Al lessico di Leone XIV manca la parola donna
Rieviamo e volentieri pubblichiamo.
La solita sottovalutazione del contributo per aiutare la società tutta intera che viene dalle donne (anche per gli uomini) si è manifestata ancora una volta. A nessun giornalista è venuto in mente di intervistare all’Ergife Palace Hotel una delle circa 800 suore dei 36 ordini religiosi femminili provenienti da 80 Paesi convenute a Roma per l’assemblea dell’Unione delle superiore generali degli ordini religiosi femminili per rinnovare le cariche e verificare le prospettive del nuovo pontificato. La nuova presidente Oonah O’Shea, un’australiana di famiglia irlandese a lungo missionaria nelle Filippine, superiora delle Dame di Sion, ricordava: «Questa plenaria ha reso visibile una speranza che non è semplice ottimismo, ma un’energia spirituale che nasce dal Vangelo e genera cambiamento. È la speranza che ci permette di continuare a servire, con creatività e audacia, in un mondo ferito e in trasformazione. È questa speranza che ci rende donne in cammino, capaci di custodire e generare vita nei luoghi dove tutto sembra spento».
Nessuno, d’altra parte, ha notato che fin dai primi giorni di pontificato Leone XIV non ha mai pronunciato la parola “donna”, nemmeno nella formula che è ormai uno stereotipo del rituale “fratelli e sorelle”. Certo non sarà sfuggito alle 800 sorelle dell’Uisg. Una differenza notevole rispetto a Francesco che, anche se non aveva affrontato i problemi della compatibilità femminile nel Codice di diritto canonico, non aveva lesinato riconoscimenti alle donne, a partire dalla notissima citazione «dove comandano le donne, le cose vanno molto meglio». Aveva attribuito incarichi in misura superiore (comparativamente) a religiose di grande competenza, ma particolarmente significativa è stato il conferimento a suor Simona Brambilla del titolo di Prefetta del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, un’autorità di governo per entrambi i generi dei diversi Ordini. Va comunque detto che anche in questo caso si conferma la contraddizione imposta dal “modello unico”. Resta impedito alle suore di fare fronte comune e chiedere, eventualmente, il presbiterato o il diaconato: anche Simona, infatti, farà lo stesso mestiere del “Prefetto”, conformandosi, come qualunque magistrata, al diritto impostato sulla persona neutra, escludente i diritti specifici delle donne.
Tuttavia, formate dalla stessa teologia dell’uomo e adeguate allo stesso impianto gerarchico, le suore - almeno le leader più rappresentative - non aprono il conflitto sull’ordinazione: non vorrebbero ricalcare il modello di “questo” prete, anche se, per poter giovare alla Chiesa (che è anche delle battezzate), vorrebbero partecipare alla vita dell’istituzione con voce propria. Da un osservatorio femminista laico si vede con chiarezza come il patriarcato stia giocando l’ultima carta, obbligando il «genio femminile» (un famoso “complimento” di papa Woytila) a replicare, attraverso l’eccellenza delle competenze, la tradizionale divisione dei ruoli - anche Giorgia Meloni e Elly Schlein sono al vertice della cosiddetta “parità” - mentre obbliga le donne a negarsi il desiderio di cambiare il mondo.
Per questo, da cattolica, non sostengo il presbiterato femminile (che sarebbe un diritto) e neppure apprezzo il diaconato, anche se le donne nominate da san Paolo - Febe, poi Prisca, Maria, Giunia, Trifoda, Trifena, Patroba, Gliulia - non dovevano agire senza mandato e Origene avrebbe confermato che «anche le donne sono costituite nel servizio della Chiesa». Del resto il termine “diacona” (per piacere, non “diaconessa”) è testimoniato e la discussione riguarda solo l’imposizione delle mani distinta dalla pratica effettiva del servizio. A prescindere dalla definizione, oggi le donne dove mancano i preti - come in America Latina - fanno tranquillamente il parroco. I posteri forse discuteranno se erano sagrestane o diacone. Dal punto di vista clericale il diaconato rappresenta l’ultimo gradino gerarchico prima del presbiterato, quindi, tanto varrebbe giocare a carte scoperte: se la finalità è il sacerdozio, lo si chieda a viso aperto, preparate a farne un nuovo “segno dei tempi”.
Francesco avrebbe potuto fare qualcosa di più per rendere giustizia alle donne? In realtà ha fatto quel che gli era consentito da un fronte conservatore pronto alla denuncia plateale di eresia o apostasia. Un provvedimento, invece, non estraneo al nostro tema sarebbe stato - a mio avviso - la riforma del celibato obbligatorio. Con L’amore ordinato (prefazione di Alberto Melloni) avevo affrontato il problema proprio, proprio per aver visto a partire dalle donne non solo perché ho visto uomini consacrati diventare migliori nella vita di coppia a prezzo della rimozione e donne devastate dalla trasgressione seguita dal solito abbandono patriarcale. Il femminismo cattolico non si è particolarmente impegnato nella questione - che effettivamente tocca agli interessati affrontare -, ma chi è prete ha troppa paura che il buon dio gli prepari un dono che la “sua” chiesa condanna. Dal punto di vista della donna il celibato è, anche teologicamente, un’offesa ai “generi” dei battezzati, ma tocca ai maschi difendere i diritti umani.
Francesco non aveva neppure pensato come poteva procedere per “smaschilizzare” - eppure lo chiedeva - la Chiesa: forse non aveva superato il maschile che era in lui e, come qualunque sindaco laico, gli bastava aprire un asillo-nido in Vaticano e disporre che al Sinodo votassero anche le donne.
Ma i pontefici si assumono le loro responsabilità e adesso tocca a Leone XIV. In ogni caso ci sono responsabilità anche “dal basso”, come Francesco diceva abitualmente, se è vero che i teologi non sono abituati al pensiero dell’altro genere e anche le teologhe temono - temerei anch’io, se avessi una cattedra “cattolica” - effetti di ricaduta se vanno “oltre”. Perché Francesco ha offerto un paio di occasioni potenzialmente sovversive. Ha riconosciuto santa Maria Maddalena apostola; adesso ogni 22 luglio viene celebrata con prefazio proprio, equiparata a Matteo, Marco, Giovanni. E il privilegio petrino? È ancora vero che donne al conclave stanno solo nei film? Poi ha concesso alle donne l’accolitato e il lettorato. Il “lettorato” evidentemente significa un’autorizzazione a una lettura: quale? I Salmi e Paolo li leggono anche le donne da un secolo; non può che trattarsi del Vangelo. Che è privilegio del presbitero che poi recita anche l’omelia. Le donne dovrebbero provarci, andare dal vescovo, dal parroco e incominciare almeno a educarli alla trasformazione rituale della Parola. Alle donne sostanzialmente continua a essere vietato lo spazio dell’altare non solo nell’aspetto sacramentale, ma in quello docente. Le suore non aspettarono autorizzazioni quando decisero di abbandonare le scomodissime vesti con relativi cappelli alari. Li smisero per prendere gli autobus e realizzare la loro missione.
Le donne sanno che nulla viene loro regalato. Ma le più giovani non risolveranno i problemi del loro disagio con la Chiesa rispettandola, ma abbandonandone la frequentazione. Le suore pensano la “vita consacrata” come una speranza che trasforma. Ma la speranza è una virtù attiva che anche laicamente va praticata per un futuro di nuova partecipazione in cui le donne portano i carismi della loro cultura per una trasformazione urgente della società a beneficio di tutti, uomini (e preti) compresi.
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