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Dare un cognome all’amore

Dare un cognome all’amore

- Intervista a Rutilio Sánchez

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 20/06/2015

Come è stata accolta la beatificazione di mons. Romero dai diversi settori sociali salvadoregni?

È stata accolta dal popolo con grande gioia. A me, purtroppo, ha provocato anche un po’ di tristezza, perché, avendo già accettato l'invito a partecipare al Congresso mondiale di Pax Christi in Palestina, non avrei potuto partecipare alla celebrazione. Negli anni in cui Monsignore ha vissuto tra noi, ha prodotto grande speranza. Poi, la sua morte ha procurato grande dolore. Ma da questo dolore Romero è risorto: la sua esemplarità ci ha dato molta forza nella lotta. Naturalmente, bisogna distinguere tra il popolo di Dio e la gerarchia cattolica. Questa, con la sua struttura imperiale ereditata da Costantino, non ha quella dimensione di fede che il popolo vive nello spirito di Gesù. Non a caso, la prima reazione della gerarchia alla notizia della beatificazione non è stata di gioia, ma di preoccupazione per i costi economici. E così ha iniziato subito a chiedere contributi, anche al popolo povero. Lungo tutta la preparazione, la gerarchia cattolica salvadoregna si è preoccupata più degli aspetti esteriori che dei contenuti, arrivando al punto di escludere un uomo a noi tutti caro e così vicino a Romero come mons. Urioste. Ma cosa ha significato per il popolo questo annuncio? È stato un po’ come per l'annuncio della nascita di Gesù, che ha portato felicità ai pastori, non a quelli che se ne stavano comodi nelle loro case. In El Salvador, se nel popolo la notizia ha prodotto grande allegria, c'è una minoranza che non si è sentita felice, ma che, essendo abituata alle manovre di palazzo e alla dissimulazione, ha sopportato e persino applaudito. In nome dello spirito di “riconciliazione” - e sottolineo le virgolette - si è persino consentita la presenza degli assassini. Ma per il popolo questo non è un segno di riconciliazione: è il segno che non si prova lo stesso dolore dei poveri. Conoscendo l'assassino, non si può accettare che gli venga assegnato un posto privilegiato al funerale del morto. Sto ripetendo quanto dice il popolo salvadoregno, e lo condivido. Così, i mezzi di comunicazione, che in realtà sono mezzi di confusione nelle mani della destra, amici e complici di assassini, dopo aver bollato Romero come guerrigliero e comunista, come un traditore del Vangelo, per poi accusare la guerriglia del suo omicidio, ora ne parlano come un santo. Neppure in molti vescovi la notizia ha prodotto allegria. Sono gli stessi che hanno la responsabilità di aver impedito al popolo di conoscere davvero Monsignore. Gli stessi che magari, per incontrare papa Francesco, indossano una croce di legno e poi si rimettono quella d'oro al termine dell'incontro. Possiamo dire che mons. Romero ha cambiato la gerarchia cattolica salvadoregna? No. Ha cambiato la fede, la speranza e la vita spirituale del popolo? Sì. Come Cristo ricorda, molti sono «simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d'ossa di morti e d'ogni immondizia». In questo caso si è molto imbiancato, ma il sepolcro è rimasto lo stesso. Dio, però, scrive dritto su righe storte. E come ripeto sempre, perché me lo ha insegnato il popolo, lo Spirito Santo vola anche se spennato. E produce sempre speranza. E fa sempre luce, anche nella massima oscurità.


Cosa pensi delle polemiche attorno allo slogan “Romero, martire per amore”?

La beatificazione di Romero si deve alla volontà di papa Francesco, per il quale il popolo prova una profonda gratitudine. Lo ribadisco: il popolo salvadoregno rivolge al papa un enorme ringraziamento, perché è stato lui il fattore essenziale di questa beatificazione. Piuttosto, il popolo si chiede per quale motivo Romero, in quanto martire, non sia stato direttamente canonizzato e sia stata necessaria la tappa intermedia della beatificazione. Riguardo allo slogan scelto, è stato come aprire una finestra in una casa disabitata. Si tratta di una frase assai limitante, perché, per prima cosa, l'amore deve avere una finalità e, per seconda, chi lo ha ucciso ha avuto motivi reali: Romero è stato assassinato per un odio molto concreto. Per i poveri, mons. Romero è martire perché ha detto la verità. Perché ha difeso i poveri. Perché ha annunciato la giustizia e denunciato l'ingiustizia. Perché ha compreso che la verità, come ha detto Gesù, ci rende liberi. E ha corso il rischio con tutti noi. Per questo, l'invito che rivolgiamo al mondo è quello di dare a questo slogan un cognome. Per lo Stato, il solo nome non basta, serve anche il cognome. E mons. Romero non può essere un martire senza cognome. Il popolo, pur essendo per natura rispettoso, pacifico - i violenti sono sempre quelli che hanno il potere - è rimasto assai perplesso dinanzi al fatto che la gerarchia salvadoregna non ha voluto mettere un cognome all'amore.

Da chi sono state prese tutte le decisioni sulla cerimonia di beatificazione?

È stata la commissione episcopale a decidere tutto. In certo modo, è come se avesse detto a tutti noi: non abbiamo bisogno delle vostre idee, abbiamo bisogno solo dei vostri soldi. Sono stati richiesti contributi in denaro, non in termini di idee. Nemmeno a quanti sono stati amici di Romero, durante la sua vita e dopo la sua morte. La maggior parte dei personaggi che hanno avuto un ruolo durante la cerimonia è sconosciuta al popolo, non ha una storia di militanza, non si è mai sporcata le mani con i poveri, è solo gente molto a suo agio nel mondo del potere e del denaro. Si è voluto organizzare la cerimonia in maniera mediatica, non per dire ciò che doveva essere detto. E, da quello che mi è stato riferito, la delusione è stata forte, perché la celebrazione non ha prodotto speranza. Non ha approfondito il tema del martirio, non solo il martirio di Monsignore, ma anche quello dei popoli oppressi. Né ha evidenziato la necessaria ricerca di concretezza evangelica. C'è chi, commentando la cerimonia, l'ha definita un caffè decaffeinato nella terra del caffè! 

Romero è stato riconosciuto come martire in odium fidei. C'è chi se ne è rallegrato, leggendo in tale riconoscimento un invito a prendere sul serio ciò che la fede comporta. E chi invece ha trovato la formula molto limitante rispetto per esempio a quella, tanto più efficace, dell'odium iustitiae. Tu cosa ne pensi?

La formula in odium fidei sembra esprimere un interesse: quello di evitare di condannare il fatto che dei cattolici uccidano un cristiano. Romero è un cristiano che è stato ucciso da cattolici, intendendo il cattolicesimo come una religione imperiale e il cristianesimo come il movimento di chi cammina per le strade con il Gesù delle moltitudini. Mi vengono in mente le parole espresse da mons. Romero quando un gruppo di una cinquantina di preti - io ne conosco alcuni - gli scrisse una lettera per consigliargli di abbassare i toni: Romero rispose dicendo che doveva parlare in maniera che i poveri lo capissero. E i poveri hanno bisogno di parole concrete, dirette, come quelle di Gesù. Se faccio un discorso che possono intendere solo gli addetti ai lavori, o solo le persone colte, la mia parola non arriverà al popolo. Così è per la formula in odium fidei. Se parliamo di fede, questa contiene un po' tutto. Ma il popolo dovrebbe farsi largo in questo ammasso di cose e andare in cerca di quello di cui ha bisogno, quando invece gli si sarebbe potuta offrire una parola molto più semplice e più diretta. Romero è morto perché ha detto la verità. Il popolo sente più vicina la verità che la fede, perché è la mancanza di verità che lo condanna all'ingiustizia, alla fame, alla disuguaglianza. La fede è così eterea che, alla domanda su cosa sia, la risposta più esatta che si può dare è che è un dono di Dio. È ora che i nostri fratelli che si proclamano servitori del popolo di Dio parlino come ha parlato Gesù con la samaritana, con l'emorroissa, con quanti venivano per ascoltare una parola di speranza. Se la mezza verità è la peggiore delle menzogne, lo stesso vale per il Vangelo: un Vangelo a metà è la peggiore delle falsità. Se le stesse Nazioni Unite hanno proclamato il 24 marzo come Giornata mondiale per il diritto alla verità, perché il Vaticano, che della verità ritiene di essere il massimo detentore, non ha proclamato Romero perlomeno martire per la verità?


Si è colta anche qualche critica al governo, accusato di voler strumentalizzare la figura di Romero. È una critica fondata?

Chi è che manipola Romero? Senz'altro non il popolo, considerando che Romero si è fatto popolo. Che rinunciò a tutti i privilegi della gerarchia per farsi popolo. Ad accusare il governo è una minoranza, proprio quella che maggiormente volta le spalle al popolo. Il fatto è che siamo stati talmente anestetizzati che ormai accettiamo persino i bombardamenti, la guerra e la morte di innocenti come cose naturali. E l'anestesia è accompagnata dall'amnesia, affinché si dimentichi presto. Esattamente come si mettono all'ingrasso i maiali, così veniamo inondati di notizie, in modo da non ricordarci niente. Il consumismo si incarica tanto dell'anestesia quanto dell'amnesia. Io posso assicurare che il governo attuale, che affronta tante difficoltà, e tutte indotte, non ha alcun interesse a strumentalizzare Romero. Sono certo che perlomeno il presidente Salvador Sánchez Cerén, che io conosco, sia interessato solo al fatto che Romero, per la sua capacità di correre rischi per la verità, venga riconosciuto come un cittadino modello, come il miglior esempio per i nostri giovani, come la fonte di maggiore speranza per i poveri. 

Una delle forzature più evidenti, e più ricorrenti, con cui si annacqua la figura di Romero è sostenere che egli condannò la violenza da qualunque parte venisse, senza distinzioni, omettendo di ricordare che di distinzioni Romero ne faceva eccome, ponendo come radice fondamentale di ogni altra violenza la violenza istituzionalizzata, quella cioè di una struttura sociale talmente iniqua da negare alle maggioranze i diritti più elementari. Tu, che la violenza l'hai ben conosciuta, cosa puoi dire al riguardo?

La violenza non nasce per generazione spontanea, ma è frutto della struttura sociale della proprietà. Oggi domina il regno del potere e del denaro. E le società legate al consumismo sono per natura violente. Per prima cosa bisogna capire cosa si intende per violenza. Dovrebbero spiegarci, per esempio, come mai Cristo ha detto che «il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono». In realtà, è importante distinguere tra violenza e delinquenza. La struttura dominante è violenta. Mentre quelli che si oppongono a questo dominio sono considerati delinquenti. Ed è per difendere tale dominio che si crea la legge, il cui obiettivo è criminalizzare i poveri: si dice che siamo tutti uguali dinanzi alla legge, ma di certo la legge non è uguale per tutti. Per questo, rispetto alla violenza, mons. Romero ne distingueva la provenienza in maniera netta, mostrando come non si possano mettere sullo stesso piano la violenza difensiva e quella offensiva. Del resto, se tutte le violenze fossero uguali, nessuno avrebbe diritto a difendersi. Ed è lo stesso magistero della Chiesa a riconoscere al popolo il diritto di difendersi. Il concetto di violenza richiede dunque grandi approfondimenti. Così come ci si deve interrogare a proposito di chi parla di pace. In questo momento pare che possano parlare di pace solo quelli che stanno facendo o finanziando la guerra. È il grande capitale finanziario transnazionale a fondarsi sulla violenza e sull'appropriazione delle nostre risorse, delle nostre miniere, della nostra acqua, e chi lo contesta viene considerato sovversivo e terrorista.


A proposito di violenza, l'aumento della criminalità nel Paese sembra inarrestabile. E si punta l'indice contro las maras, le bande che imperversano nelle città centroamericane. Cosa si dovrebbe fare per risolvere la situazione?

Per prima cosa, come si diceva prima, è la società del consumo capitalista a essere violenta. A partire dalla mia esperienza con il popolo, individuerei tre livelli di violenza: quella dei vertici imprenditoriali, i quali ricorrono alla corruzione, all'impunità, al contrabbando, all'evasione ed elusione fiscali, servendosi del crimine organizzato, un'industria dai profitti elevatissimi. E questo crimine organizzato, a sua volta, utilizza la rete de las maras, costituite da giovani poveri, perché siano queste a portare avanti i vari traffici illeciti. Così, per risolvere il problema de las maras, bisogna risalire alla struttura del potere, la struttura bancaria che utilizza il crimine organizzato per il riciclaggio di denaro (il fatto che le banche salvadoregne siano oggi a capitale colombiano vorrà certo dire qualcosa). I grandi capitali, che evadono ed eludono le imposte, hanno bisogno che il crimine organizzato attivi las maras per produrre insicurezza sociale e scoraggiare ogni mobilitazione. Per questo dico che la figlia prediletta della violenza è la delinquenza. E a noi vogliono farci credere che il problema in El Salvador sia quello dell'insicurezza sociale, guardandosi bene dallo spiegarci chi è che produce insicurezza. È come quando, per impedire la vendita di un castello, qualcuno inventa storie terribili di fantasmi in maniera da scoraggiare ogni possibile acquirente, portando avanti intanto, al suo interno, tutta una serie di affari illegali. Allo stesso modo, non solo in El Salvador, ma in Centroamerica e in tutta America Latina, si creano fantasmi, anche se in questo caso noi li vediamo per le strade. Dunque, per risolvere veramente il problema, dovrebbe cadere l'impero capitalista, e con esso la corruzione, i trattati di libero commercio, l'invasione dei nostri territori da parte del grande capitale. E in tutto ciò giocano un ruolo, naturalmente, anche l'addomesticamento prodotto dalla religione e la manipolazione del pensiero realizzata dai mezzi di comunicazione.


In questo quadro, qual è il tuo giudizio sull’attuale governo di El Salvador? Sta seguendo la stessa strada di quello precedente o sta percorrendo vie nuove?

È senza dubbio un governo diverso da quello che lo ha preceduto. Sánchez Cerén ha sicuramente la volontà politica di cambiare le cose, ma si trova un po' nella stessa situazione di papa Francesco, il quale è pieno di buona volontà, ma non riesce a trasformare quella che è una struttura millenaria. Rispetto a El Salvador, una malattia che dura da vent'anni non si cura in sei mesi. Se il governo di Mauricio Funes mancava di decisione politica, questo è un governo di transizione, costretto a procedere un passo alla volta, piano piano. E, in questo tempo di transizione, la destra sta sferrando un attacco diretto e lo fa con tutto l'appoggio politico ed economico di Washington. Ancora oggi l'Ambasciata Usa interviene su ogni aspetto. E il governo salvadoregno non ha le mani libere per rispondere alle aspettative popolari, dovendosi difendere dagli attacchi della destra. Per quello che può, fa, per esempio bloccando l'attività mineraria e la costruzione delle grandi dighe, ma il Parlamento ostacola qualsiasi riforma. 

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