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Guerra nell’Est Congo. Ho il telefono sporco di sangue

Guerra nell’Est Congo. Ho il telefono sporco di sangue

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 05/04/2025

Un minuto e mezzo di fucili di ogni calibro ammassati sulla piazza, con i cinturoni di proiettili ben visibili. È il contenuto di uno dei tanti video che mi arrivano in questi giorni dalle missionarie bloccate a Bukavu e Goma, le capitali del Kivu, nell’Est del Congo. (“bloccate” perché hanno scelto di restare, di sopportare l’invasione insieme alla gente.) Quel video dà l’idea di quante siano le armi in circolazione oggi in due città che contano milioni di persone alla fame. E la fame, se trovi un’arma, diventa saccheggio. Se non la hai, sei in balia totale.

Quel che accade oggi nella Repubblica Democratica del Congo è qualcosa di vicino, vicinissimo a noi. Siamo noi. Ma lo pagano loro. È lo scontro geopolitico in chiave anti-asiatica che Stati Uniti e Unione Europea fomentano da decenni – attraverso gruppi armati e attraverso il braccio iper-finanziato del Ruanda – in una delle regioni del Pianeta che custodiscono materie prime per migliaia di miliardi di dollari. Oro, diamanti, coltan, cobalto, terre rare, petrolio, legname. Materie prime fondamentali per l’alta tecnologia, soprattutto smartphone (nel mondo se ne contano quasi 6 miliardi secondo gli ultimi rapporti), ma anche transizione energetica, batterie di accumulo, e armi automatiche di ultima generazione.

Se non si inquadra la situazione da questo punto di vista si rischia di credere a tutte quelle narrazioni (e ne abbiamo viste anche su testate insospettabili) che riducono la guerra in corso in Congo all’ennesimo scontro tribale, etnico, o peggio a una guerra civile, comunque per la serie “i soliti africani che non ce la fanno e si devono scannare tra loro”. Grazie, ma anche no.

Per questo come gruppo genovese Luci sul Kivu e nella più ampia rete nazionale “Insieme per la Pace in Congo” stiamo cercando di organizzare più occasioni possibile (in presenza e in remoto) per raccontare la verità. Abbiamo tutti gli strumenti per cercare un’informazione attendibile sul Kivu, anche se ben nascosti da un sistema che di certi crimini contro l’umanità non vuole si parli troppo. Metti che poi l’opinione pubblica si indigna, fa pressione sui suoi eletti, e l’Unione Europea è costretta a rescindere l’accordo strategico sulle terre rare firmato giusto due anni fa con il Ruanda. Metti che le big tech come Apple pressate dai clienti sono poi costrette a creare una tracciabilità (ad oggi impossibile) delle filiere della componentistica dei dispositivi tecnologici.

«I nuovi media – mi confida uno dei missionari italiani più longevi in loco – ci consentono di conoscere situazioni che prima erano solo immaginabili. Le multinazionali subappaltano accordi per lo sfruttamento delle miniere, a scapito dell’ambiente e della gente stessa, fuori da ogni controllo di filiera e di rispetto dei diritti umani. Senza nessuna misura di sicurezza, nelle miniere lavorano oltre 40mila minori. Tutto questo è possibile per la potenza delle multinazionali, ma anche per la connivenza dei governi locali, piccoli clan che si arricchiscono di tangenti».

Si torna sempre al tema del progresso. Siamo davvero progrediti nella moralità e nell’organizzazione umana, dopo i conflitti mondiali? Se non fossimo un’umanità in cui prevalgono oggi pochi predatori assetati di potere, denaro e controllo, tutto questo sarebbe semplice, semplicissimo: il popolo della regione più ricca del mondo (il Congo appunto) potrebbe produrre ed esportare materie prime ricevendo un giusto compenso in licenze, in un quadro di democrazia, diritti umani e tutela dell’ambiente. Ce ne sarebbe per tutti. E forse non dovremmo oggi contare 10 milioni di morti civili, il più grande invisibile massacro dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Negli ultimi 60 giorni la situazione del Kivu è ri-precipitata in un disastro che sembra non avere fondo. Il Movimento armato M23, già attivo da anni nel Nord Kivu, sostenuto anche attivamente dall’esercito del Ruanda, ha gradualmente circondato e poi invaso Goma. Circa 3000 morti in una settimana, probabilmente molti di più. Saccheggi e stupri, neanche a dirlo. Ma soprattutto, parliamo di una città che aveva già 1 milione di sfollati di guerra dalle regioni settentrionali, ammassati in una ventina di campi che sono l’inferno in terra (ci sono stato due volte negli ultimi anni). Guerra bombe proiettili distruzione stupri e fame, tanta fame, sulla testa di donne, anziane e bambini già prima in una situazione infernale. Il Congo conta oltre 5 milioni di sfollati interni a causa dei gruppi armati foraggiati da esterni.

L’invasione di M23-Ruanda è proseguita a Sud, arrivando a prendere l’altra capitale da quasi 2 milioni di abitanti, Bukavu. E sta arrivando a Uvira sul Lago Tanganica, a due passi dal Burundi. L’esercito congolese non ce la poteva fare, e si sapeva. Uno Stato che non c’è, lasciato in mano a bande tribali di turno selezionate – neanche troppo attentamente – dai nostri Paesi occidentali e passate attraverso elezioni che dire farsa è un complimento (vedere i comunicati dei vescovi congolesi alle varie tornate), uno Stato in queste condizioni non poteva (non doveva) essere in grado di prendere il controllo del proprio territorio. Metti che poi diventa capace di imporre delle licenze sulle materie prime, di controllare chi apre miniere illegali, chi porta via cosa.

Una gestione così prolungata, insulsa e scandalosa del governo congolese, che a ricaduta rende la vita una schiavitù senza prospettive per milioni di persone, farebbe quasi riconsiderare una nuova configurazione dell’area. «Nonostante tutto – continua il padre missionario – parlare ai congolesi di secessione del Kivu, quindi divisione del Congo, è inimmaginabile. Possono farsi la guerra, subire invasioni e derive, ma nessuno è d’accordo a balcanizzare il Congo, come sembra invece l’obiettivo velato della geopolitica americana, inglese e belga: spartire per meglio governare (e depredare). È risaputo che in Kivu si è ormai creata una presenza di cittadini ugandesi e ruandesi, che mira a rivendicare a un certo punto con un referendum l’annessione di Stati confinanti. Troppi esempi nella storia dei popoli ci fanno prospettare questo scenario».

Una visione chiara, determinata e capace di tenere insieme sociale, politico ed economico in una cultura di pace e sviluppo, ha dimostrato di averla la Chiesa cattolica locale (lo abbiamo toccato con mano anche nei nostri ripetuti viaggi tra diocesi e realtà missionarie). «Se il Governo ha sempre avuto un nemico è la Chiesa – ammette ancora il missionario – come confermano gli omicidi di vescovi, preti e suore registrati in questi decenni. Persino gli attacchi fisici e giuridici al cardinale Ambongo, tra i consiglieri di papa Francesco. La Chiesa nei suoi più alti vertici qui attacca la politica ogni volta che mortifica e raggira il volere del popolo. La presenza missionaria è allineata a questo ruolo della Chiesa.

Il punto debole è che ai fini pratici ha poca incidenza nella realtà quotidiana delle persone, vincolate alla sopravvivenza. Eppure, rimane un megafono che annuncia, denuncia, suscita, invoca».

La Chiesa ha avuto un ruolo importante, insieme alla Società Civile, anche nello sventare inutili stragi a Bukavu nel momento della ormai inevitabile invasione dell’M23. E ha un ruolo fondamentale ma invisibile nel piccolo, quando ad esempio abbiamo scoperto che molti sfollati di questi ultimi anni hanno trovato ospitalità in altrettante famiglie congolesi, comunità di base, parrocchie, scuole e ospedali delle diocesi. Chi non ha niente e subisce tutto, apre ancora le braccia e non si fa trasformare in carnefice.

Oggi è necessario premere con tutte le leve possibili perché la politica internazionale (a partire dalla Commissione Europea e dal nostro Ministero degli Esteri) imponga un processo di pacificazione giusta e duratura. È necessario anche fare scelte di consumo critico e scegliere dove possibile filiere più trasparenti, o dispositivi ricondizionati. Tenere viva l’informazione e le relazioni, dare vita a collaborazioni e scambi continui. Troppa è la sofferenza del popolo congolese consumata nell’invisibilità più totale.

Eppure la speranza è viva. Non quella speranza di vincere un potere con un contro-potere. Ma di resistere nel profondo con un fuoco interiore e umano capace di perdurare nel tempo nonostante tutto. Sono anni che andiamo in Congo a imparare dalle nostre amiche e amici come si vive con la V maiuscola nonostante tutto. Se c’è qualcuno che ha da insegnare al mondo la speranza sono le donne, le bambine, i bambini e gli uomini del Congo, cuore dell’umanità e della terra. Ci sono vie di sopravvivenza, di riscatto, di umanità e giustizia che non soccombono alla somma aritmetica degli eventi storici. C’è una Storia fra le righe storte della storia, dei soprusi e della malvagità avida umana, una Storia che deve avere una fecondità più grande, contro ogni pronostico. Deve. Non lasciamoli soli a sentirne la fame e la sete. 

Giacomo D’Alessandro, camminatore e comunicatore, è attivo nelle comunità del Forte Tenaglie e del Centro Banchi a Genova, nell’associazione Percorsi di Vita e nel gruppo Luci sul Kivu. Il suo sito è: https://ilramingo.it

*Foto da Pixabay, immagine originale e licenza 

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