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L’IMPERO COLPISCE ANCORA. IN HONDURAS, IL NOBEL PER LA PACE OBAMA UGUALE AI PREDECESSORI

Tratto da: Adista Documenti n° 124 del 05/12/2009

DOC-2219. TEGUCIGALPA-ADISTA. Si aggiunge un altro vergognoso capitolo alla non certo edificante storia dei rapporti degli Stati Uniti con l’America Latina: con una svolta di 180 gradi rispetto alla posizione mantenuta per quattro mesi dall’amministrazione Obama, il Dipartimento di Stato ha annunciato che riconoscerà il risultato delle elezioni del 29 novembre in Honduras anche senza il ripristino dell’ordine costituzionale. Già il 4 novembre, il sottosegretario di Stato Thomas Shannon aveva dichiarato alla Cnn che la costituzione del governo di Unità nazionale prevista dall’accordo siglato tra le parti il 30 ottobre era “indipendente” dal ritorno al potere del presidente Manuel Zelaya, sconfessando così quanto sostenuto dalle risoluzioni dell’Onu e dell’Oea, entrambe appoggiate dal governo Obama, rispetto alla restituzione “immediata e incondizionata” del potere al governo legittimo. Quattro giorni dopo l’amba-sciatore Usa a Tegucigalpa, Hugo Llorens, aveva dichiarato che le elezioni avrebbero riportato l’Honduras “sul cammino della democrazia”, mentre il rappresentante statunitense presso l’Oea, Lewis Anselem, faceva pressione sui Paesi latinoamericani. Quindi, il 17 novembre, al termine della sua visita in Honduras, il sottosegretario di Stato aggiunto per l’emisfero occidentale, Craig Kelly, ha esplicitato la nuova posizione del governo Usa: “Nessuno - ha dichiarato - ha il diritto di togliere al popolo honduregno l’opportunità di votare e di eleggere i propri leader”. Poi, sottolineando come le elezioni rappresentino “una parte importante della soluzione” alla crisi, Kelly ha esortato gli honduregni ad avanzare sulla via della riconciliazione, insistendo sull’importanza “che le autorità rispettino i diritti umani”. E ciò proprio mentre il Fronte di Resistenza contro il Golpe, impegnato a boicottare il processo elettorale, denunciava un incremento della repressione e della persecuzione contro il popolo organizzato.

Non sarà un compito facile, quello del Fronte di Resistenza. È vero che nel Paese, come evidenzia l’editoriale del-l’ultimo numero di Brasil de Fato (25 novembre), dal titolo “Honduras, un allarme per tutta la sinistra”, il voto non è obbligatorio, tanto che nel 2005, alle ultime elezioni presidenziali, era stato il 54% degli elettori a disertare le urne. Cosicché, se il boicottaggio proposto dalla sinistra e dai movimenti sociali raggiungesse una percentuale significativa, “le condizioni per portare avanti la lotta di massa sarebbero più favorevoli”. Tuttavia, prosegue l’editoriale, non trattandosi di elezioni democratiche, “tutti i mezzi di repressione, persuasione, divisione e cooptazione verranno utilizzati. La destra honduregna è venuta per restare, ponendosi oggi come ‘avanguardia’ del conservatorismo nel continente”. E ai golpisti non mancherà il denaro, né la possibilità di ricorrere “alla manipolazione, alla moltiplicazione degli elettori, all’intimidazione, alla compravendita di voti, anche approfittando della condizione di miseria delle masse”: “tutto questo e molto altro sarà parte di questo processo”.

All’appuntamento elettorale, intanto, il governo golpista cerca di prepararsi nel ‘migliore’ dei modi,  gettando quanto più fumo possibile negli occhi della distratta comunità internazionale. Ecco allora il presidente del Congresso, José Alfredo Saavedra, convocare per il 2 dicembre la sessione destinata a discutere sul ritorno di Zelaya, mostrando così – ma a giochi ormai fatti - la propria volontà di tenere fede all’accordo del 30 ottobre (giocando sull’ambiguità dell’accordo stesso, che non stabiliva limiti di tempo per la votazione congressuale). Ed ecco il presidente golpista Micheletti annunciare, il 19 novembre, il proprio allontanamento dall’incarico presidenziale, dal 25 novembre al 2 dicembre, per permettere, ha spiegato, che l’attenzione politica si volga esclusivamente alle elezioni e non al conflitto con il presidente deposto. Il quale, mentre si compiono due mesi dal suo ingresso nell’ambasciata brasiliana, reagisce invitando il popolo honduregno a boicottare le elezioni, scrivendo al presidente Obama una lettera in cui gli chiede vigorosamente conto del suo voltafaccia e rivolgendosi ai governi del continente perché non riconoscano il processo elettorale. Ma la pressione degli Stati Uniti si è fatta sentire anche su questo terreno: insieme agli Usa, a Israele e a Panama, hanno annunciato che riconosceranno il risultato delle elezioni anche il Perù e la Colombia, rompendo così anche il fronte dell’Unasur (l’Unione degli Stati sudamericani di cui fanno parte Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Cile, Ecuador, Guyana, Paraguay, Perù, Suriname, Uruguay e Venezuela).

 

Maradiaga, indesiderabile

Aveva destato scalpore in Francia la notizia del conferimento da parte dell’Istituto cattolico di Parigi di una laurea honoris causa al “cardinale golpista” Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, e, insieme a lui, all’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Michel Camdessus. I movimenti sociali, coordinati dall’associazione Mémoire des luttes, avevano già annunciato battaglia in vista della cerimonia di assegnazione, fissata il 24 novembre. Il 13 novembre scorso, però, un comunicato dell’Istituto informava che la cerimonia sarebbe stata rinviata, perché al cardinale era impossibile recarsi a Parigi in quei giorni. Un rinvio che, in assenza di qualsiasi indicazione di una nuova data, molti sperano valga come cancellazione definitiva. Di certo, i movimenti erano andati giù duro contro il riconoscimento: “Magari fosse un semplice scherzo”, aveva scritto per esempio il presidente onorario di Attac Bernard Cassen, parlando di una “cerimonia il cui cast è semplicemente allucinante in relazione all’attualità tanto francese quanto internazionale”. Bisogna vivere su un altro pianeta - commentava a proposito delle “autorità convocanti, vale a dire il cardinale André Vingt-Trois e il rettore dell’Istituto Pierre Cahné” - per osare tanto. Dopo la sua immediata legittimazione del colpo di Stato, infatti, il card. Maradiaga “non ha condannato e neppure evocato gli assassinii, le torture e gli arresti di massa di cui si è reso responsabile il governo. Né una parola ha speso sulla soppressione delle libertà civili o sulla chiusura di tutti i mezzi di comunicazione che non si sono sottomessi ai golpisti, come la radio dei gesuiti, Radio Progresso”. Di parole, invece, il cardinale continua a spenderne parecchie per screditare il presidente legittimo, per esempio dichiarando al quotidiano statunitense The Wall Street Journal che Zelaya non dovrebbe tornare al potere: “Penso che una persona che ha agito come ha fatto lui non abbia più l’autorità morale per essere presidente della Nazione”.

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, il testo della lettera scritta da Zelaya al presidente degli Stati Uniti e un commento del prete e sociologo belga François Houtart sul conferimento della laurea honoris causa a Maradiaga e Camdessus. (claudia fanti)

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