enormi riserve di gas si è trasformata in una maledizione per le comunità locali».
Total – ma anche ENI, l’altro grande player nella regione – sapevano bene dove andavano a fare affari, ed erano consapevoli delle violenze subite dalle popolazioni locali per mano degli jihadisti e delle milizie mozambicane. In seguito all’inchiesta di Politico, Re:Common ha preso posizione (26 settembre), denunciando i silenzi della multinazionale francese ma anche il coinvolgimento italiano in Mozambique LNG, legato ai 950 milioni di euro di garanzia investiti dall’assicuratore pubblico SACE a copertura dei prestiti di Cassa Depositi e Prestiti. Milioni garantiti, a quanto pare, chiudendo un occhio sulla valutazione del rischio ambientale e sociale del progetto estrattivo.
Insomma, dopo l’inchiesta di Politico, i vertici di Mozambique Lng hanno cercato di fugare ogni sospetto su un loro coinvolgimento seppur indiretto, ribadendo di non sapere nulla di quanto successo e dichiarandosi estranei ai crimini di guerra denunciati, proprio perché avrebbero abbandonato l’impianto per mettersi in sicurezza subito dopo l’aggressione jihadista alla città di Palma. Il nodo portato alla luce dalle inchieste, però, resta: in particolare il coinvolgimento delle multinazionali estrattive e della finanza internazionale nelle violazioni dei diritti umani in contesti instabili ma ricchi di materie prime. (giampaolo petrucci)
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