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Quando i sogni diventano realtà

Tratto da: Adista Documenti n° 3 del 25/01/2014

Ricordo una serata di alcuni anni or sono ad Anguillara Sabazia, sul Lago di Bracciano. Jaime, yachak del popolo kitu-cara ecuadoriano, aveva celebrato il saluto al sole che tramontava e col rauco suono emesso da una grossa conchiglia marina aveva per quattro volte gridato il suo saluto di pace rivolto ai popoli del mondo viventi nelle quattro direzioni cardinali. Poco dopo, in una grande sala affollata e festosa, gli ospitanti avevano sfoggiato il meglio delle loro abilità culinarie. Infine era iniziato il dibattito, incentrato sul tema “Un altro mondo è possibile”, affrontato con impegno dai giovani di alcuni movimenti locali: un mondo naturalmente  “giusto”, “comunitario”, “pacifico”…  Un solo problema: era un mondo da costruire, con i nuovi paradigmi appena espressi, di nuovo uguali per tutti i popoli. Aldo Gonzales, l’amico zapoteco che mi sedeva accanto, a un certo punto mi bisbigliò all’orecchio: “Glielo dici te che noi esistiamo già?”.

Anni prima, proprio il 1° gennaio del 1994, la mia allora recente iniziazione al mondo amerindio, avvenuta in Brasile, doveva subire una svolta. Seduto a tavola con tutta la famiglia, festeggiavamo il nuovo anno quando dalla radio una notizia ci zittì improvvisamente: in Messico, nella notte, migliaia di indigeni maya, col volto coperto, avevano occupato cinque capoluoghi del Chiapas, quel Chiapas che avevamo visitato tutti assieme appena sei mesi prima, per festeggiare un importante cambiamento nella mia vita lavorativa. E lì avevamo creduto di toccare con mano come il Messico fosse un Paese liberale e lungimirante che trattava i propri popoli indigeni come gioielli… Ci guardammo stupiti: “Ma allora…?”.

Già, allora ciò che il Messico ci aveva mostrato erano un paio di villaggi modello, disegnati apposta per turisti in cerca di esotismo. Nacque spontanea la voglia di capire meglio e così iniziò una lunga marcia di avvicinamento ai mondi amerindi, quello maya dapprima, altri poi. Mondi realmente esistenti, non “arretrati” e da “sviluppare”, come il mio lungo iter educativo mi aveva inculcato. E la loro conoscenza avrebbe a poco a poco modificato profondamente la mia cosmovisione.

In questo 1° gennaio del 2014, 20 anni dopo, è di quello maya che voglio parlare, quello che più mi ha segnato, e cercare di comunicare un po’ di quello che una sua consistente porzione, riunita nell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, e oggi nei cinque Caracoles civili, mi sembra aver detto in questi anni di più universale a chi come me ha avuto la ventura di poterlo e volerlo ascoltare.

Questi indigeni, incappucciati «per poter finalmente essere visti», nella loro prima apparizione pubblica e armata, dichiararono: «Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte […] (gli oppressori di ieri e di oggi, ndt) possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, né terra, né lavoro, né assistenza sanitaria, né cibo, né istruzione, che neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici, (che) né vi è indipendenza dallo straniero, né vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi noi diciamo basta!».

Il momento scelto per una insurrezione sembrava il meno felice, dopo la caduta del muro di Berlino, avvenuta cinque anni prima, che aveva fatto decretare la “fine della storia”. Ogni ipotesi di porre ostacoli alla marcia trionfale del pensiero e della prassi neoliberista, il nuovo rullo compressore della storia, sembrava follia. Ma, dovevo impararlo poi, il mondo indigeno non ha fretta e, quando comunitariamente ha stabilito un obiettivo, non divaga.

“Per l’Umanità, contro il neoliberismo” fu il lemma antiretorico, unificante nella sua essenzialità, dell’incontro “intergalattico” nella Selva Lacandona, al quale gli zapatisti invitarono, meno di due anni dopo, i “non sottomessi” del mondo. Arrivò qualche centinaio di persone, ciascuna con la sua “corazza”, le “sue” aspettative, la “sua verità” e la sua “ricetta”. Ma il discorso zapatista, che aveva fatto tesoro di molte esperienze della sinistra mondiale, sia positive che negative, non era inquadrabile negli schemi tradizionali. Ne nacque qualche tensione. Alcuni tornarono a casa forse delusi. “Per tutti tutto. Per noi nulla”, “comandare obbedendo”, “parlare e ascoltare”… tutta qui la Rivoluzione? Dov’erano il ruolo delle avanguardie lucide, la “presa del potere”, il demiurgico “partito rivoluzionario” con il suo compito storico? “Noi non vogliamo il potere, perché vogliamo cambiare il mondo!”. Che delusione! Molti però capirono che “camminare domandando” era un nuovo atteggiamento necessario per uscire dal labirinto e si rimisero in marcia. In una “Carta a los compañeros zapatistas”, Sergio R. Lascano ha scritto in questo anniversario: «Il pensiero libertario zapatista ha aperto un grande buco nell’apparentemente solido edificio ideologico del potere del capitale e ha reso possibile che attraverso di esso passassero vecchie buone idee e nuove buone idee». Posso segnare all’attivo sul pallottoliere dello zapatismo?

I lunghi silenzi, di mesi o talora di anni, che tanto hanno irritato molti impazienti rivoluzionari dotati di certezze “scientifiche”, sono serviti a ripensare errori o mancati successi. Altre volte invece era stata la “società civile” che non aveva risposto alle attese. La lotta fra il topolino e il leone richiedeva pazienza e lucidità. L’elaborazione di nuove politiche doveva avvenire “con” e “dalla” base, in villaggi distanti giorni di cammino, affinché queste potessero essere condivise e sostenute nella difficile situazione. Posso mettere un pallino rosso anche per questa coerenza profonda fra enunciazioni e pratiche?

Cambiare il mondo reale è difficile, talora impossibile. E allora perché non costruirne uno nuovo, si sono chiesti gli zapatisti. Nacquero così le Aguascalientes prima e i Caracoles (conchiglie, con l’emblematica spirale) poi, sulla base dei contenuti degli “Accordi di San Andres” - prima approvati e poi sconfessati dal governo - e alla fine applicati unilateralmente dagli zapatisti a partire dal 2003. Caracoles retti da “giunte di buon governo”, i cui componenti, uomini e donne, giovanissimi o anziani, cambiano per rotazione, senza “primarie” né preclusioni. Oggi, dopo sette anni, l’esperienza è consolidata e rappresenta la forma di democrazia più avanzata che io conosca. Altro pallino rosso.

Un giorno, anni fa, un giovane cattedratico italiano, compagno di alcuni viaggi in Chiapas, visitando con me la scuola primaria “Neno Zanchetta”, mi disse, guardando i bambini fra i 5 e i 10 anni che la frequentavano: «Se l’esperienza zapatista avrà avuto successo o meno potremo dirlo solo quando questi ragazzi avranno 20 anni». Il 21 dicembre 2012 oltre 40mila giovani zapatisti sono tornati ad occupare pacificamente e in silenzio, sotto la pioggia, le cinque città del Chiapas che avevano occupato militarmente nel 1994: 20mila a San Cristobal, 8mila a Palenque, 8mila a Las Margaritas, 6mila ad Ocosingo, e almeno altri 5mila ad Altamirano. Nella grande maggioranza assai giovani, che erano bambini o non erano ancora nati all’epoca dell’insurrezione. Si può mettere all’attivo?

Quest’estate è arrivato l’invito a 1.500 persone ad andare una settimana alle “escuelitas” zapatiste per dialogare su un tema di tremenda attualità: “La libertà secondo gli zapatisti”. I richiedenti sono stati molti di più e gli esclusi di agosto stanno partecipando in questi giorni ad un nuovo turno, per non escludere nessuno. Ho già pubblicato un bilancio tracciato da alcuni partecipanti di agosto e lo ripeteremo presto, dopo questo nuovo turno, per cui sorvolo. Altro pallino?

Ma forse la lezione più importante, rivoluzionaria, è come un movimento insurrezionale armato abbia a poco a poco trasferito il potere reale alla “società civile”, ovvero alle comunità. In Chiapas non è stata firmata la pace e tutto si regge su un armistizio fra governo e Ezln, ragione per la quale questo non ha smobilitato e resta come ultima ratio se il governo tentasse, come ha già fatto, un’azione di forza improvvisa. Ma ormai sono le comunità a gestire la loro incredibile esperienza di vita.

Potrei dire altre cose, ma diventerei prolisso. Pallini però ce ne sarebbero ancora.

Una riflessione conclusiva? Trenta anni or sono sei giovani militanti rivoluzionari cittadini, diventati poi 12, scampati alle feroci repressioni (ricordate Piazza Tlatelolco?), giungono braccati nelle cañadas di Ocosingo, in Chiapas, dove vivono varie decine di migliaia di indigeni maya parlanti ben sei lingue diverse. Qui un vescovo anomalo, tatic Ruiz, da loro “convertito” al mondo dei poveri, li stava stimolando a darsi una propria prospettiva politica di riscatto, da loro gestita. L’acciarino aveva incontrato la paglia e la scintilla prima o poi sarebbe stata inevitabile. I dialoghi di uno dei giovani intellettuali, il “sub-comandante Marcos”, con un vecchio indigeno ricco di sabiduria antica, il vecchio Antonio, sono come la metafora di questo incontro fra culture distanti e con tutte le probabilità di restare incomunicabili.

Occorsero 10 anni, un “tempo indigeno”, con incontri cañada per cañada, villaggio per villaggio, casa per casa. Poi «quando il fiume gonfia, dice il vecchio Antonio, è perché piove da molto tempo sulla montagna. Oggi il fiume ha cambiato corso, niente lo farà tornare al suo letto precedente…». Il giorno scelto fu il 1° gennaio del 1994, quello in cui entrava in vigore il Trattato di libero commercio fra Stati Uniti, Canada e Messico, che avrebbe posto fine alla inalienabilità delle terre comunali indigene e campesine, consegnandole nelle mani del “libero mercato”.

Oggi, 20 anni dopo, l’autonomia costruita fra estreme difficoltà nella fragile nicchia di un provvisorio armistizio ha consegnato al mondo l’esperienza di democrazia probabilmente più avanzata che si conosca. Non è un fatto quasi incredibile?

Che cosa può dire a noi scontenti e depressi individualizzati in questo caotico Paese declinante? Non siamo un modello da imitare, ci avvertono gli zapatisti. Cercate e costruite il vostro. Noi abbiamo solo voluto dimostrare che i sogni possono diventare realtà, anche nelle situazioni più difficili. Se lo si vuole, naturalmente.

Grazie fratelli e sorelle zapatiste! Buon anno!

P. S. Qualcuno penserà che ho tracciato una sintesi troppo favorevole e che sul pallottoliere ho messo solo pallini rossi. Dice Gustavo Esteva rispondendo al medesimo dubbio, nel postscriptum del suo elogio: «Rileggendomi constato che non ho detto nulla dei lati oscuri, “umani, troppo umani” della società zapatista, delle sue inevitabili tensioni e contraddizioni […] Io non ho voluto tracciare un bilancio e ancor meno realizzare un’inchiesta etnografica pretesa come “scientifica” e “obiettiva”. Non era questa la mia intenzione. Ho semplicemente voluto tradurre ciò che ho sentito e creduto di capire: queste donne e questi uomini ordinari sono stati capaci di trasformare una delle condizioni sociali fra le più ingiuste e miserevoli del mondo nella concretizzazione dei vecchi sogni di una società più giusta, degna e decente […]. Forse altri, impegnati nella ricerca di una propria alternativa troveranno qualche ispirazione in questa narrazione».

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