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La via monastica al dialogo interreligioso

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 09 del 09/03/2013

Alcune tra le più belle pagine sul dialogo interreligioso sono state scritte – può sembrare paradossale – da un monaco appartenente a uno degli ordini più severamente claustrali del cattolicesimo: quello dei cistercensi della stretta osservanza, o trappisti. Il monaco in questione è Thomas Merton (1915 – 1968), autore di centinaia tra saggi, opere di poesia e articoli sui temi più vari, dalla spiritualità monastica ai diritti civili, dalla nonviolenza alla critica agli armamenti nucleari.
In realtà il paradosso cui si accennava è solo apparente. Non solo la clausura vissuta da Merton non ostacolò mai il dialogo con le altre religioni e culture, ma fu un elemento essenziale del suo cammino di apertura e conversione. Un cammino che culminò in un decennio, l’ultimo della vita del monaco scrittore, caratterizzato da un’attività spirituale e intellettuale così intensa che Donald Allchin arrivò a definirla «cattolicità esplosiva», prova convincente che la vita monastica non è isolamento, chiusura, atonia vitale, ma – al contrario – ricerca di relazioni sempre più autentiche e profonde con Dio, con se stessi e con gli altri. Scrive Merton al riguardo: «La vita è fatta di incontri. Un vero incontro stimola domande e risposte. Un incontro personale, vero, non porta solo a una conoscenza dell’altro, ma anche a una più profonda comprensione del proprio Io».
Un esploratore per gli altri
Thomas Merton entra nel monastero di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky, a 26 anni di età, il 10 dicembre 1941. Qui, ormai in salvo da una vita tumultuosa ed errabonda, comprende che il monaco non è un solitario ritirato dal mondo ma, piuttosto, «un ricercatore in zone che altri non hanno la possibilità di visitare. Un esploratore per gli altri, chiamato a esplorare un’area deserta del cuore dell’uomo in cui le spiegazioni non bastano più e nella quale si impara che solo l’esperienza conta». Scrive Merton nella prefazione all’edizione giapponese de La montagna dalle sette balze: «Il mio monastero non è la mia casa. [...] Non è un ambiente dove io possa prendere coscienza di me stesso come individuo, ma piuttosto un luogo dove io mi ritiro dal mondo, che pure rimane per me oggetto di interesse, per poter essere presente ovunque mediante il nascondimento e la compassione».
Attraverso questo nascondimento, e grazie anche a una non comune intelligenza, all’amore per lo studio e alla predisposizione per la scrittura, Merton sviluppò un dialogo intenso con credenti e studiosi di altre tradizioni religiose. Ben prima che il Vaticano II orientasse le menti dei cattolici verso il dialogo interreligioso, Merton raggiungeva, attraverso quello che è stato definito «dialogo dell’amicizia», i praticanti dell’induismo, del buddismo, dell’islam, dell’ebraismo. Non si trattò mai di fugaci incursioni in territori altrui, ma di avventure della mente e dello spirito che lo impegnarono profondamente in questioni ardite quali la metafisica, l’epistemologia, la contemplazione.

Fare di me stesso un monaco migliore
Dalle seguenti parole, scritte da Merton nel ‘64, emerge in modo evidente questo approccio monastico al dialogo interreligioso: «L’Asia, lo zen, l’islam, eccetera: tutte queste cose stanno insieme nella mia vita. Sarebbe una follia, per me, tentare di creare una vita monastica per me stesso escludendole. Sarei meno monaco». Nel ‘68 il trappista di Gethsemani intraprende un lungo viaggio in Asia, che sarà anche il suo ultimo viaggio: Merton muore il 10 dicembre di quell’anno, a Bangkok, folgorato da un ventilatore. Scrive negli appunti preparatori a un documento da presentare alla prima Conferenza spirituale interreligiosa di Calcutta: «Sono venuto come pellegrino, desideroso non di raccogliere informazioni o fatti sulle altre tradizioni monastiche, bensì di abbeverarsi alle antiche fonti della concezione e dell’esperienza monastica. Io non cerco solamente di saperne di più in fatto di religione o di vita monastica, ma di fare di me stesso un monaco migliore e più illuminato». Per Merton, dunque, il dialogo con le altre tradizioni spirituali è essenziale alla vita monastica, non un sovrappiù, un accessorio o un atteggiamento stravagante. Nel suo viaggio in Asia non c’è nulla della superficialità e del dilettantismo con cui spesso gli occidentali guardano a Oriente: non solo fu preparato da un trentennio di studi e letture, ma il suo fine, come fa notare Jacques Leclercq, rimase essenzialmente monastico, orientato alla crescita interiore.

Una libertà che nessuno può toccarci
Poco dopo la Conferenza di Calcutta, Merton si trasferisce in Thailandia, a Bangkok, e qui conclude il suo intervento affermando: «Una volta penetrati attraverso il distacco e la purezza del cuore nel segreto più profondo della nostra comune esperienza si raggiunge una libertà che nessuno può toccarci. Da qualche parte, dietro al nostro monachesimo come dietro al monachesimo buddista, c’è la certezza che questo genere di libertà e di trascendenza è raggiungibile. [...] E credo che l’apertura al buddismo e all’induismo [...] sia per noi un’occasione meravigliosa per capire meglio la potenzialità delle nostre tradizioni. Perché da un punto di vista naturale quelle asiatiche sono andate molto più in profondità delle nostre [...]».
Attraverso il suo personalissimo itinerario spirituale Merton giunge a riconoscere interconnessioni profonde tra il proprio Io, Dio e l’altro. Il 9 novembre ’68, da New Delhi, confessa agli amici: «I miei contatti con i monaci asiatici sono stati fruttuosi e remunerativi. [...] Sono sicuro che questi incontri sono benedetti da Dio, e spero che da essi venga fuori un beneficio reciproco. [...] Nei contatti con questi miei nuovi amici trovo consolazione nella mia fede in Cristo e nella Sua continua presenza».

Il dialogo esplorativo
Il dialogo mertoniano è di un genere del tutto particolare. Colin Albin lo ha felicemente definito «dialogo esplorativo». Il dialogo esplorativo non è come il dialogo funzionale, che ha un suo scopo preciso, portato avanti dagli studiosi in forma ufficiale. È un dialogo aperto, personale; ha obiettivi limitati o addirittura nessun obiettivo. Scrive Merton in Mistici e maestri zen: «Finché il dialogo procede soltanto sul piano della ricerca e dello studio oggettivo dei documenti, esso perderà la sua dimensione più essenziale». Per il trappista di Gethsemani comunicare vuol dire entrare in comunione, stabilire con l’altro una relazione profonda, che va al di là del piano verbale e concettuale. Ne deriva un rapporto aperto con le altre religioni, inclusivo. Ciò emerge con particolare evidenza da queste parole scritte nel ’66, che suonano come un monito nei confronti di quanti – in ogni tempo – usano il cattolicesimo per difendere la propria identità religiosa, territoriale, culturale: «Più io sono capace di affermare gli altri, dire sì a loro dentro di me, scoprendoli in me e me in loro, più io sono reale. [...] Sarò un cattolico migliore non se riesco a confutare ogni ombra di protestantesimo, ma se riesco ad affermare la verità che esiste in esso e ad andare oltre: lo stesso con i musulmani, gli indù, i buddisti. [...] Se affermo di essere cattolico solamente con il negare tutto ciò che è musulmano, ebreo, protestante, indù, buddista, alla fine troverò che non mi è rimasto molto da affermare per dimostrare che sono cattolico. Certamente non avrò il soffio dello Spirito con cui affermarlo».

Il pentalogo interreligioso
Al termine del discorso di Calcutta, Merton enuncia una sorta di pentalogo del dialogo interreligioso, cinque regole che riassumiamo qui in estrema sintesi. La prima prescrive disciplina, serietà e radicamento nella propria tradizione come antidoto a ogni dilettantismo; la seconda regola salvaguarda dal sincretismo; la terza esige un assoluto rispetto per le differenze, mentre la quarta indica il contenuto essenziale del dialogo, che Merton individua nell’autotrascendenza, nella trasformazione della coscienza dal profondo; la quinta regola, infine, definisce la gerarchia dei valori che occorre rispettare in questo dialogo: è necessario puntare all’essenziale come terreno di incontro intermonastico; al di là di forme di vita e di strutture comuni alle varie tradizioni ciò che si deve raggiungere è la sostanza, che sostiene e dà ragione a quelle forme, perché – scrive Merton in Diario asiatico – «tutto ciò che è in superficie è nulla: ciò che è in profondità è il Reale».
In questo modo Merton riuscì a travalicare i confini tra una religione e l’altra, senza mai negarli né lasciarli sbiadire in un relativismo che rende tutto uguale. Tale processo di superamento è magnificamente espresso in una lettera che l’intellettuale cinese John Wu scrisse al monaco di Gethsemani nel ’61: «Lei è così profondamente cristiano che non può fare a meno di raggiungere le fonti vitali delle altre religioni». Quello di Thomas Merton, insomma, è un cattolicesimo autenticamente tale, nel senso etimologico del termine, cioè universale. E lo è proprio perché accoglie – invece di rifiutarle, di considerarle nemiche – le altre religioni, tradizioni e culture.

* Giornalista, è socio fondatore di Dimensione Speranza Onlus (www.dimensionesperanza.it), portale di approfondimento su spiritualità, teologia, geopolitica ed economia.

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