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In El Salvador scricchiola l'impunità. Una speranza di giustizia per i martiri della Uca

In El Salvador scricchiola l'impunità. Una speranza di giustizia per i martiri della Uca

Tratto da: Adista Notizie n° 7 del 20/02/2016

38448 SAN SALVADOR-ADISTA. Il muro dell’impunità alla cui ombra, in El Salvador, hanno potuto dormire sonni tranquilli i responsabili del massacro dei sei gesuiti della Uca (cinque dei quali spagnoli), della loro cuoca Julia Elba e di sua figlia Celina è forse sul punto di sgretolarsi. La Polizia nazionale civile ha proceduto infatti all'arresto di quattro dei 17 militari coinvolti nella strage (di cui uno, René Emilio Ponce, già deceduto), in risposta all'ordine di cattura internazionale emesso il 5 gennaio scorso dal giudice dell'Audiencia Nacional di Madrid, Eloy Velasco, attraverso un codice rosso dell’Interpol, nell’ambito del processo avviato nel gennaio del 2009 in Spagna (a seguito della denuncia di due associazioni, una spagnola, l’Associazione per i Diritti Umani, e l’altra statunitense, il Centro di Giustizia e Responsabilità di San Francisco; v. Adista nn. 90/10 e 68/11). Un'operazione, quella della polizia, svoltasi poche ore dopo l'autorizzazione, da parte della giudice del Tribunale Federale del North Carolina, Kimberly A. Swank, all'estradizione in Spagna di un altro militare coinvolto, l'ex colonnello ed ex viceministro della Difesa, Inocente Montano, condannato per frode migratoria a 21 mesi di prigione, già scontati in una prigione federale del North Carolina, e ora in attesa solo del via libera finale all'estradizione da parte del Dipartimento di Stato.

Già nell'agosto del 2011, in realtà, il giudice Velasco aveva emesso un mandato di cattura internazionale, interpretato tuttavia dalle autorità salvadoregne – in evidente contraddizione con il diritto internazionale – appena come una richiesta a localizzare i militari, alloggiati nella Brigata Speciale di Sicurezza Militare salvadoregna, finché, nel 2012, la Corte Suprema di Giustizia di El Salvador non aveva respinto la richiesta di estradare in Spagna gli accusati, con la motivazione che, al momento del massacro, la legislazione del Paese proibiva l’estradizione di cittadini salvadoregni (v. Adista Notizie n. 20/12). A dimostrazione di come – aveva denunciato allora il direttore dell’Idhuca (l’Istituto dei diritti umani dell’Uca) Benjamín Cuéllar – gli intoccabili di un tempo fossero ancora tali, «per decisione ufficiale di tutti i poteri», in una «perversa cospirazione nel segno della menzogna, del silenzio e dell’impunità».

Già nel 1991, in realtà, sotto la pressione degli Stati Uniti, dove i gesuiti erano noti e ammirati (il Congresso Usa aveva addirittura condizionato più del 50% degli aiuti nordamericani alle Forze Armate salvadoregne all’individuazione e alla condanna degli assassini), erano stati processati il colonnello Guillermo Alfredo Benavides, direttore della Scuola Militare e membro dell’onnipotente gruppo di alti militari noto come la Tandona, i tenenti René Mendoza Vallecillos e José Ricardo Espinoza, il sottotenente Gonzalo Guevara Cerritos e cinque soldati del Battaglione Atlacatl, ma sette di loro, compresi i rei confessi, erano stati assolti, in un processo viziato da clamorose irregolarità. E gli unici due condannati, Benavides e Mendoza, erano stati rimessi in libertà appena 15 mesi più tardi grazie all’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani (accusato, quest'ultimo, di aver acconsentito alla strage e, in seguito, di aver coperto i militari coinvolti, occultando informazioni e avviando un’indagine viziata da palesi e gravi irregolarità, ma escluso dalle indagini del giudice Velasco per la mancanza di indizi rilevanti a suo carico). E se era stato Benavides a dare l’ordine diretto di uccidere Ignacio Ellacuría senza lasciare testimoni (sarebbero morti con lui gli spagnoli Segundo Montes, Ignacio Martín-Baró, Juan Ramón Moreno, Amando López e il salvadoregno Joaquín López y López, oltre a Julia Elba e Celina), gli stessi colleghi del colonnello insistevano sul fatto che egli non avrebbe mai agito senza autorizzazione previa di almeno uno dei leader della Tandona e mai lo avrebbe fatto per conto proprio. Una conclusione a cui era già arrivata la Commissione della Verità nel 1993, parlando di «prove materiali del fatto che la notte del 15 novembre 1989, l’allora colonnello René Emilio Ponce, alla presenza e in complicità con il generale Juan Rafael Bustillo, il colonnello Juan Orlando Zepeda, il colonnello Inocente Orlando Montano e il colonnello Francisco Elena Fuentes, diede l’ordine al colonnello Guillermo Alfredo Benavides di uccidere p. Ignacio Ellacuría e di non lasciare testimoni».

E proprio Benavides figura come uno dei quattro militari in pensione catturati il 5 febbraio, insieme ai sergenti Ramiro Ávalos Vargas e Tomás Zárpate Castillo e al caporale Ángel Pérez Vásquez, tutti esecutori materiali del massacro. La Polizia nazionale civile ha reso noto sul suo account Twitter che è ancora in corso «l'operazione per l'individuazione e l'arresto delle altre persone coinvolte, di cui si informerà in maniera opportuna». Quel che è certo, tuttavia, è che dall'emissione dell'ordine di cattura all'inizio dell'operazione, il 5 febbraio scorso, è passato esattamente un mese: tempo più che sufficiente per dare modo alla maggior parte dei responsabili, soprattutto i mandanti del crimine, di rendersi irreperibili.

In molti, in ogni caso, sperano che questa sia la volta buona per ottenere una giustizia negata per oltre 25 anni, malgrado le destre stiano già affilando i coltelli, parlando di rischi di polarizzazione sociale e di attentato allo spirito degli Accordi di pace. «C'è chi – denuncia il gesuita Rodolfo Cardenal (www.uca.edu.sv, 14/1) – invoca la misericordia come sotterfugio per giustificare l'impunità. Ma si tratta di uno strano concetto di misericordia. La misericordia non è permissiva. Significherebbe banalizzarla. Ed è proprio quello che fanno i militari salvadoregni accusati di crimini di lesa umanità rivendicando il perdono cristiano», ma ignorando, prosegue Cardenal, che «il perdono senza verità non sana» e che «neppure l'amnistia riconcilia».

«Hanno avuto 25 anni per chiedere perdono e non l'hanno mai fatto», evidenzia il rettore della Uca, Andreu Oliva (moncadalectores.blogspot.it, 8/2), il quale, a chi evoca il rischio di polarizzazione sociale, replica con decisione che «se fare giustizia significasse polarizzare la società, allora bisognerebbe chiudere la Corte Suprema di Giustizia ed eliminare il sistema giudiziario». In realtà, conclude, «l'unica maniera di ottenere riconciliazione è a partire da un riconoscimento della verità, dall'applicazione della giustizia e dalla riparazione dei danni causati alle vittime». 

* Nell'immagine il giardino creato da Don Obdulio, marito di Elba e padre di Celina, nel luogo in cui furuno uccisi i sei gesuiti e le due donne. Foto tratta dalla pagina Facebook Centro Monseñor Romero UCA. Immagine originale.

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