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“ROMA TRE” SI SFILA DALL’INCONTRO CON LO STORICO ISRAELIANO ANTISIONISTA

Tratto da: Adista Notizie n° 8 del 28/02/2015

38010 ROMA-ADISTA. Il 16 febbraio scorso l’Università Roma Tre avrebbe dovuto ospitare la giornata di studi “Europa e Medio Oriente oltre gli identitarismi”, promossa dal Dipartimento di Scienze della Formazione e dal Dipartimento di Scienze Politiche in collaborazione con la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra e Assopace-Palestina e con la partecipazione dell’eminente storico israeliano Ilan Pappé. E invece, a pochi giorni dall’evento, l’Università ha revocato la concessione della Sala Capizucchi, in piazza Campitelli, adducendo motivazioni burocratiche. 

Ben diversa la versione fornita dallo storico che sulla sua pagina Facebook ha dato notizia della cancellazione dell’invito ipotizzando che a determinarla sarebbero state pressioni «dell’ambasciata israeliana e della comunità sionista in Italia». Versione la cui plausibilità è corroborata dal fatto che l’Università non si è limitata a negare la sala, ma ha anche ritirato il proprio sostegno all’iniziativa – che grazie alla tenacia degli altri organizzatori si è comunque svolta, ma in un’altra sede – non comparendo più tra i promotori (la maggior parte dei relatori però, tra cui alcuni accademici dell’Università di Roma Tre, ha comunque partecipato all’evento).

La “colpa” di Pappé, naturalmente non dichiarata, è quella di essere un sostenitore del movimento di boicottaggio contro Israele e di aver confutato – nel suo ormai celebre libro La pulizia etnica della Palestina – la vulgata secondo cui nel 1948 la gran parte del popolo palestinese lasciò “volontariamente” la propria terra per dare via libera agli eserciti arabi che puntavano a distruggere il neonato Stato d’Israele, denunciando quella che fu una vera e propria operazione di pulizia etnica ai danni dei palestinesi, pianificata già prima del maggio 1948 dal movimento sionista e culminata nel piano Dalet. Un coraggio che gli è costato caro: Pappé è stato di fatto bandito dalla vita accademica israeliana e ora insegna all’Università di Exter, in Inghilterra.

Svoltosi infine presso il Centro Congressi Frentani, il Convegno è stato un successo, ma la vicenda mostra quale clima di censura – a senso unico – regni sulla questione israelo-palestinese. Un aspetto su cui molti relatori hanno posto l’accento, evidenziando che il dibattito accademico non può sottostare a simili diktat. «C’è uno stereotipo che si va naturalizzando», ha detto per esempio Ruba Salih, antropologa di origini palestinesi della School of Oriental and African Studies (Università di Londra): «Quello per cui chi si occupa del conflitto israelo-palestinese è ideologizzato». Ma solo chi se ne occupa da una prospettiva palestinese: «Solo una parte – ha proseguito – è infatti soggetta a censura. Perché? Forse perché, come dice la filosofa femminista Judith Butler, non tutte le vite umane contano allo stesso modo: alcune non sono degne di soggettività». 

Sulla stessa lunghezza d’onda Moni Ovadia il quale ha sottolineato che è «necessario opporre un fermo rifiuto a chi accusa di essere antisemita chiunque voglia problematizzare la questione palestinese» e che, a questo scopo, ha proposto una petizione al Presidente della Repubblica per denunciare quanto avvenuto. 

«Se disegnare Maometto è questione di libertà di parola anche parlare di Israele e Palestina lo è», gli ha fatto eco lo stesso Pappé, sottolineando che «l’antisionismo non ha nulla che vedere con l'antisemitismo ma con l'anticolonialismo». Di questo, ha proseguito lo storico, «dovrebbero parlare gli accademici: di quelle cose di cui è difficile parlare e non di quelle di cui i politici vogliono che loro parlino. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: quella del 1948 è stata una pulizia etnica, quello in atto a Gaza è genocidio. Se gli intellettuali non vogliono utilizzare i termini giusti per descrivere la realtà, non possiamo stupirci che non lo facciano i media o i politici».

Il problema è complesso, tanto che per Pappé è lo stesso processo di pace a essere inficiato all’origine «perché vede Israele non come una colonia, ma come uno Stato nazionale emerso in contemporanea allo Stato palestinese». E così «la soluzione “due popoli due Stati” sembra quella più logica. Ma poiché si basa su un’errata visione del problema, il processo di pace non condurrà mai a una soluzione», ha concluso lo storico che da anni caldeggia non la soluzione “due popoli, due Stati”, ma quella di uno Stato unico, naturalmente democratico e non settario.

«Il sistema politico israeliano – ha proseguito Pappé – non ha mai fatto i conti con la sua natura coloniale e così concepisce le “concessioni” territoriali ai palestinesi come gesti di generosità»: «I palestinesi sono visti come alieni e gli israeliani, i quali non si vedono come colonizzatori, li tollerano, pensando addirittura di meritare magari il premio Nobel per questo!». «Il progetto israeliano – ha detto ancora Pappé – è sempre stato più Palestina e meno palestinesi. All’inizio è stato perseguito attraverso le espulsioni, ora attraverso la creazione di bantustan. Oltre tutto – ha proseguito lo storico – se anziché chiamarli con il loro nome, bantustan appunto, li chiami “Stato” puoi continuare a dire al mondo che quel che fai è inscritto nel processo di pace». Insomma, ha concluso, «non importa se l'ospite sia una brava persona o meno: nel momento in cui si mette in testa che la casa in cui è ospitato è la sua casa, diventa un invasore». (ingrid colanicchia)

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