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Guerra coloniale, guerra di sterminio

Guerra coloniale, guerra di sterminio

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 36 del 19/10/2024

Quando oggi parliamo di neocolonialismo intendiamo normalmente la pratica messa in atto dai Paesi ricchi di tenere i popoli del Sud del mondo in uno stato di subalternità sia a livello economico, sfruttando le loro risorse agricole e minerarie, sia sul piano politico, condizionando le scelte dei loro governi, sia su quello culturale, imponendo i loro costumi e la loro visione del mondo.

Ma se prendiamo in considerazione ciò che sta succedendo oggi in Palestina possiamo dire che il neocolonialismo può essere anche altro; può essere la ripresa in chiave moderna di quello che è stato il colonialismo classico, soprattutto quello di “popolamento”, basato sullo svuotamento di interi territori per fare posto ai nuovi coloni con la cacciata o l’eliminazione degli abitanti originari.

In una parola l’odierno colonialismo rende palese l’orrore del colonialismo del passato che nel corso di alcuni secoli ha spazzato via alla faccia della terra centinaia di milioni di esseri umani. Facendo il rapporto fra gli abitanti di allora e quelli di ora, possiamo oggi calcolare in termini di miliardi le vittime del colonialismo.

Un motto in uso durante le contestazioni studentesche del ‘68 era una famosa frase di Tacito riguardante le guerre di sterminio condotte dai romani a danno dei popoli germanici, colpevoli di resistere: «Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace». In quegli anni ci si riferiva in particolare alla guerra del Vietnam, quando l’esercito americano per piegare la resistenza dei partigiani vietnamiti bruciavano terreni e villaggi provocando un numero incalcolabile di vittime tra i civili.

Così oggi in Palestina. Le violenze perpetrate da quasi 80 anni dall’esercito israeliano (per non parlare dei coloni) a danno dei palestinesi, col progetto di ricostituire la grande Israele, quella di duemila anni fa, sono all’origine dei massacri di oggi, che hanno come scopo la soluzione finale: la cacciata dei palestinesi dalle loro terre per far posto agli ebrei. A questo scopo è funzionale l’uccisione di un gran numero di civili (oltre, è evidente, dei combattenti di Hamas): se ne dovranno andare tutti, e se non vogliono andarsene con le buone, tanto peggio per loro. L’idea di inglobare nello Stato ebraico un gran numero di palestinesi, perseguita per anni dai governi che si sono succeduti in Israele, sembra essere tramontata. Da un lato gli israeliani di origine araba sono visti come un pericolo interno, dall’altro il loro utilizzo come manodopera sfruttata e sottopagata non sembra più tanto conveniente, dato l’afflusso sempre più massiccio di immigrati asiatici, disposti a tutto pur di lavorare in Israele.

Sembra che su tutto ciò non ci sia un’adeguata consapevolezza nell’opinione pubblica. Certo, tutti quei morti esibiti in diretta TV inducono tanti a un sentimento di pietà, ma non ancora a costituire una forza di pressione che sappia imporre ai governi dell’Occidente un cambio di rotta e sostenere con azioni concrete i deliberati dell’ONU riguardo alla condanna dei crimini di guerra perpetrati da Israele ai danni dell’intero popolo palestinese.

Anche l’uso di parte della quasi totalità dei media rende difficile l’acquisizione di una adeguata consapevolezza. Si condannano, e giustamente, le efferatezze compiuta da Hamas il 7 ottobre, ma si descrivono in modo asettico, senza un moto di disgusto e di orrore, le stragi continue e sistematiche che sta compiendo l’esercito israeliano, quasi che fosse normale, per colpire un combattente di Hamas (fosse pure un terrorista), causare la morte di decine di palestinesi innocenti. E si continua a rifornire di armi l’esercito israeliano, ben sapendo quale sarà il loro uso. E si continua a dichiarare che si cerca di favorire una tregua, mentre si colpevolizzano coloro che condannano l’operato del governo israeliano, che vengono tacciati di antisemitismo, quando in maggioranza sono proprio coloro che commemorano il Giorno della Memoria, in ricordo della shoah e considerano gli ebrei (non certo gli israeliani che condividono l’operato del proprio governo) come fratelli.

Quello che sta accadendo in Palestina non è solo l’annientamento di un popolo, quello palestinese, ma anche l’imbarbarimento di tanti, troppi israeliani, incapaci oggi, in nome della propria sicurezza, di distinguere il bene dal male, identificando il proprio bene nel male altrui. Ma se un minimo di umanità resta in loro, avranno un futuro di incubi, come è successo a uno dei piloti americani che ha sganciato l’atomica sul Giappone, che per tutta la sua vita è stato perseguitato da sensi di colpa per il male compiuto.

Ma anche riguardo alla sicurezza gli israeliani fanno male i loro conti perché, anche se risolvessero oggi il conflitto in corso con una vittoria schiacciante, sarebbero condannati a un futuro di terrore, vittime di attentati che si protrarranno per decenni.

Mai come oggi le parole di papa Francesco, quando afferma che «la guerra è una sconfitta per tutti, sempre», hanno un valore non solo morale, ma sono frutto di saggezza, e di verità. 

Bruno D’Avanzo, del Centro Studi e Iniziative America Latina; del Circolo Vie Nuove di Firenze

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza 

 

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