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Riscaldamento globale: tutti facciano la loro parte. Ma governi e imprese fanno finta di niente

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 16/05/2015

DOC-2712. ROMA-ADISTA. Se è vero che nella lotta al riscaldamento globale ogni cittadino può «fare la differenza», come ha evidenziato il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, il contributo che possono offrire le religioni è realmente determinante. A ribadirlo è stato anche il seminario “Proteggere la terra, nobilitare l’umanità: le dimensioni morali del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile”, promosso il 28 aprile scorso dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali congiuntamente a Religions for Peace e a United Nations Sustainable Development Solutions Network. Organizzato per approfondire, prima della pubblicazione, a giugno, dell'attesissima enciclica di papa Francesco, il tema delle dimensioni morali della protezione dell'ambiente e per «consolidare un movimento mondiale interreligioso a favore dello sviluppo sostenibile per combattere i cambiamenti climatici nel 2015 e oltre», l'incontro ha potuto contare sulla presenza di scienziati, leader religiosi ed esponenti politici, tra cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e lo stesso Ban Ki-moon, il quale, dopo essersi incontrato con il papa, ha posto l'accento sull'importanza «che i leader religiosi si mobilitino contro i cambiamenti climatici», di fronte alla necessità di «cambiare atteggiamenti umani e stili di vita per incidere sul global warming». Non è mancato, durante il seminario, neppure qualche accenno di autocritica, espressa dal segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese Olav Fykse Tveit, secondo cui nel passato le Chiese hanno contribuito a «una comprensione meccanicistica della natura» che ne ha agevolato lo sfruttamento in funzione di meri interessi umani: le Chiese, ha detto, «non hanno messo in discussione il cammino di sviluppo insostenibile seguito dalle società industrializzate con il loro sconsiderato uso delle risorse naturali e il loro crescente utilizzo dei combustibili fossili. Dobbiamo riconoscere questi peccati del passato per essere credibili oggi».

E proprio sull'uso dei combustibili fossili si è soffermata Greenpeace in una lettera scritta a papa Francesco in occasione del seminario in Vaticano, denunciando i grandi interessi industriali ancora legati al petrolio e al carbone e puntando il dito contro la «poca saggezza» mostrata dai governi. «La completa eliminazione dei combustibili fossili entro il 2050 - scrive Grenpeace - è un obiettivo realizzabile e imprescindibile se si vuole contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi centigradi (meglio ancora 1,5) e impedire le conseguenze più estreme dei cambiamenti climatici. Un presupposto necessario per aiutare le persone e i Paesi più poveri del mondo, dove il clima sta già cambiando in modo drammatico». Da qui l’importanza di un appello del papa «a tutti i governi e ai leader dell’industria perché s’impegnino concretamente nella direzione del contrasto al riscaldamento globale, per un sistema energetico basato al 100% sulle fonti rinnovabili, che sia accessibile a tutte le persone del pianeta».

Quanto in effetti sia scarsa la saggezza dei governi lo dimostra il fatto che il G20 (il Gruppo dei 20 Paesi più industrializzati) stia spendendo più del doppio delle 20 maggiori imprese private nella ricerca di nuove riserve di petrolio, gas e carbone (Envolverde/IPS, 17/3), malgrado il fatto che, per tentare di contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi, sia necessario, secondo una ricerca pubblicata lo scorso gennaio sulla rivista Nature, che restino inutilizzate da qui al 2050 un terzo delle riserve di petrolio globali, più dell'80% di quelle attuali di carbone e la metà di quelle di gas (EcoDebate, 30/1). In questo quadro, appare decisamente poco saggia, per esempio, la decisione del governo brasiliano di puntare sullo sfruttamento del cosiddetto pre-sal, un enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane, a una profondità tra i 6mila e gli 8mila metri: un progetto che non è avversato neppure da molti movimenti popolari, più preoccupati di impedire la cessione del pre-sal a imprese straniere che di scongiurare un progetto dai devastanti effetti ambientali.

Esistono, tuttavia, anche voci discordi. Come quella, per esempio, di José Eustáquio Diniz Alves, docente della Scuola Nazionale di Scienze Statistiche dell'Ibge (Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística), secondo cui il Brasile dovrebbe piuttosto investire nelle fonti rinnovabili, avviandosi a superare la dipendenza dai combustibili fossili: un modello tanto più impraticabile di fronte non solo alla minaccia del riscaldamento globale ma anche alla crisi attraversata dal settore petrolifero, stretto nella morsa tra il cosiddetto “picco del petrolio” - l'idea, cioè, che la produzione del petrolio convenzionale, quello prodotto con facilità e a basso prezzo, abbia raggiunto il suo massimo e stia iniziando a declinare - e la caduta del prezzo del greggio (dimezzatosi a partire dal giugno del 2014), tale da rendere economicamente proibitivo lo sfruttamento dell'assai più caro petrolio non convenzionale, come quello derivato dalle sabbie bituminose o dalle rocce di scisto, o dei giacimenti difficilmente accessibili dell'Artico e delle acque profonde dell'oceano, come è appunto il caso del pre-sal (EcoDebate, 8/4). Tant’è che, come sottolinea Juan Luis Berterretche su Rebelión (17/4), la redditività dei giacimenti del pre-sal non sarebbe garantita neppure se il prezzo del barile risalisse fino a 100 dollari (rispetto ai 50 attuali). E ciò a dimostrazione di come «la scommessa strategica lulista sui combustibili fossili» contraddica «un futuro già delineato a livello mondiale di decarbonizzazione dell'economia, in direzione  di una nuova matrice energetica basata sulle fonti rinnovabili». 

Di seguito, in una nostra traduzione dall’inglese, la dichiarazione congiunta diffusa al termine del seminario in Vaticano, seguita, in una nostra traduzione dallo spagnolo, da un articolo di Michael T. Klare, docente dell'Hampshire College, sulla crisi del settore petrolifero (Rebelión, 20/3). 

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