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Corridoi umanitari: dalle Chiese la risposta che l’Europa non trova. Intervista a Paolo Naso

Corridoi umanitari: dalle Chiese la risposta che l’Europa non trova. Intervista a Paolo Naso

Tratto da: Adista Notizie n° 8 del 27/02/2016

38453 ROMA-ADISTA. È atterrata all’aeroporto di Fiumicino lo scorso 3 febbraio la prima famiglia siriana in fuga dalla guerra e giunta in Italia grazie ai Corridoi umanitari di Mediterranean Hope, il progetto pilota promosso dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) e dalla Comunità di Sant’Egidio – dunque con una significativa valenza ecumenica – che consentirà l’arrivo in sicurezza, grazie al rilascio di visti per motivi umanitari, e l’accoglienza nel nostro Paese di un migliaio di profughi stanziati in Libano, Marocco ed Etiopia.

«Il progetto reagisce all’immobilismo delle politiche europee in materia di tutela e accoglienza dei richiedenti asilo», spiega ad Adista Paolo Naso, responsabile relazioni internazionali di Mediterranean Hope. «La situazione attuale, infatti, è tale per cui i potenziali rifugiati possono trovare accoglienza solo se rischiano la vita attraversando il Mediterraneo con i barconi. Giudicando questo meccanismo irrazionale e immorale, ci siamo chiesti se nella legislazione vigente vi fosse qualche “maglia” che potesse essere usata ed allargata per aprire una strada diversa. L’abbiamo trovata in un articolo del regolamento di Schengen che consente a qualsiasi Paese dell’Unione europea di rilasciare dei visti di ingresso per “protezione umanitaria”, una norma mai applicata ma abbastanza flessibile da consentire l’apertura di “canali umanitari” riservati a richiedenti asilo, soggetti vulnerabili, donne sole, minori non accompagnati, vittime di tratta».

Trovata la strada percorribile, resta comunque necessario aprire un confronto con gli Stati… 

Esatto. Arrivati a questo punto il problema era convincere le autorità consolari italiane a rilasciare visti di questo tipo. Ne è seguita una trattativa con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri, andata a buon fine, con l’obiettivo di una sperimentazione di 1.000 casi di protezione umanitaria per soggetti vulnerabili di varie nazionalità, concentrati nelle sedi dove vengono attivati i corridoi: in questo momento Libano e Marocco, ma in futuro anche l'Etiopia.

Quanto costa il progetto? Chi lo finanzia?

Il progetto è totalmente autofinanziato. I costi maggiori non sono quelli dell’arrivo in sicurezza in Italia, ma della prima fase di accompagnamento e integrazione nel nostro Paese, di cui gli enti promotori si fanno carico per un congruo periodo. Il finanziamento più consistente, sin qui, è arrivato dall'8 per mille della Chiesa valdese. Altri contributi sono quelli raccolti dalla Comunità di Sant'Egidio per l’accoglienza in Italia. Importante anche il sostegno di “Operazione colomba” della comunità papa Giovanni XXIII, che si è spesa sia nei campi in Libano sia per cercare reti di accoglienza in Italia. E poi ci sono le sorprese, che danno la misura delle grandi risorse della società civile: l’Alitalia, ad esempio, ha offerto i voli dei 100 profughi in arrivo a breve.

Perché un progetto come questo?

Il progetto è gestito, insieme, dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) e dalla comunità di Sant'Egidio, che nei vari Paesi da cui partono i “corridoi” operano in relazione con varie associazioni locali. Ragioni comuni e condivise di questo impegno sono state il dovere cristiano dell’accoglienza e del soccorso a chi soffre; ma anche il ragionamento politico sull'immobilismo delle istituzioni europee e sull'esigenza di dare vita a una sperimentazione che speriamo possa essere condivisa da altri Paesi dell'Ue.

Il 3 febbraio, grazie alle vostra iniziativa sono arrivati a Roma i primi profughi in fuga dalla guerra in Siria. Chi sono? Qual è la loro storia?

Purtroppo la storia della prima famiglia arrivata con i nostri “corridoi umanitari” non ha nulla di eccezionale perché riflette la tragica routine della guerra dell'Isis contro le popolazioni civili di alcune regioni della Siria: i bombardamenti, le violenze, la fuga in Libano, la sopravvivenza in un tugurio per ben due anni. La particolarità è che nel nucleo familiare di quattro persone c’era anche Falak, una bambina di 7 anni ammalata di un tumore che non è stato curato e che ha determinato la perdita di un occhio. Ora la bambina è impegnata nei cicli di chemioterapia ma abbiamo buone speranze che il tumore non sia esteso.

Sono previsti altri arrivi? Come si svilupperà il progetto nel futuro?

La sperimentazione è per 1.000 casi, il prossimo contingente di circa 100 persone è in arrivo a giorni. Intanto i nostri operatori stano lavorando sia in Libano che in Marocco per produrre le nuove liste da sottoporre alle sedi consolari.

L’Europa sta gestendo la questione immigrazione soprattutto in termini di difesa delle frontiere. Cosa è allora il vostro progetto: supplenza o denuncia?

Un appello e una provocazione. Ci appelliamo al diritto internazionale e alla coscienza dell’Europa e degli europei che, di fronte a casi concreti, mostra di avere disponibilità e risorse, ma che non riesce a concepire una soluzione politica alla sfida dell'accoglienza dei profughi. Al tempo stesso mi pare che il progetto lanci una provocazione all’Europa perché dimostra che, mentre si discute e si cerca la soluzione più equilibrata e sostenibile, qualcosa si può fare. E al mondo dell'associazionismo dimostra che ogni tanto si devono tentare strade nuove e autonome, che non si può sempre vincolare l’impegno in un progetto ai fondi che si ricevono dall’Europa o da un ministero, ma che occorre recuperare la spinta più vera e genuina dell'azione e del servizio volontario reso con generosità, fantasia e creatività a chi più soffre e più è in pericolo.

* Immagine di Dlmagyarorszg-Schmidt Andrea, tratta dal sito Commons Wikimedia. Licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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